Quella alla quale stiamo assistendo è
una lezione di ideologia della globalizzazione. Semplificando: la
globalizzazione impone l’esaltazione del profitto e lo schiacciamento
dei salari e dei diritti. Chi lo fa è premiato dal mercato. Berlusconi e
Tremonti avevano promesso di farlo e non l’hanno fatto; Monti si
impegnerà a farlo, ma anche lui ancora non ha trasformato le promesse in
atti di governo. E i mercati puniscono l’Italia invitandola a darsi una
mossa. Il modello per la globalizzazione è quello cinese. Certo, alcuni
si lamentano per la mancanza di libertà, per la concorrenza di prezzo
di merci prodotte nei gulag.
Ma si fa finta di dimenticare che quel modello è stato alimentato dagli investimenti produttivi che hanno attirato nel paese decine di migliaia di multinazionale attirate dal basso costo del lavoro e dalla mancanza della libertà che più interessa ai padroni: quella dei diritti dei lavoratori.
Un paese in forte crescita è appetibile, ma anche se un paese è fermo o addirittura arretra può essere una buona occasione di investimento. Ovviamente finanziario. Anzi speculativo. Oltretutto la globalizzazione ha la straordinaria capacità di vedere realizzate le proprie previsioni. I «consigli» agli investitori che elargiscono le tre multinazionali del rating si basano su previsioni che immancabilmente si realizzano. D’altra parte è sufficiente un dubbio (a volte reale) sulla solidità di un paese, per vedere realizzata la previsione: disinvestimenti sui titoli pubblici di quel paese, aumento dei tassi, manovre restrittive «suggerite». A una agenzia di rating non interessa andare a vedere qual è la distribuzione dei redditi in un determinato paese; nessuna ha mai avvertito che stava per esplodere la bolla dei mutui subprime. E questo perché non si occupano che di solidità e finanza. Anzi, di solidità della finanza, visto che mai un’agenzia di rating ha suggerito di far fallire una banca (sono sempre generose nell’attribuire i rating), anche la più truffaldina. Al contrario, la loro religione impone il salvataggio delle banche per non far esplodere l’intero sistema.
Non sono gli unici «sciacalli»: chi fa soldi con i soldi non guarda in faccia nessuno. L’Italia è da mesi nel vortice non solo per colpa del precedente governo, ma perché le banche e le istituzioni finanziarie e i vari fondi (pensione e di investimento) hanno cominciato a disfarsi dei Btp italiani. A dare il via è stata una grande banca tedesca; a seguire le banche del resto del mondo. Insomma, la crisi dell’euro – come la si definisce – è nata all’interno dell’area dell’euro. Così come la crisi greca che, se affrontata tempestivamente dalla fine del 2009, sarebbe stata meno dolorosa, soprattutto per gli incolpevoli cittadini greci. Ma avete mai sentito qualche istituzione internazionale difendere i diritti a vivere dei greci?
La verità è che la Grecia ha fatto comodo. Prima come mercato di sbocco per le merci in particolare tedesche facilitato dall’entrata del paese nell’area dell’euro fortemente voluta dalla Germania. Ora la Grecia fa comodo come esempi per gli altri stati che se in difficoltà devono adottare politiche liberiste. Tutto questo sta mettendo in crisi l’Europa e l’euro: non esistono paesi che possono rimanere indenni dal trasmettersi di questa crisi. Neppure la Germania. Una situazione assurda, la cui drammaticità è aggravata dalla mancanza di una Europa politica, dei popoli. Invece a «dare le carte» sono paesi i cui governi (Francia e Germania) tra pochi mesi dovranno affrontare il giudizio elettorale che li punirà, ma che ora, per una manciata di voti, condizionano e bloccano opzioni non liberiste per la fuoriuscita della crisi. Un banchiere ieri mi ha confessato: «Speriamo che la Germania per la terza volta in un secolo non sia responsabile della distruzione dell’Europa». Sperare costa poco. Intanto conviene prepararci a un’altra Italia e a un’altra Europa.
Ma si fa finta di dimenticare che quel modello è stato alimentato dagli investimenti produttivi che hanno attirato nel paese decine di migliaia di multinazionale attirate dal basso costo del lavoro e dalla mancanza della libertà che più interessa ai padroni: quella dei diritti dei lavoratori.
Un paese in forte crescita è appetibile, ma anche se un paese è fermo o addirittura arretra può essere una buona occasione di investimento. Ovviamente finanziario. Anzi speculativo. Oltretutto la globalizzazione ha la straordinaria capacità di vedere realizzate le proprie previsioni. I «consigli» agli investitori che elargiscono le tre multinazionali del rating si basano su previsioni che immancabilmente si realizzano. D’altra parte è sufficiente un dubbio (a volte reale) sulla solidità di un paese, per vedere realizzata la previsione: disinvestimenti sui titoli pubblici di quel paese, aumento dei tassi, manovre restrittive «suggerite». A una agenzia di rating non interessa andare a vedere qual è la distribuzione dei redditi in un determinato paese; nessuna ha mai avvertito che stava per esplodere la bolla dei mutui subprime. E questo perché non si occupano che di solidità e finanza. Anzi, di solidità della finanza, visto che mai un’agenzia di rating ha suggerito di far fallire una banca (sono sempre generose nell’attribuire i rating), anche la più truffaldina. Al contrario, la loro religione impone il salvataggio delle banche per non far esplodere l’intero sistema.
Non sono gli unici «sciacalli»: chi fa soldi con i soldi non guarda in faccia nessuno. L’Italia è da mesi nel vortice non solo per colpa del precedente governo, ma perché le banche e le istituzioni finanziarie e i vari fondi (pensione e di investimento) hanno cominciato a disfarsi dei Btp italiani. A dare il via è stata una grande banca tedesca; a seguire le banche del resto del mondo. Insomma, la crisi dell’euro – come la si definisce – è nata all’interno dell’area dell’euro. Così come la crisi greca che, se affrontata tempestivamente dalla fine del 2009, sarebbe stata meno dolorosa, soprattutto per gli incolpevoli cittadini greci. Ma avete mai sentito qualche istituzione internazionale difendere i diritti a vivere dei greci?
La verità è che la Grecia ha fatto comodo. Prima come mercato di sbocco per le merci in particolare tedesche facilitato dall’entrata del paese nell’area dell’euro fortemente voluta dalla Germania. Ora la Grecia fa comodo come esempi per gli altri stati che se in difficoltà devono adottare politiche liberiste. Tutto questo sta mettendo in crisi l’Europa e l’euro: non esistono paesi che possono rimanere indenni dal trasmettersi di questa crisi. Neppure la Germania. Una situazione assurda, la cui drammaticità è aggravata dalla mancanza di una Europa politica, dei popoli. Invece a «dare le carte» sono paesi i cui governi (Francia e Germania) tra pochi mesi dovranno affrontare il giudizio elettorale che li punirà, ma che ora, per una manciata di voti, condizionano e bloccano opzioni non liberiste per la fuoriuscita della crisi. Un banchiere ieri mi ha confessato: «Speriamo che la Germania per la terza volta in un secolo non sia responsabile della distruzione dell’Europa». Sperare costa poco. Intanto conviene prepararci a un’altra Italia e a un’altra Europa.
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