Prendiamolo alla lettera, il motto: la Coop sei tu! Come l’hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère che apre i Fiori baudelairiani.
Se sei tu, devi condividere senza ipocrisia, per fraterna similitudine,
i miei vizi. Oppure prenderne le distanze, denunciare quello di torbido
che è in me ma forse anche in te.
Ha un bel dire il dott.
Poletti, presidente di Legacoop, che essa «è un’associazione che
rappresenta le cooperative e quindi non è titolare di alcuna attività di
gestione» (19.12.2013), o che le singole aderenti si muovono secondo
canoni di mercato applicando le regole contrattuali vigenti: allora è
ingannevole sostenere che le coop hanno una marcia “sociale” in più.
Non si può lucrare un vantaggio emotivo politicamente qualificato
facendo le peggio cose che fanno gli altri, non è insomma il normale
rincalzo che acquisisce la Coca Cola dalle festività natalizie. Legacoop
con quello slogan fa appello a uno schieramento politico o morale e si
sottopone dunque a una verifica supplementare, se scivola su quel
terreno. Oppure, ammette di essere come tutti gli altri, rinuncia alla
spocchia a buon mercato e si appiattisce sul senso corrivo in materia di
migranti, affari, regime contrattuale, cioè la guerra fra poveri e
l’ammirazione per il merito/successo di chi la sfanga speculando sui
contributi assegnati ai migranti ristretti nei Cie, sugli appalti di
grandi e piccole opere, sui bilanci bancari e assicurativi.
Questo
si ricava dai giornali e dal web, ma vorrei soffermarmi su una piccola
storia vissuta in diretta. L’occupazione della Scup a Roma, via Nola 5 –
palestra, sale studio, ludoteca infantile, mensa sociale, ecc.– si è
ritrovata per controparte non il Demanio e la Fip, che ne gestisce la
valorizzazione, e neppure la società fittizia F&F immobiliare cui
aveva ceduto l’edificio per far cassa, ma la potente Unieco, holding di
decine di cooperative “rosse”, oggi uno dei dieci principali general contractor italiani.
Dopo
un primo sgombero e rioccupazione, si è aperta una procedura
giudiziaria, nel cui corso la struttura cooperativa ha negato di avere a
che fare con la società fantasma di cui sopra, mentre usciva fuori che
in realtà la Unieco, sull’orlo del fallimento, si sta impegnando con le
banche a modulare il debito dismettendo beni immobiliari per 142 milioni
di euro, fra cui probabilmente l’edificio Scup.
Fioccano le smentite, s’intende, come per Lampedusa, gli altri Cara
gestiti da Cono Galipò e le numerose vertenze per contratti irregolari
dei dipendenti, con le consuete caratteristiche di opacità e scatole
cinesi che consentono di scaricare la responsabilità per li rami.
Cooperazione e socialità in questo caso vanno poco d’accordo…
Non
voglio entrare nel merito di singole controversie e scandalizzate
deplorazioni, ma solo registrare un’impressione: il pieno adeguamento
alle dinamiche neoliberiste, con il ricorso a tutti gli espedienti di
flessibilizzazione e sub-appalto, esprime una stridente contraddizione
fra pratiche effettuali e ricordi evocativi della primitiva missione. Coop, chi?
Non puoi operare come Walmart e fingerti Onlus, sfruttare legami
privilegiati con le amministrazioni locali di sinistra e agire nel solco
del mercato e della precarizzazione.
La Coop sei tu suona
derisorio nell’orrore di Lampedusa o nell’ordinaria prassi di un lavoro
domenicale di fatto obbligatorio. A meno che quel tu implichi la
complice omologazione dell’interlocutore, il popolo coop, alla medesima
rassegnata logica dell’impoveritevi e buttate dalla scialuppa chi si aggrappa.
Il
ruolo delle cooperative rosse, bianche e delle strutture cielline nel
trasformare in affare la gestione dei migranti e dei loro luoghi di
segregazione è assai significativo nella governamentalità neoliberista
analizzata ne La nuova ragione del mondo di Dardot e Laval, qui già recensito.
Il neoliberismo non solo incastra in modo indissolubile funzioni di
governo e di mercato, ma costruisce una soggettività
auto-imprenditoriale e competitiva, disciplinata e rendicontabile,
servendosi di figure intermedie semi-private, che sono imprese a tutti
gli effetti ma con parvenze di socialità e magari vantate ascendenze
progressiste. Big Society all’italiana.
Ciò consente alle
cooperative, in maniera diversa dal riformismo degli albori del
capitalismo e poi del fordismo, di prendere l’iniziativa, superando –
nella faccia esposta al pubblico, la grande distribuzione – la
contraddizione, sempre latente nell’esercizio commerciale, fra
promozione edonistica del consumo e salvaguardia del lavoro ascetico dei
dipendenti e dei clienti. Luogo elettivo per le tecniche di Pnl
(programmazione neuro-linguistica) e di coaching (come
imbambolare il cliente e sentirsi realizzati), la vendita che fa leva
sull’empatia si completa felicemente con il rinnovo forsennato di brevi
contratti oltre ogni limite legale e con salari abbastanza bassi da
predisporre a un totale disponibilità per straordinari, festivi e
spostamenti di sede secondo i flussi di domanda.
A monte sta
l’illusione che la prestazione intermittente costituisca un “percorso
formativo”, una soggettività multiforme e potenziata che accoppia
gioiosamente management dell’anima e d’impresa, cura di sé e orari di
merda, a valle una pubblicità friendly e populista
accomoda il cliente sull’impresa, garantendo con il passato la
democraticità e con lo slogan la comunanza fra il venditore precario e
l’acquirente altrettanto precario e affannato – entrambi interiorizzano
la crisi quali imprenditori di se stessi…
Che l’impettita Legacoop o il più casual Eataly
di Oscar Farinetti (che strizza l’occhio alla Leopolda quanto la prima,
prima di saltare sul carro renziano, al vecchio Pd) vogliano trarne
vantaggio è ben comprensibile, che si debba abboccare a tali trucchi
aziendali e all’ideologia politica che veicolano – Farinetti in tono
sgradevole e vistoso – è tutto da vedere. Bella sfida, comunque, vendere
sotto crisi. Merci e illusioni, surplus di prestazione e di godimento.
Fantasmi, a breve in saldo.
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