Se è vero, come sostiene il presidente della Federacciai in un’intervista al Sole 24 Ore del 16 agosto,
che se di colpo l’Ilva di Taranto dovesse fermarsi verrebbe a mancare
il 40% dell’acciaio consumato dall’intera filiera metalmeccanica
italiana – se questo è vero, non possiamo che constatare il fallimento
di quella che pomposamente viene chiamata Politica Industriale nazionale.
Politica industriale (si fa per dire) nel nome della quale l’attuale
governo aveva addirittura minacciato un ricorso contro la magistratura
tarantina di fronte alla Corte Costituzionale.
L’Ilva di Taranto è
un enorme museo vivente, un vero e proprio reperto di archeologia
industriale: uno degli ultimi impianti non solo in Europa, ma anche nel
mondo ad utilizzare il vecchio procedimento di cokeraggio ed altoforno,
con tutto il suo corollario di inquinamento. E’ il vecchio ciclo produttivo a base di cokerie ed impianti di agglomerazione
a produrre quei livelli paurosi di inquinanti, come le tanto – e
giustamente – temute diossine, il benzene, gli idrocarburi policiclici
aromatici, ma anche la stessa polvere di coke, materiale tuttora
stoccato a cielo aperto, nonché a ridosso dell’abitato. Le cokerie sono
notoriamente energivore, e l’acciaio prodotto a Taranto è il più
inquinante del paese in termini di C02, argomento sufficiente in sé per
giustificare l’abbandono di questo metodo di produzione – se non altro
per adempire ai nostri impegni internazionali di riduzione delle
emissioni di gas serra. Ma da quest’orecchio, si sa, l’attuale ministro
dell’ambiente non ci sente. Dal 2008, dunque sotto la sua direzione del
Ministero (come Direttore Generale), piuttosto che investire nei
cambiamenti produttivi al fine di ridurre le emissioni, il governo ha
fatto sconti alle grandi imprese che inquinano di più, distribuendo 2,5
miliardi di euro di permessi gratuiti nell’ambito del sistema di scambi
di emissioni previsto dal Protocollo di Kyoto. Tra i maggiori beneficiari di questi sconti c’era il gruppo Riva. (Sergio Colombo, ‘Protocollo di Kyoto, l’Italia rischia 2 miliardi di multa‘, Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2011.)
Fare
dipendere dallo stabilimento vetusto di Taranto l’intera filiera della
metalmeccanica italiana è la prova che di politica industriale in Italia
ce n’è stata ben poca negli ultimi anni. Una politica
industriale lungimirante, impostata su criteri di sostenibilità, avrebbe
posto la modernizzazione con conversione a sistemi produttivi meno
impattanti del polo siderurgico di Taranto al centro delle proprie
strategie. La terza città industriale d’Italia è stata invece
clamorosamente trascurata, ed è vissuta a parte, in un rapporto di
fatale e solitaria dipendenza nei confronti della sua fabbrica, un
rapporto i cui contorni più torbidi stanno venendo alla luce solo in questi giorni.
Le conseguenze di questa lunga gestione politica inconcludente se non
inopportuna, sono nelle cifre allarmanti sulla diffusione di malattie
tumorali nei pressi degli impianti – anche queste, nascoste o manipolate
per anni.
Ne escono tutti malissimo: non solo i responsabili
dell’Ilva, ma la maggior parte dei politici che hanno avuto
responsabilità al riguardo. E’ un vecchio vizio, quello di favorire le
grandi imprese nazionali a scapito dei cittadini. In un articolo molto istruttivo sulla storia della fabbrica (‘La “cattedrale di metallo e vetro” dove si lavora come 50 anni fa’, Il Manifesto,
15 agosto 2012), Antonella De Palma cita il sindaco di Taranto che già
nel 1964 chiese informazioni ai dirigenti aziendali dell’allora
Italsider sulle misure che intendevano adottare per salvaguardare
cittadini e lavoratori dall’inquinamento, per sentirsi opporre un
segreto che, come disse: “se non è quello militare quasi lo raggiunge”.
Il problema dei livelli di diossina presenti nell’aria di Taranto è stato dibattuto anche nel Parlamento Europeo.
Nel 2007 il Commissario all’Ambiente, Dilmas, rispondendo alla domanda
di un parlamentare, informò l’aula che secondo informazioni pervenute
alla Commissione, c’era stata la fuoriuscita di una “nube chimica” dagli
impianti dell’Ilva, e che la stessa autorità europea aveva chiesto al
governo italiano quali misure avesse intrapreso per circoscrivere il
danno potenziale agli abitanti della zona. Nella stessa occasione Dilmas
riferì che secondo le cifre fornite dal Registro Europeo sulle
Emissioni Inquinanti (EPER), mentre nel 2002 gli impianti di Taranto
emettevano il 30% di tutte le diossine prodotte in Italia, nel 2004
questa cifra era balzata a 83% – quasi il 10% di tutta la diossina
prodotta in Europa. Il Commissario disse che la Commissione si riservava
di intervenire sulla base della documentazione attesa dalle autorità
italiane. Non risulta pervenuta.
Per i cittadini di Taranto l’episodio della nube, piccola o grande che fosse, è quasi cronaca quotidiana. Lo spiegò al Parlamento italiano il Procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio,
il 21 febbraio 2012, quando fu ascoltato dalla Commissione parlamentare
di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Il
resoconto della sua audizione è reperibile sul sito della Camera, e ne
raccomando la lettura. Per fare capire ai (pochi) commissari che lo
ascoltavano che il problema delle emissioni “fuggitive”, o
incontrollate, è cronico presso l’Ilva di Taranto, il dottor Sebastio
raccontò di come venne a sapere dai carabinieri del Noe (Nucleo
operativo ecologico) che: “improvvisamente, nelle ore più disparate, si
verificano delle emissioni strane, di fumi variamente
colorati, da varie zone dello stabilimento”. Su ordine del magistrato i
carabinieri registrano questi episodi con una telecamera e vengono a
sapere che sull’arco di 40 giorni in diverse zone dell’immenso
stabilimento gli episodi di fuoriuscita di fumi registrati (quelli
avvenuti di notte non si vedevano) sono stati centinaia.
Il DVD
delle registrazioni, insieme alla conclusione della prima inchiesta
peritale sul disastro ambientale provocato dall’Ilva, fu lasciato alla
commissione. Il Procuratore lasciò anche copia delle lettere con le
quali aveva informato il governo, la Regione, la provincia ed il Comune
di Taranto della gravità dei fatti emersi, “in uno spirito di
collaborazione”. Non fu ripagato con altrettanta cortesia. L’intervento
della magistratura, doveroso, come lui più volte sottolinea, è stato
trattato con fastidio, se non peggio da parte del governo e di molti
politici.
Per chi aveva orecchie per sentire, il senso di
quell’audizione era chiaro: il magistrato voleva mettere in guardia il
legislatore, dopo avere informato sia l’esecutivo che gli enti locali.
Mettere in guardia ma anche spronare ad intervenire preventivamente
pensando al futuro e alla salute dei cittadini. Non ebbe seguito.
Nella sua audizione il dottor Sebastio citò più volte la Costituzione,
ed in particolare i diritti incomprimibili alla salute e alla vita.
All’uscita fu salutato, da parte del presidente Pecorella,
con una laconica citazione di Calamandrei: “il quale diceva che la
Costituzione è un foglio di carta, che, se non lo si tiene bene in mano,
cade.”
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