È
giusto un anno che il parlamento italiano, auspice il presidente della
repubblica, si è consegnato mani e piedi a un illustre “tecnico” e al
governo da lui interamente scelto (se no non avrebbe accettato
l’incarico) per smettere con le fanfaluche politiche e risanare i conti
del nostro bilancio, primo fra tutti l’indebitamento. Si sa che la
politica non è “oggettiva”, quando va bene risponde a una parte sociale,
quando va male risponde a interessi privati, mentre la “tecnica” non
guarda in faccia a nessuno, è neutra e, come il professor Monti ama
ripetere, è assolutamente super partes.
Risultato? L’analisi di Pitagora, (“L'anno perduto di Mario Monti”,
Sbilanciamoci.info 20 novembre 2012) ha dimostrato nel modo che più
chiaro non potrebbe essere, che il nostro debito è in aumento,
crescita, occupazione ed entrate pubbliche sono calati. (E non parliamo
del contorno di corruzione che sembra incrostato nelle nostre
istituzioni, non è per colpa specificamente di questo governo). I
fautori delle somme e delle sottrazioni contabili possono soltanto
dirci: “È vero. Niente di fatto. Ma se non avessimo applicato questa
terapia da cavallo chissà dove saremmo finiti. E avremmo dovuto chiedere
un prestito accettando di passare sotto il controllo della troika,
cosa che il nostro premier, essendo uno della stessa famiglia, ha
evitato”. Dunque il debito è cresciuto ma politicamente a bocce ferme;
l’equilibrio sociale fra chi ha e chi non ha non è stato toccato.
E invece no. L’essere Monti e il suo governo super partes,
senza il fardello delle ideologie, ha preteso che alcune parti, che
sarebbero state finora favorite, cioè i meno abbienti, abbiano pagato
più delle altre, in soldi e diritti.
Oggi siamo informati che il governo tecnico sta riuscendo ad abolire
quel che nemmeno a Berlusconi era riuscito, il contratto nazionale di
lavoro (la Cgil non è d’accordo, ma non importa, Cisl e Uil sì, ma era
ovvio). Sarebbe stata la tecnica a esigerlo, rivelandosi curiosamente
in feeling con la Confindustria. Il grimaldello per dare una
botta decisiva al salariato, che si cercava di imporre già dagli anni
ottanta del secolo scorso è stata la nostra competitività sui mercati,
troppo debole per colpa dell’alto costo del lavoro (una volta si diceva
lacci e lacciuoli). Il lavoro in Italia costa troppo, per via dei
salari diretti e indiretti, imposti a tutte le aziende di tutto il
paese; mentre se essi variassero fra le aziende prospere e quelle meno
prospere, come sarebbe oggettivamente giusto, Costituzione e altre
fantasie a parte, sarebbe a più buon prezzo. Se la contrattazione fra
lavoratori e padroni venisse riportata per legge soltanto su scala
aziendale, senza pari trattamento tra chi vende meno e chi vende di
più, diventeremmo più competitivi. Non proprio come la Cina,
sfortunatamente, ma si darebbe un bel colpo in quella direzione. Il
paesaggio degli equilibri sociali si modificherebbe e i nostri prodotti
costerebbero meno.
Non è entrato nella cultura del governo che ci sono due modi di
essere competitivi, offrire prodotti a basso prezzo o offrire prodotti a
migliore qualità grazie all’innovazione. Neanche tenendo conto che è
il caso della Germania. Monti non segue la strada della sua amica
Merkel e di qualcuno che la ha preceduta (perfino abbassando l’orario
di lavoro), per cui oggi anche una povera diavola come me compra più
volentieri una lavapanni tedesca, e non parliamo di merci di più
elevata tecnologia. Ricordo come venticinque anni fa lo ripetesse
Sergio Cofferati, e quanto poco il Pds lo stava a sentire. Sta di fatto
che i conti non tornano e i lavoratori dipendenti sono stati e saranno
ulteriormente penalizzati. Va da sé che i precari stanno ancora peggio
– perfino i miti studenti della Bocconi hanno ululato contro il loro
ex rettore in casa sua. Insomma la neutralità sociale della tecnica è
sconfessata una settimana dopo l’altra.
Nel suo Dna sta un gene padronale. Il governo tecnico ammette una
sola variante politica: non toccare gli abbienti, non tassare la
rendita, non infastidire troppo la finanza, se no queste “parti
sociali” se ne vanno verso altri lidi. Negli Stati Uniti perderebbero
anche la cittadinanza, in Europa no. Vien da pensare che hanno ragione
coloro che ci ammoniscono, badate che ormai l’economia è diventata più
forte della politica. È lei che ha vinto, e ogni giorno azzanna qualche
lembo di potere che pareva ancora del dominio politico, in soldi e
diritti. È cosi? Non credo. I poteri che sono passati alla proprietà
non sono stati strappati a mano armata ai governi; questi – finora
espressione della politica – glieli hanno consegnati. E non sempre e
solo i governi di destra; quando Cofferati trascinava con sé qualche
milione di italiani al Circo Massimo il governo era di Berlusconi, ma
quando Rifondazione ha fatto cadere un Prodi che stava andando in
questa direzione, tutta l’Italia l’ha coperta di obbrobrio. Ma veniamo
ad oggi: la famosa competitività sta spingendo sulla stessa strada
anche il socialista Hollande, che non vi è ancora approdato come noi,
ma su cui preme la tesi che, se si vuol fare soldi sui mercati,
conviene abbassare il costo del lavoro, invece che migliorare,
innovandolo, il prodotto. Del resto l’Europa monetaria e
l’Organizzazione mondiale del commercio pretendono che gli stati possano
legiferare sul costo diretto e indiretto del lavoro (su cui si pagano
istruzione e sanità) ma non abbiano diritto di intervenire sugli
investimenti. Se no dove va a finire la libertà d’impresa? La libertà
dell’operaio o del salariato, come è noto, non è un problema.
E poi, che cosa è l’”economia”? Che ha a che vedere con la tecnica?
Sempre di questi giorni è successo che la Francia ha perduto una delle
sue tre A nel giudizio di quegli organismi tecnici e oggettivi che
sarebbero le agenzie di rating, nel caso Moody’s. Ma quel che è
successo ad altri paesi così severamente sanzionati – borse in
convulsione, cadute, tassi sui prestiti alle stelle – non è successo
affatto: le borse non hanno battuto ciglio e il costo del denaro,
invece che salire di due cifre, è aumentato di due decimi di punto. Non
dovevano essere penalizzati dalla mano invisibile del mercato? Com’è
che la Francia e il suo governo, assai poco amato, se la sono cavata
così a buon prezzo? È successo che la Germania finisce per trovarsi,
con le sue tre A, sola fra le già grandi potenze fondatrici
dell’Europa, in compagnia di Finlandia, Danimarca e simili. Strana
Europa: Italia, Francia, Spagna disastrate assieme a Portogallo e
Grecia, sana fra i fondatori solo la Germania, fulgida fra un mucchio
di pezzenti. Immediato passo indietro, le A intere restano, ma nulla ne
consegue. Meglio tenere per una manica la Francia fra i debitori di
cui ci si fida, mollarle i soldi a un tasso più basso di tutta l’Europa
del sud, una considerazione del tutto politica. La gretta Moody’s ha
preso sul serio che la politica non conta, mentre l’economia è il
respiro della società, libero o soffocato. Sono i governi a deciderlo; è
sul territorio della politica, che ogni tanto – come da trent’anni a
questa parte – perde la bussola.
In capo a due mesi, votata una finanziaria sicuramente montiana, il
nostro presidente della repubblica scioglierà le camere, mandandoci
alle elezioni che, come è noto, di tecnico e oggettivo non hanno
niente, ridanno voce ai partiti e premono il pedale delle emozioni. La
famosa ideologia riprende posto e si vedrà che cosa ha maturato
nell’anno in cui è stata sotto la tutela del professore. Potrebbe, per
esempio, ribaltare quell’occhio di riguardo che aveva per i più
abbienti, e spostarlo verso i lavoratori, pensionati, precari,
disoccupati; potrebbe essere questo il discorso della sinistra. Ma è
verosimile? Il bifido Pd ha nelle sue tre anime due culture
assolutamente montiane (o peggio) e una, quella bersaniana, di un
montismo appena emendato. Una passione travolgente lo spinge verso il
premier, che non vedrebbe male – ma come confessarlo? – mantenere il
suo mandato o ancora meglio, dato che scade anche il presidente della
repubblica, andare al posto di Giorgio Napolitano. Che cosa speri di
ottenere Nichi Vendola salendo su questa barca non mi è chiaro. A
sinistra del Pd si affollano sigle e candidati, impegnati a strappare
uno strapuntino di minoranza, cosa del tutto legittima se dal medesimo
riuscissero ad esprimere un programma, che non abbia da pretendersi
ipocritamente oggettivo e super partes, e abbia il coraggio di dire da che parte sta. Per ora non vedo.
Noi, nel nostro piccolo di gente che non mira a essere deputato,
abbiamo detto che siamo per un’Europa che faccia abbassare la cresta
alla finanza, unifichi il suo disorientato fisco, investa sulla
crescita selettiva ed ecologica, non solo difenda ma riprenda i diritti
del lavoro. Non piacerà a tutti. Ma chi ci sta?
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