Ora che il mantra del debito pubblico, per frequenza e uniformità di
dichiarazioni è sulla bocca di tutti, si sente sempre meno parlare
(finalmente ) di Craxi.
Perché tra le tante beffe che
gli italiani hanno rischiato di correre c’è stata anche quella di una
rivisitazione corretta (alla grappa verrebbe da dire) e agiografica
delle gesta del pelatone socialista come gigante del pensiero politico.
Il gigantismo di Craxi, in effetti, si è sviluppato in tutt’altra direzione: il debito che gli anni del suo mal governare hanno fatto lievitare a dismisura riducendo questo paese a un repubblica dei mandolini che in Apicella, musicista, e Berlusconi, paroliere, trovano i degni, e mai fino in fondo compresi, epigoni.
I tentativi di addobbare le piazze dei comuni con busti e bustini raffiguranti il leader socialista con lo sguardo da statista, sembrano essere passati in secondo piano. Un po’ perché le pubbliche amministrazioni non hanno più nemmeno gli occhi per piangere e un po’ perché le ricostruzioni storico-economiche ci indicano gli anni di Tangentopoli come anni determinanti (315 miliardi di euro) per la costruzione del colossale debito nazionale.
E quindi, oltre ai figli che di questi tempi tacciono, i vari Sacconi e Brunetta, Ferrara e l’immancabile De Michelis. Trovano poco consono rinverdire le gesta del loro mentore. E il riformismo socialista, in salsa craxiana, è stato derubricato, alla pari del giansenismo in teologia, a corrente politica dalla dubbia utilità.
Cosa rimane? Il debito, innanzitutto, come lascito economico. L’odio per i comunisti come lascito ideologico. Purtroppo il primo è concreto, mentre il secondo è astratto quanto la presenza dei comunisti nella vita politica italiana.
Comunque, se dalle crisi di sistema scaturiscono opportunità, una di queste è sicuramente quella di far scivolare nell’oblio quell’esperienza politica. Possibilmente negando, in prospettiva futura, anche i lauti finanziamenti alla Fondazione Craxi e reindirizzandoli a qualche più utile fondazione che si occupa di ricerca o di malattie rare.
Il gigantismo di Craxi, in effetti, si è sviluppato in tutt’altra direzione: il debito che gli anni del suo mal governare hanno fatto lievitare a dismisura riducendo questo paese a un repubblica dei mandolini che in Apicella, musicista, e Berlusconi, paroliere, trovano i degni, e mai fino in fondo compresi, epigoni.
I tentativi di addobbare le piazze dei comuni con busti e bustini raffiguranti il leader socialista con lo sguardo da statista, sembrano essere passati in secondo piano. Un po’ perché le pubbliche amministrazioni non hanno più nemmeno gli occhi per piangere e un po’ perché le ricostruzioni storico-economiche ci indicano gli anni di Tangentopoli come anni determinanti (315 miliardi di euro) per la costruzione del colossale debito nazionale.
E quindi, oltre ai figli che di questi tempi tacciono, i vari Sacconi e Brunetta, Ferrara e l’immancabile De Michelis. Trovano poco consono rinverdire le gesta del loro mentore. E il riformismo socialista, in salsa craxiana, è stato derubricato, alla pari del giansenismo in teologia, a corrente politica dalla dubbia utilità.
Cosa rimane? Il debito, innanzitutto, come lascito economico. L’odio per i comunisti come lascito ideologico. Purtroppo il primo è concreto, mentre il secondo è astratto quanto la presenza dei comunisti nella vita politica italiana.
Comunque, se dalle crisi di sistema scaturiscono opportunità, una di queste è sicuramente quella di far scivolare nell’oblio quell’esperienza politica. Possibilmente negando, in prospettiva futura, anche i lauti finanziamenti alla Fondazione Craxi e reindirizzandoli a qualche più utile fondazione che si occupa di ricerca o di malattie rare.
Achille Saletti, Il Fattoquotidiano
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