La fabbrica non si può difendere così com’è. È necessario un salto di qualità del centrosinistra e dei movimenti ambientalisti
Il
dramma sociale che si sta consumando a Taranto era largamente
annunciato. Altrettanto prevedibili le divisioni fra i lavoratori
esplose in piazza.
Prevedibile non solo per la nefasta presenza dei Riva, i veri responsabili di questa tragedia, ma anche di chi ha tollerato il loro cinismo e la loro prepotenza, a cominciare dalla ex ministro dell’Ambiente Prestigiacomo, che giudicò inopportuno il provvedimento con cui, il presidente della Regione Vendola, intimava all’Ilva di rispettare i limiti di emissione europei. Parte della responsabilità ricade sulla Uilm e la Fim Cisl per avere subito il ricatto dei Riva sull’occupazione e quindi rifiutato l’idea stessa che la difesa dei posti di lavoro fosse possibile solo obbligando l’azienda a non avvelenare più. Questa subalternità ha di fatto favorito la rottura fra le associazioni di cittadini e i lavoratori e spinto i primi a chiedere giustizia alla magistratura e i secondi a difendere l’azienda così com’è. Solo la Fiom ha cercato di uscire da questa subalternità e non da oggi. Quasi due anni fa, infatti, come responsabile lavoro di Legambiente, fui coinvolto in una iniziativa con cui la Fiom provò a ricucire il rapporto con la cittadinanza e con gli ambientalisti. Sono convinto che se si fossero praticate almeno in parte le conclusioni di quell’evento probabilmente oggi a costringere i Riva a mettersi in regola e a non avvelenare più ci avrebbero pensato i lavoratori stessi e non i tribunali.
Preso però atto della situazione drammatica ora è necessario far finire bene la vicenda.
Finire bene significa in primo luogo fare giustizia per i cittadini di Taranto e quindi porre fine al cocktail di veleni con cui sono costretti a convivere da decenni: bonificare dunque in tempi certi il pregresso, accumulatosi nel territorio e imporre il rispetto rigoroso dei limiti di emissione europei da parte dell’azienda. Finire bene significa anche fare giustizia per le lavoratrici e i lavoratori dell’Ilva, prime vittime dell’inquinamento: Taranto deve continuare ad essere il principale polo siderurgico del paese, garantendo gli attuali livelli di occupazione.
Va dunque rivendicata e ottenuta un’Ilva completamente rivoluzionata, dotata delle migliori tecnologie che le permettano di emettere ciò che le normative europee prevedono, di consumare poca energia e di realizzare un generale processo di innovazione dei suoi prodotti e della sua organizzazione del lavoro.
Tutto ciò lo si deve realizzare a fabbrica aperta e funzionante.
Per raggiungere questo risultato ambizioso serve una critica severa della privatizzazione della siderurgia, che ha prodotto un vero e proprio sfacelo: per le persone che vi lavoravano costrette a farlo in reparti insalubri e con condizioni di lavoro e sfruttamento insopportabili; sull’aria, l’acqua e la terra quotidianamente avvelenate.
La giusta battaglia in favore dell’appello degli economisti, per un’altra politica economica per uscire dalla crisi, sostenuta anche da questo giornale, sarebbe più forte e credibile se si misurasse con un caso emblematico come quello dell’Ilva, esempio chiarissimo del generale processo di deindustrializzazione che le privatizzazioni hanno determinato nel paese.
Il regalo della vecchia Italsider ai privati e a privati, come i Riva a Taranto e i Lucchini a Piombino non poteva che produrre una ricerca di profitti facili garantendo competitività a prodotti vecchi attraverso una riduzione dei costi del lavoro e dell’ambiente.
Senza una lotta politica in grado di rilanciare un rinnovato impegno pubblico che imponga e diriga il processo di innovazione e riconversione necessarie alla siderurgia italiana, a Taranto il conflitto fra ambiente e lavoro sarà inevitabile.
Umilmente chiedo ai gruppi dirigenti del centro sinistra di misurarsi con il dramma che si sta consumando a Taranto e quindi di sottoporre l’affannosa e inconcludente discussione su quale schieramento dovrà contendere alle destre il governo del paese sulla ricetta con cui ci si propone di risolverlo.
Altrettanto decisivo per tentare di far finire bene la vicenda è che le organizzazioni sindacali accettino e si misurino con i ritardi accumulati, già denunciati da Landini su questo giornale.
Non c’è futuro per l’Ilva se i lavoratori vengono spinti a difendere la fabbrica così com’è. La produzione non va fermata, ma solo nel quadro di un chiaro progetto che ponga fine all’avvelenamento di Taranto e della sua cittadinanza. Sarebbe quindi importante che l’autocritica fatta da Landini si traducesse in una precisa iniziativa politica verso gli altri sindacati e soprattutto verso la popolazione cercando nuovamente di far crescere in essa il convincimento che Taranto può vivere senza veleni, continuando a produrre acciaio.
Infine per finire bene è necessario un salto di qualità anche del movimento ambientalista. Non ci si può limitare alla soddisfazione per la chiusura, per via giudiziaria, della fabbrica dei veleni, fregandosene del dramma sociale che si sta producendo o limitandosi a dire che di esso è responsabile Riva e la politica a lui asservita. Bisogna essere consapevoli che lasciare le cose come sono ora significa dare un colpo mortale e definitivo alla credibilità di quella riconversione ecologica dell’economia di cui andiamo parlando da anni e che pensiamo sia l’unica credibile via di uscita dalla crisi. Come potremmo, mi chiedo, convincere milioni di lavoratrici e lavoratori a lottare per una società sostenibile se essa non è in grado di far sì che i necessari processi di riconversione industriale garantiscano e possibilmente sviluppino gli attuali livelli di occupazione?
In altre parole gli ambientalisti non possono permettere che a Taranto finisca come finì a Massa Carrara la vicenda della Farmoplant, dove l’azienda fu chiusa, i lavoratori persero il lavoro e i terreni rimasero avvelenati.
E’ compito anche degli ambientalisti indicare un progetto che permetta di risanare Taranto e il suo territorio nel quadro di una continuità produttiva e occupazionale compatibile con la salute della popolazione.
Sono consapevole che la situazione reale di Taranto va nella direzione opposta a quanto sto proponendo. Ci sono però spiragli su cui è possibile agire per invertire la tendenza, oggi prevalente, alla divisione fra chi si batte per la propria salute e chi per il lavoro.
C’è un accordo già sottoscritto per la bonifica che necessita, per essere credibile di maggiori risorse; c’è l’impegno della Fiom ad aprire una riflessione critica nell’insieme del movimento sindacale; c’è soprattutto un governo regionale e il suo presidente Vendola che prima ha obbligato i Riva a rispettare i limiti di emissione europei e ora è disponibile ad investire risorse umane e finanziarie per una soluzione che tuteli contemporaneamente la popolazione e i posti di lavoro; ci sono sul medesimo obiettivo coinvolti il comune di Taranto e la chiesa; ed infine ci sono associazioni, a cominciare da Legambiente che con la sua lettera aperta ai lavoratori dell’Ilva dimostrano che è possibile ritessere un rapporto unitario fra lavoratori e cittadinanza e animare quindi una vertenza in grado di imporre la tutela dei posti di lavoro e quella dell’ambiente.
Difficile si, ma non impossibile se si lavora per sviluppare queste potenzialità e non ci si rassegna allo stato di cose presenti.
Prevedibile non solo per la nefasta presenza dei Riva, i veri responsabili di questa tragedia, ma anche di chi ha tollerato il loro cinismo e la loro prepotenza, a cominciare dalla ex ministro dell’Ambiente Prestigiacomo, che giudicò inopportuno il provvedimento con cui, il presidente della Regione Vendola, intimava all’Ilva di rispettare i limiti di emissione europei. Parte della responsabilità ricade sulla Uilm e la Fim Cisl per avere subito il ricatto dei Riva sull’occupazione e quindi rifiutato l’idea stessa che la difesa dei posti di lavoro fosse possibile solo obbligando l’azienda a non avvelenare più. Questa subalternità ha di fatto favorito la rottura fra le associazioni di cittadini e i lavoratori e spinto i primi a chiedere giustizia alla magistratura e i secondi a difendere l’azienda così com’è. Solo la Fiom ha cercato di uscire da questa subalternità e non da oggi. Quasi due anni fa, infatti, come responsabile lavoro di Legambiente, fui coinvolto in una iniziativa con cui la Fiom provò a ricucire il rapporto con la cittadinanza e con gli ambientalisti. Sono convinto che se si fossero praticate almeno in parte le conclusioni di quell’evento probabilmente oggi a costringere i Riva a mettersi in regola e a non avvelenare più ci avrebbero pensato i lavoratori stessi e non i tribunali.
Preso però atto della situazione drammatica ora è necessario far finire bene la vicenda.
Finire bene significa in primo luogo fare giustizia per i cittadini di Taranto e quindi porre fine al cocktail di veleni con cui sono costretti a convivere da decenni: bonificare dunque in tempi certi il pregresso, accumulatosi nel territorio e imporre il rispetto rigoroso dei limiti di emissione europei da parte dell’azienda. Finire bene significa anche fare giustizia per le lavoratrici e i lavoratori dell’Ilva, prime vittime dell’inquinamento: Taranto deve continuare ad essere il principale polo siderurgico del paese, garantendo gli attuali livelli di occupazione.
Va dunque rivendicata e ottenuta un’Ilva completamente rivoluzionata, dotata delle migliori tecnologie che le permettano di emettere ciò che le normative europee prevedono, di consumare poca energia e di realizzare un generale processo di innovazione dei suoi prodotti e della sua organizzazione del lavoro.
Tutto ciò lo si deve realizzare a fabbrica aperta e funzionante.
Per raggiungere questo risultato ambizioso serve una critica severa della privatizzazione della siderurgia, che ha prodotto un vero e proprio sfacelo: per le persone che vi lavoravano costrette a farlo in reparti insalubri e con condizioni di lavoro e sfruttamento insopportabili; sull’aria, l’acqua e la terra quotidianamente avvelenate.
La giusta battaglia in favore dell’appello degli economisti, per un’altra politica economica per uscire dalla crisi, sostenuta anche da questo giornale, sarebbe più forte e credibile se si misurasse con un caso emblematico come quello dell’Ilva, esempio chiarissimo del generale processo di deindustrializzazione che le privatizzazioni hanno determinato nel paese.
Il regalo della vecchia Italsider ai privati e a privati, come i Riva a Taranto e i Lucchini a Piombino non poteva che produrre una ricerca di profitti facili garantendo competitività a prodotti vecchi attraverso una riduzione dei costi del lavoro e dell’ambiente.
Senza una lotta politica in grado di rilanciare un rinnovato impegno pubblico che imponga e diriga il processo di innovazione e riconversione necessarie alla siderurgia italiana, a Taranto il conflitto fra ambiente e lavoro sarà inevitabile.
Umilmente chiedo ai gruppi dirigenti del centro sinistra di misurarsi con il dramma che si sta consumando a Taranto e quindi di sottoporre l’affannosa e inconcludente discussione su quale schieramento dovrà contendere alle destre il governo del paese sulla ricetta con cui ci si propone di risolverlo.
Altrettanto decisivo per tentare di far finire bene la vicenda è che le organizzazioni sindacali accettino e si misurino con i ritardi accumulati, già denunciati da Landini su questo giornale.
Non c’è futuro per l’Ilva se i lavoratori vengono spinti a difendere la fabbrica così com’è. La produzione non va fermata, ma solo nel quadro di un chiaro progetto che ponga fine all’avvelenamento di Taranto e della sua cittadinanza. Sarebbe quindi importante che l’autocritica fatta da Landini si traducesse in una precisa iniziativa politica verso gli altri sindacati e soprattutto verso la popolazione cercando nuovamente di far crescere in essa il convincimento che Taranto può vivere senza veleni, continuando a produrre acciaio.
Infine per finire bene è necessario un salto di qualità anche del movimento ambientalista. Non ci si può limitare alla soddisfazione per la chiusura, per via giudiziaria, della fabbrica dei veleni, fregandosene del dramma sociale che si sta producendo o limitandosi a dire che di esso è responsabile Riva e la politica a lui asservita. Bisogna essere consapevoli che lasciare le cose come sono ora significa dare un colpo mortale e definitivo alla credibilità di quella riconversione ecologica dell’economia di cui andiamo parlando da anni e che pensiamo sia l’unica credibile via di uscita dalla crisi. Come potremmo, mi chiedo, convincere milioni di lavoratrici e lavoratori a lottare per una società sostenibile se essa non è in grado di far sì che i necessari processi di riconversione industriale garantiscano e possibilmente sviluppino gli attuali livelli di occupazione?
In altre parole gli ambientalisti non possono permettere che a Taranto finisca come finì a Massa Carrara la vicenda della Farmoplant, dove l’azienda fu chiusa, i lavoratori persero il lavoro e i terreni rimasero avvelenati.
E’ compito anche degli ambientalisti indicare un progetto che permetta di risanare Taranto e il suo territorio nel quadro di una continuità produttiva e occupazionale compatibile con la salute della popolazione.
Sono consapevole che la situazione reale di Taranto va nella direzione opposta a quanto sto proponendo. Ci sono però spiragli su cui è possibile agire per invertire la tendenza, oggi prevalente, alla divisione fra chi si batte per la propria salute e chi per il lavoro.
C’è un accordo già sottoscritto per la bonifica che necessita, per essere credibile di maggiori risorse; c’è l’impegno della Fiom ad aprire una riflessione critica nell’insieme del movimento sindacale; c’è soprattutto un governo regionale e il suo presidente Vendola che prima ha obbligato i Riva a rispettare i limiti di emissione europei e ora è disponibile ad investire risorse umane e finanziarie per una soluzione che tuteli contemporaneamente la popolazione e i posti di lavoro; ci sono sul medesimo obiettivo coinvolti il comune di Taranto e la chiesa; ed infine ci sono associazioni, a cominciare da Legambiente che con la sua lettera aperta ai lavoratori dell’Ilva dimostrano che è possibile ritessere un rapporto unitario fra lavoratori e cittadinanza e animare quindi una vertenza in grado di imporre la tutela dei posti di lavoro e quella dell’ambiente.
Difficile si, ma non impossibile se si lavora per sviluppare queste potenzialità e non ci si rassegna allo stato di cose presenti.
Nessun commento:
Posta un commento