È un segno dei tempi che sia un banchiere, anzi IL banchiere europeo
per eccellenza, Mario Draghi, a proporre all’opinione pubblica europea
il più importante manifesto politico di questi mesi. Perché l’articolo
del presidente della BCE pubblicato sul settimanale tedesco “Die Zeit”
(con un titolo cretino che la dice lunga sulle ossessioni monomaniacali
dell’establishment di quel paese: “Così l’euro resta stabile!”) è un
vero e proprio manifesto politico.
Certo, tutti i commentatori sono andati a cercare, in fondo al testo
di Draghi, le parole sulla BCE e su quello che intende fare per evitare
l’implosione dell’area valutaria. E non sono stati delusi. Draghi
infatti afferma, a beneficio dei lettori tedeschi, che la BCE “farà
quanto necessario per garantire la stabilità dei prezzi. Resterà
indipendente. E opererà sempre nell’ambito del proprio mandato”. Ma
aggiunge, a beneficio dei lettori di quasi tutti gli altri paesi
europei, che “la fedeltà al proprio mandato può richiedere di andare
oltre le consuete misure di politica monetaria”. Questo avviene quando
“nei mercati dei capitali predominano paura e irrazionalità, quando il
mercato finanziario comune torna a suddividersi lungo le linee tracciate
dai confini nazionali”: ossia quando, come sta accadendo in questi
mesi, il mercato europeo dei capitali si balcanizza, con gli stati
finanziariamente più solidi che riportano i soldi a casa e diventano
rifugio di capitali in fuga dagli altri.
Ma il merito principale del discorso di Draghi consiste nel rifiutare
l’alternativa che i Tedeschi stanno imponendo nel dibattito sul futuro
della moneta unica e dell’Europa: “o si torna al passato o si fa un
salto qualitativo e si va verso una specie di Stati Uniti d’Europa”. È
proprio questa alternativa secca, dice Draghi, che rende insoddisfacenti
molte proposte di soluzione dei problemi attuali.
È vero che l’architettura istituzionale dell’Unione Europea si è
dimostrata carente, ma – ricorda Draghi – il modello politico ispirato
agli stati nazionali fu esplicitamente rifiutato quando si decise di dar
vita alla moneta unica (e qui c’è una polemica implicita, perché fu in
primis Kohl a non volere una più stretta integrazione politica). Il
problema, insomma, non è l’assenza di un’unione politica, ma il fatto
che a fronte di una politica monetaria unica le politiche economiche e
fiscali dei diversi stati sono state e sono malamente coordinate tra
loro. Bisogna quindi procedere verso “il completamento dell’unione
economica e valutaria”, ivi inclusa una regolamentazione europea dei
mercati finanziari che preveda tra l’altro la possibilità di liquidare
le banche fallite (quello che non si è voluto fare nel 2008/2009).
Questo non significa “in prima istanza un’unione politica”.
Integrazione economica e politica possono però senz’altro procedere in
parallelo, e la sovranità può essere condivisa a fronte di un
rafforzamento della legittimazione democratica a livello europeo.
Il punto più debole del ragionamento di Draghi è quello che riguarda i contenuti concreti della politica economica e di bilancio. A questo proposito leggiamo che i bilanci nazionali devono essere soggetti a supervisione europea, e “dovrebbero essere fissati standard minimi di competitività”.
Il punto più debole del ragionamento di Draghi è quello che riguarda i contenuti concreti della politica economica e di bilancio. A questo proposito leggiamo che i bilanci nazionali devono essere soggetti a supervisione europea, e “dovrebbero essere fissati standard minimi di competitività”.
Che squilibri e debiti maturati dai vari stati non devono essere
eccessivi e tali da minacciare la moneta unica (qui Draghi si dimentica
di precisare che un attivo eccessivo della bilancia commerciale, come
quello che la Germania vanta attualmente nei confronti degli altri paesi
dell’eurozona, non è meno pericoloso per l’area valutaria di quanto lo
siano i disavanzi degli altri). E poi seguono le tautologie e i mantra
preferiti dalla nomenklatura europea: “nessun paese potrà vivere
ulteriormente al di sopra dei propri mezzi. I mercati del lavoro devono
funzionare in modo tale da creare occupazione e diminuire la
disoccupazione”. Tutto questo, promette Draghi, “non significa la fine
dello stato sociale europeo. È invece la base per un suo rinnovamento”.
Ora, queste sono parole molto belle. Senz’altro migliori di quelle
dell’infelice intervista dello stesso Draghi al Wall Street Journal, in
cui si dava per morto il modello sociale europeo.
Ma il problema è che tutto questo non tiene. Quello che serve
all’Europa non sono “standard minimi di competitività” (qualunque cosa
questa oscura locuzione significhi), ma standard minimi nel campo della
fiscalità e dei diritti del lavoro.
In assenza di questi standard, la competitività continuerà ad essere tutta giocata sul dumping fiscale (tasse alle imprese più basse che negli altri paesi dell’Eurozona) o sul dumping sociale (minori diritti e minori salari). E l’alternativa continuerà ad essere quella che oggi affligge l’Europa: o una generalizzata erosione progressiva dei diritti e dei salari diretti o indiretti, oppure la creazione di divergenze alla lunga insostenibili tra un paese e l’altro. (O magari, come sta avvenendo in Italia a causa delle politiche di austerità – che colpiscono i redditi, ma anche l’attività economica – entrambe le cose).
In assenza di questi standard, la competitività continuerà ad essere tutta giocata sul dumping fiscale (tasse alle imprese più basse che negli altri paesi dell’Eurozona) o sul dumping sociale (minori diritti e minori salari). E l’alternativa continuerà ad essere quella che oggi affligge l’Europa: o una generalizzata erosione progressiva dei diritti e dei salari diretti o indiretti, oppure la creazione di divergenze alla lunga insostenibili tra un paese e l’altro. (O magari, come sta avvenendo in Italia a causa delle politiche di austerità – che colpiscono i redditi, ma anche l’attività economica – entrambe le cose).
In tal caso anche le “misure non convenzionali” della BCE che oggi
sono necessarie, ossia l’acquisto dei titoli di stato di paesi sotto
attacco speculativo per ridimensionarne i rendimenti, serviranno nel
migliore dei casi a tamponare l’emergenza. Senza risolvere i problemi di
fondo che stanno distruggendo la moneta unica.
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