di Angelo Marano (nelmerito.com del 18 novembre 2011)
Malgrado le molte contrapposizioni, spesso strumentali, in ambito pensionistico troppo spesso vi è carenza di analisi circostanziate. In particolare, sull’età di pensionamento, la considerazione che starebbe a giustificare in modo incontrovertibile la necessità di un aumento è che, se aumenta la speranza di vita, deve allungarsi anche la durata della vita lavorativa; altrimenti, se la speranza di vita a 65 anni aumenterà di cinque anni in cinquanta anni, il bilancio pubblico si dovrà caricare in media di altri cinque anni di pensione per ciascun pensionato, con conseguente, insostenibile, aumento della spesa pubblica. Tale argomentazione è spesso proposta come talmente evidente da non richiedere ulteriori indagini; ma risulta inconsistente ad un’analisi più attenta.
1) Innanzitutto, presupporrebbe che si dia conto di quanto l’età di pensionamento è già aumentata negli anni recenti. Cosa difficile, un po’ perché la memoria è corta, un po’ perché i ripetuti interventi legislativi, succedutisi a partire dagli anni ’90, richiedono di districarsi in una complessa stratificazione di norme. In ogni caso, considerando anche l’operare delle finestre, ovvero di quel meccanismo per cui, una volta maturati i requisiti per il pensionamento, un lavoratore deve continuare l’attività per un ulteriore lasso di tempo (fino a 18 mesi), ancora nel 2000 i dipendenti potevano andare in pensione di anzianità a 54 anni e 4,5 mesi se pubblici, a 55 anni e 4,5 mesi se privati; la pensione di vecchiaia si maturava ancor prima dei 60 anni per le donne e dei 65 per gli uomini (fino al 1993 erano 55 e 60 anni, rispettivamente). Nel 2012 il pensionamento di anzianità, di nuovo considerando anche le finestre, non potrà avvenire prima dei 61 anni, così come il pensionamento di vecchiaia per le dipendenti private, mentre il pensionamento di vecchiaia per tutti gli altri richiederà almeno 66 anni. Già a legislazione vigente (ottobre 2011), considerando le proiezioni Eurostat sull’aumento della speranza di vita in Italia, nel 2026 il pensionamento di anzianità sarà possibile non prima dei 63,5 anni e il pensionamento di vecchiaia quattro anni dopo; nel 2050 il limite di età per il pensionamento di vecchiaia sarà superiore a 69 anni (4 anni in meno il requisito per l’anzianità).
Malgrado le molte contrapposizioni, spesso strumentali, in ambito pensionistico troppo spesso vi è carenza di analisi circostanziate. In particolare, sull’età di pensionamento, la considerazione che starebbe a giustificare in modo incontrovertibile la necessità di un aumento è che, se aumenta la speranza di vita, deve allungarsi anche la durata della vita lavorativa; altrimenti, se la speranza di vita a 65 anni aumenterà di cinque anni in cinquanta anni, il bilancio pubblico si dovrà caricare in media di altri cinque anni di pensione per ciascun pensionato, con conseguente, insostenibile, aumento della spesa pubblica. Tale argomentazione è spesso proposta come talmente evidente da non richiedere ulteriori indagini; ma risulta inconsistente ad un’analisi più attenta.
1) Innanzitutto, presupporrebbe che si dia conto di quanto l’età di pensionamento è già aumentata negli anni recenti. Cosa difficile, un po’ perché la memoria è corta, un po’ perché i ripetuti interventi legislativi, succedutisi a partire dagli anni ’90, richiedono di districarsi in una complessa stratificazione di norme. In ogni caso, considerando anche l’operare delle finestre, ovvero di quel meccanismo per cui, una volta maturati i requisiti per il pensionamento, un lavoratore deve continuare l’attività per un ulteriore lasso di tempo (fino a 18 mesi), ancora nel 2000 i dipendenti potevano andare in pensione di anzianità a 54 anni e 4,5 mesi se pubblici, a 55 anni e 4,5 mesi se privati; la pensione di vecchiaia si maturava ancor prima dei 60 anni per le donne e dei 65 per gli uomini (fino al 1993 erano 55 e 60 anni, rispettivamente). Nel 2012 il pensionamento di anzianità, di nuovo considerando anche le finestre, non potrà avvenire prima dei 61 anni, così come il pensionamento di vecchiaia per le dipendenti private, mentre il pensionamento di vecchiaia per tutti gli altri richiederà almeno 66 anni. Già a legislazione vigente (ottobre 2011), considerando le proiezioni Eurostat sull’aumento della speranza di vita in Italia, nel 2026 il pensionamento di anzianità sarà possibile non prima dei 63,5 anni e il pensionamento di vecchiaia quattro anni dopo; nel 2050 il limite di età per il pensionamento di vecchiaia sarà superiore a 69 anni (4 anni in meno il requisito per l’anzianità).
Dunque, in 50 anni il
requisito per la pensione di vecchiaia è destinato ad aumentare di più
di 5 anni per gli uomini e di 10 per le donne, mentre quello per il
pensionamento di anzianità ad aumentare di più di 10 anni; tutto ciò, a
fronte di un aumento della speranza di vita nel cinquantennio attorno ai
5 anni. Si potrà replicare che le età di pensionamento di partenza
erano troppo basse, e probabilmente è vero, tuttavia decidere da quale
età partire per aumentare l’età di pensionamento in linea con la
speranza di vita è arbitrario e andrebbe adeguatamente argomentato.
2) Ancora più rilevante è, a mio parere, un’altra considerazione. Se pretendere che prolunghino l’attività i lavoratori più senior può avere senso in piena occupazione, diventa una strategia problematica quando è diffusa la disoccupazione, specie se giovanile. E’ evidente che, in questo modo, si stanno lasciando fuori dal mercato del lavoro – o relegando ai margini – le coorti più giovani e, tipicamente, preparate, per continuare ad utilizzare lavoratori di maggiore esperienza ma avanti con gli anni, spesso demotivati e poco aggiornati. Si noti, questo è un problema dell’Italia molto più che degli altri paesi. Perché, come emerge chiaramente dai dati europei, mentre in Germania l’80% dei lavoratori in ogni classe di età possiede almeno un diploma di scuola secondaria superiore, non solo il dato italiano è molto più basso, ma peggiora sostanzialmente nelle coorti di età più avanzate, cosicché, mentre sui 25-29enni il gap è di 15 punti (il 90% di diplomati in Germania, il 75% in Italia), esso è superiore ai 30 punti (89% contro 58%) sui lavoratori 55-59enni. Il caso italiano spicca, in negativo, anche rispetto a quello di Francia e Regno Unito e anche se consideriamo, invece dei lavoratori, la popolazione complessiva. Dunque, costringiamo a lavorare di più individui in gran parte con un basso titolo di studio, laddove sotto-utilizziamo le generazioni più giovani e preparate; qui, probabilmente, potrebbe trovarsi uno degli “intoppi” che contribuiscono all’incapacità dell’Italia di reggere il passo con gli altri paesi. Si potrà obiettare che non è possibile, stanti le condizioni del bilancio pubblico, né prepensionare gli anziani né assumere i giovani; non si vuole qui argomentare in favore del dissesto della finanza pubblica, tuttavia andrebbe riconosciuto che il problema è rilevante per il futuro del paese; spetterebbe, invero, ai tecnici individuare percorsi e opportune soluzioni.
3) Un ulteriore elemento che andrebbe considerato riguarda i requisiti di pensionamento nel nuovo regime pensionistico contributivo, cui sono soggetti coloro che sono entrati nel mercato del lavoro dal 1995. Nel sistema contributivo, infatti, l’età di pensionamento non dovrebbe contare. Se il sistema pensionistico restituisce semplicemente i contributi dei lavoratori, suddividendo il risparmio pensionistico (virtuale) sugli anni di residua vita attesi, allora dovrebbe essere concessa massima flessibilità nell’età di pensionamento: a condizione che si maturi un minimo, per non pesare altrimenti sulle finanze pubbliche, dovrebbe essere a completa discrezione del lavoratore se chiedere presto una pensione bassa o evitare di intaccare il proprio risparmio pensionistico per conseguire una pensione più elevata. In effetti, la riforma pensionistica del 1995 permetteva di scegliere liberamente il pensionamento in una finestra di età 57-65 anni. Flessibilità ormai venuta totalmente meno (salvo una irrilevante deroga fino al 2016) con l’imposizione ai pensionati contributivi degli stessi limiti di età che si applicano agli altri. Invero, il principio contributivo e la flessibilità nell’età di pensionamento sarebbero totalmente coerenti con la modellistica dominante delle scelte individuali, laddove l’imposizione di un’età minima di pensionamento viene generalmente attribuita all’operato di un “dittatore benevolente”. Appare in tal senso strano che nessun economista, fra i tanti che dell’appartenenza al filone liberale non fanno mistero, trovi contraddizione alcuna fra tale appartenenza e il sostenere la necessità di ulteriori aumenti dell’età di pensionamento anche per i lavoratori rientranti nel regime contributivo.
Se quanto sopra illustrato ha un senso, perché l’aumento dell’età di pensionamento è comunque costantemente al centro dell’agenda politica? Perché serve a far cassa. Ma dire che l’aumento dell’età di pensionamento serve a fare cassa individua automaticamente la ragioneria generale dello stato quale organo di propulsione e gestione degli interventi; ad essa spetta far quadrare i conti, conciliando in qualche modo le priorità di governo e parlamento con il rispetto dei vincoli costituzionali e comunitari al bilancio. In tal senso, si fa presto a fare un conto di massima: con pensioni medie dell’ordine di 15mila euro l’anno, se costringo 100mila lavoratori a rinviare di un anno il pensionamento ridurrò la spesa pubblica di 1,5 miliardi di euro (anche se l’effetto sarà in parte riassorbito col tempo). Dunque, l’aumento dell’età di pensionamento è uno strumento che offre un sostanzioso e immediato risparmio, per giunta apparentemente poco doloroso, giacché costringere qualcuno a lavorare di più è cosa ben diversa dal privarlo del reddito. Uno strumento perfettamente coerente con l’approccio proprio della ragioneria e il cui uso, per altro, può essere reiterato all’occorrenza. Del tutto coerente con lo stesso approccio è anche che l’aumento dell’età venga applicata a tutti indistintamente, anche ai lavoratori soggetti al contributivo. E coerente è anche che, qualora non vi siano le condizioni politiche per un esplicito aumento dell’età, esso venga nascosto nelle pieghe dei provvedimenti, com’è avvenuto, ad esempio, con l’introduzione del meccanismo delle finestre nella riforma del 1995 e con il loro appesantimento negli anni successivi.
Se quella descritta è la, legittima, logica ragionieristica, è tuttavia da dimostrare che essa sola debba definire la politica pensionistica del paese. In realtà, le pesanti controindicazioni che essa si porta dietro suggeriscono che sarebbe indispensabile affiancarle un’adeguata elaborazione di tipo economico. Perché, ad esempio, la logica ragionieristica non si occupa degli effetti sulla credibilità dello stato delle continue modifiche della legislazione e di clausole vessatorie, come quella delle finestre, che travolgono la certezza del diritto e la capacità di programmazione dei cittadini; in effetti, chiunque abbia a che fare con lavoratori oltre i cinquanta anni può rendersi immediatamente conto di come il continuo spostare l’asticella dei requisiti minimi stia non solo generando incertezze e paure, ma anche minando la fiducia nelle istituzioni. Perché, ancora, la logica ragionieristica può non interessarsi all’effetto complessivo, sul livello di produttività e di crescita del paese, oltre che sulla coesione sociale, di operazioni che hanno l’effetto di mantenere al lavoro lavoratori anziani con bassa scolarità e tenere fuori lavoratori giovani e qualificati; così come può non interessarsi al se e come vengano attivati programmi di formazione e aggiornamento per i lavoratori anziani che verranno forzatamente trattenuti al lavoro. Tutte cose di cui, invece, sarebbe utile e opportuno si occupassero gli economisti e discutesse la società, non per aumentare la spesa e il debito, bensì per individuare proposte e soluzioni che possano coniugare tanto gli equilibri di breve del bilancio che quelli di lungo, alimentando al tempo stesso le prospettive di sviluppo del paese.
2) Ancora più rilevante è, a mio parere, un’altra considerazione. Se pretendere che prolunghino l’attività i lavoratori più senior può avere senso in piena occupazione, diventa una strategia problematica quando è diffusa la disoccupazione, specie se giovanile. E’ evidente che, in questo modo, si stanno lasciando fuori dal mercato del lavoro – o relegando ai margini – le coorti più giovani e, tipicamente, preparate, per continuare ad utilizzare lavoratori di maggiore esperienza ma avanti con gli anni, spesso demotivati e poco aggiornati. Si noti, questo è un problema dell’Italia molto più che degli altri paesi. Perché, come emerge chiaramente dai dati europei, mentre in Germania l’80% dei lavoratori in ogni classe di età possiede almeno un diploma di scuola secondaria superiore, non solo il dato italiano è molto più basso, ma peggiora sostanzialmente nelle coorti di età più avanzate, cosicché, mentre sui 25-29enni il gap è di 15 punti (il 90% di diplomati in Germania, il 75% in Italia), esso è superiore ai 30 punti (89% contro 58%) sui lavoratori 55-59enni. Il caso italiano spicca, in negativo, anche rispetto a quello di Francia e Regno Unito e anche se consideriamo, invece dei lavoratori, la popolazione complessiva. Dunque, costringiamo a lavorare di più individui in gran parte con un basso titolo di studio, laddove sotto-utilizziamo le generazioni più giovani e preparate; qui, probabilmente, potrebbe trovarsi uno degli “intoppi” che contribuiscono all’incapacità dell’Italia di reggere il passo con gli altri paesi. Si potrà obiettare che non è possibile, stanti le condizioni del bilancio pubblico, né prepensionare gli anziani né assumere i giovani; non si vuole qui argomentare in favore del dissesto della finanza pubblica, tuttavia andrebbe riconosciuto che il problema è rilevante per il futuro del paese; spetterebbe, invero, ai tecnici individuare percorsi e opportune soluzioni.
3) Un ulteriore elemento che andrebbe considerato riguarda i requisiti di pensionamento nel nuovo regime pensionistico contributivo, cui sono soggetti coloro che sono entrati nel mercato del lavoro dal 1995. Nel sistema contributivo, infatti, l’età di pensionamento non dovrebbe contare. Se il sistema pensionistico restituisce semplicemente i contributi dei lavoratori, suddividendo il risparmio pensionistico (virtuale) sugli anni di residua vita attesi, allora dovrebbe essere concessa massima flessibilità nell’età di pensionamento: a condizione che si maturi un minimo, per non pesare altrimenti sulle finanze pubbliche, dovrebbe essere a completa discrezione del lavoratore se chiedere presto una pensione bassa o evitare di intaccare il proprio risparmio pensionistico per conseguire una pensione più elevata. In effetti, la riforma pensionistica del 1995 permetteva di scegliere liberamente il pensionamento in una finestra di età 57-65 anni. Flessibilità ormai venuta totalmente meno (salvo una irrilevante deroga fino al 2016) con l’imposizione ai pensionati contributivi degli stessi limiti di età che si applicano agli altri. Invero, il principio contributivo e la flessibilità nell’età di pensionamento sarebbero totalmente coerenti con la modellistica dominante delle scelte individuali, laddove l’imposizione di un’età minima di pensionamento viene generalmente attribuita all’operato di un “dittatore benevolente”. Appare in tal senso strano che nessun economista, fra i tanti che dell’appartenenza al filone liberale non fanno mistero, trovi contraddizione alcuna fra tale appartenenza e il sostenere la necessità di ulteriori aumenti dell’età di pensionamento anche per i lavoratori rientranti nel regime contributivo.
Se quanto sopra illustrato ha un senso, perché l’aumento dell’età di pensionamento è comunque costantemente al centro dell’agenda politica? Perché serve a far cassa. Ma dire che l’aumento dell’età di pensionamento serve a fare cassa individua automaticamente la ragioneria generale dello stato quale organo di propulsione e gestione degli interventi; ad essa spetta far quadrare i conti, conciliando in qualche modo le priorità di governo e parlamento con il rispetto dei vincoli costituzionali e comunitari al bilancio. In tal senso, si fa presto a fare un conto di massima: con pensioni medie dell’ordine di 15mila euro l’anno, se costringo 100mila lavoratori a rinviare di un anno il pensionamento ridurrò la spesa pubblica di 1,5 miliardi di euro (anche se l’effetto sarà in parte riassorbito col tempo). Dunque, l’aumento dell’età di pensionamento è uno strumento che offre un sostanzioso e immediato risparmio, per giunta apparentemente poco doloroso, giacché costringere qualcuno a lavorare di più è cosa ben diversa dal privarlo del reddito. Uno strumento perfettamente coerente con l’approccio proprio della ragioneria e il cui uso, per altro, può essere reiterato all’occorrenza. Del tutto coerente con lo stesso approccio è anche che l’aumento dell’età venga applicata a tutti indistintamente, anche ai lavoratori soggetti al contributivo. E coerente è anche che, qualora non vi siano le condizioni politiche per un esplicito aumento dell’età, esso venga nascosto nelle pieghe dei provvedimenti, com’è avvenuto, ad esempio, con l’introduzione del meccanismo delle finestre nella riforma del 1995 e con il loro appesantimento negli anni successivi.
Se quella descritta è la, legittima, logica ragionieristica, è tuttavia da dimostrare che essa sola debba definire la politica pensionistica del paese. In realtà, le pesanti controindicazioni che essa si porta dietro suggeriscono che sarebbe indispensabile affiancarle un’adeguata elaborazione di tipo economico. Perché, ad esempio, la logica ragionieristica non si occupa degli effetti sulla credibilità dello stato delle continue modifiche della legislazione e di clausole vessatorie, come quella delle finestre, che travolgono la certezza del diritto e la capacità di programmazione dei cittadini; in effetti, chiunque abbia a che fare con lavoratori oltre i cinquanta anni può rendersi immediatamente conto di come il continuo spostare l’asticella dei requisiti minimi stia non solo generando incertezze e paure, ma anche minando la fiducia nelle istituzioni. Perché, ancora, la logica ragionieristica può non interessarsi all’effetto complessivo, sul livello di produttività e di crescita del paese, oltre che sulla coesione sociale, di operazioni che hanno l’effetto di mantenere al lavoro lavoratori anziani con bassa scolarità e tenere fuori lavoratori giovani e qualificati; così come può non interessarsi al se e come vengano attivati programmi di formazione e aggiornamento per i lavoratori anziani che verranno forzatamente trattenuti al lavoro. Tutte cose di cui, invece, sarebbe utile e opportuno si occupassero gli economisti e discutesse la società, non per aumentare la spesa e il debito, bensì per individuare proposte e soluzioni che possano coniugare tanto gli equilibri di breve del bilancio che quelli di lungo, alimentando al tempo stesso le prospettive di sviluppo del paese.
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