Sentite
le grida di giubilo e gli squittii con cui lor signori (equamente
distribuiti fra i partiti maggiori) stanno salutando, in compagnia
dell’innocuo esercito grillino, l’abolizione di ogni forma di
finanziamento pubblico dei partiti. “Neanche un quattrino (dalle finanze
pubbliche) ai partiti”, annunciano garruli, a petto in fuori, facendo a
gara a chi si intesta il risultato di questa presunta campagna
moralizzatrice. E’ raggiante Letta (“Quando il governo è nato tra le
priorità aveva l’abolizione del finanziamento con una riforma e un nuovo
sistema basato sulla volontarietà dei cittadini”); è felice Renzi che
di questo obiettivo aveva fatto il proprio cavallo di battaglia; esulta
Gaetano Quagliariello (”E una è andata: abolito il finanziamento
pubblico ai partiti! Ecco i fatti”); rilancia, come sempre, L’egoarca a
5 Stelle che chiede a Letta di restituire “i 45 milioni di rimborsi
elettorali del Pd a iniziare da quelli di luglio”.
Quello che, ahinoi, i più non hanno
capito, a partire dai diseredati che ne pagheranno le conseguenze, è che
con questa decisione il Consiglio dei ministri consegna la politica a
quelle formazioni i cui referenti sociali, o (per meglio dire) i cui
“clientes”, possono permettersi laute elargizioni (private) affinché i
propri interessi siano ben rappresentati nelle sedi che contano. E’ la
politica che torna ad essere un privilegio dei ricchi, le cui lobbies
terranno al guinzaglio ministri, sottosegretari, deputati e senatori
nonché, ovviamente, segretari di partito che a quei munifici emolumenti
dovranno la propria esistenza. L’assalto populistico al finanziamento
pubblico, condotto nel nome del repulisti contro gli sprechi e le
malversazioni di cui la ‘casta’ si è macchiata, è servito a rendere
chiaro che da oggi la politica sarà, più di quanto non sia mai stata,
roba da piani alti dell’edificio sociale. Chi fra i propri finanziatori
potrà collezionare industriali, finanzieri (più o meno d’assalto),
proprietari di hedge fund, immobiliaristi, professionisti à la page,
avrà diritto di fare politica; gli altri, ed in particolare quei
partiti che ancora si ‘attardano’ a rappresentare il lavoro dipendente,
proletario e precarizzato saranno consegnati a vita grama, gramissima.
E’ quello che già sta accadendo sul fronte dell’editoria, della carta
stampata, sequestrata e monopolizzata da finanziatori dal portafoglio
gonfio, i soli che spopolano sul mercato dell’informazione e che
esercitano una funzione disciplinare sul pensiero, sulle opinioni di
larghe masse popolari. Dopo la legge elettorale maggioritaria, che fra
premio di maggioranza e soglia di sbarramento abolisce il criterio
secondo cui “ogni testa vale un voto” e distrugge il principio
proporzionale della rappresentanza parlamentare, ora si assesta un colpo
solenne e definitivo al pluralismo politico e al diritto ad esistere
delle minoranze.
Poi Letta ha provato a raddrizzare un
po’ la barra, spiegando che “con la nuova disciplina “assegniamo tutto
il potere ai cittadini”, perché “il cittadino che vuole dare un
contributo a un partito lo può fare attraverso il 2 per mille o con
contribuzione volontaria”. Già: il 2 per mille di Agnelli ai partiti che
fanno gli affari suoi e il 2 per mille dell’operaio, del
cassaintegrato, o del disoccupato che vive di Aspi alle formazioni che
provano a rappresentare questi soggetti sociali. Un capolavoro! Ma
niente paura, dice Letta, “il sistema “non frega il cittadino” perché
“l’inoptato rimane allo Stato”. Il diritto al voto secondo il censo:
manca solo questo. Ma forse non ce n’è neppure più bisogno.
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