Il decreto legge varato dal governo Letta è un infausto provvedimento basato sulla ricerca del facile consenso, la convenienza di bottega e la prevalenza dei soggetti politici già esistenti perché i nuovi partiti non potranno ottenere fondi né indirettamente né col 2 per mille. Ma c'è un'alternativa possibile a questo pessimo dl? Forse sì, ecco come…
È davvero pessima la nuova legge sul finanziamento pubblico ai partiti, quella che Letta ha trasformato in decreto per battere sul tempo Matteo Renzi. E lo è al netto di ogni valutazione sul ruolo dei partiti stessi, sulle polemiche relative ai costi della politica, sulla necessità o meno che questa sia finanziata con i soldi pubblici. Lo è per come è scritta e per i nefasti effetti che produce.
Il meccanismo delle donazioni, ad esempio, non solo continua a pesare sulle casse dello Stato per via delle detrazioni (trasformando quindi un finanziamento diretto in un finanziamento indiretto, ma sempre finanziamento è) ma soprattutto consente a un pugno di milionari di avvantaggiare un partito sull'altro.
Pensate ad esempio a Berlusconi e alla sua famiglia: già solo lui, i figli e il fratello sono da oggi autorizzati a foraggiare Forza Italia con 2.100.000 euro l'anno, ricavandone pure un robusto vantaggio fiscale. Basta poi che contribuiscano altre cinque o sei società della galassia Fininvest e si arriva tranquillamente a più di tre milioni. Imponendo quindi una partenza ad handicap agli altri partiti che non dispongono di amici o di proprietari altrettanto ricchi e, per convenienza, 'generosi'.
Certo, le altre forze politiche possono comunque recuperare cercando di sedurre con il proprio programma altri benestanti - e già tra i finanziatori di Renzi non mancano imprenditori come Farinetti o finanzieri come Serra. Vero, ma aldilà della presumibile buona fede dei singoli, in questo modo i partiti non posseduti da tycoon si mettono in una condizione di debito e di subalternità nei confronti di operatori dell'economia i quali un domani potrebbero anche chiedere qualcosa in cambio. Senza dire che il meccanismo rischia di svantaggiare non poco i soggetti politici i cui programmi prevedono forme radicali di redistribuzione dei redditi, delle ricchezze e dei profitti: quale magnate donerà 300 mila euro a un partito che propone una patrimoniale, quale società di trading verserà 200 mila euro a un movimento che vuole tassare le transazioni finanziarie, quale immobiliare stanzierà fondi per una forza politica che propone un piano di edilizia pubblica?
Insomma, è evidente si pone un grave problema di pari opportunità democratiche.
Che rischia di aggravarsi ulteriormente con il sistema del due per mille, i cui effetti possono portare a partiti con maggiori o minori disponibilità economiche diverse a seconda del censo dei loro simpatizzanti. In altre parole, una forza politica i cui supporter appartengono prevalentemente al ceto medio-alto riceverà dal due per mille una cifra assoluta più alta di un'altra i cui sostenitori hanno redditi bassi: anche se questi ultimi sono magari più numerosi.
Ma c'è anche una terza distorsione di opportunità, che riguarda i soggetti politici nuovi.
Alla ripartizione annuale del due per mille potranno accedere infatti solo i partiti che abbiano conseguito nell'ultima consultazione elettorale almeno un eletto al Senato, o alla Camera o all'Europarlamento. Per le donazioni volontarie detraibili lo spettro si allarga a quelle liste che hanno almeno un consigliere regionale o che alle ultime elezioni politiche si sono candidate in almeno tre circoscrizioni.
Se un cittadino quindi, con il suo due per mille, vuole finanziare una forza politica nuova, non ancora rappresentata, semplicemente non può farlo. E se vuole offrire a questo nuovo partito o movimento una donazione privata, non ha diritto a detrazioni fiscali se questo alle ultime politiche non si è presentato (magari perché non esisteva ancora!).
Insomma, questa brutta legge è fondamentalmente il frutto di tre spinte diverse, che si sono mescolate e mediate tra loro.
La prima è la fretta demagogica, il bisogno di dare in pasto all'elettorato anti-casta la notizia (peraltro tecnicamente falsa, come si è visto) che «è stato abolito il finanziamento pubblico dei partiti»; la seconda è l'esigenza di Forza Italia di garantirsi i finanziamenti privati del suo fondatore e della galassia di persone e aziende che a lui fanno riferimento (di qui i tetti molto alti, 300 mila euro per le persone fisiche e 200 mila per le società); la terza è quella del Pd di garantirsi una presunta continuità economica attraverso il 'corpaccione' storico dei suoi simpatizzanti – i quasi tre milioni che vanno a votare alle primarie – da cui si spera di trarre il due per mille, impedendo che questo vada a eventuali soggetti politici di sinistra nuovi.
I fari della nuova legge insomma sono state la ricerca del facile consenso, la convenienza di bottega e la prevalenza dei soggetti politici già esistenti.
Ma c'è, allora, un'alternativa possibile, ammesso che il dibattito in merito non si chiuda con l'approvazione alle Camere di questo infausto decreto legge?
Forse sì: se i fari – appunto – fossero diversi, a partire da quello delle pari opportunità democratiche.
Ad esempio, con un tetto alle donazioni private molto più basso (un decimo della cifra attuale) e con meccanismi di sorveglianza che impediscano a singoli soggetti di fare più donazioni attraverso parenti e le società a essi collegate (nel 'capitalismo familiare' italiano, questo rischio sarebbe alto); consentendo uguali chance di essere volontariamente finanziato a un partito già esistente e a un movimento politico nuovo; sostituendo il meccanismo censuario del due per mille con un altro che preveda una scelta – da effettuare nella dichiarazione dei redditi o altrove – relativa a una cifra di denaro pubblico fissa e uguale per tutti, cioè indipendente dal reddito, che l'elettore-contribuente decide se destinare a una forza politica di suo piacimento o se lasciare nella disponibilità dello Stato.
È davvero pessima la nuova legge sul finanziamento pubblico ai partiti, quella che Letta ha trasformato in decreto per battere sul tempo Matteo Renzi. E lo è al netto di ogni valutazione sul ruolo dei partiti stessi, sulle polemiche relative ai costi della politica, sulla necessità o meno che questa sia finanziata con i soldi pubblici. Lo è per come è scritta e per i nefasti effetti che produce.
Il meccanismo delle donazioni, ad esempio, non solo continua a pesare sulle casse dello Stato per via delle detrazioni (trasformando quindi un finanziamento diretto in un finanziamento indiretto, ma sempre finanziamento è) ma soprattutto consente a un pugno di milionari di avvantaggiare un partito sull'altro.
Pensate ad esempio a Berlusconi e alla sua famiglia: già solo lui, i figli e il fratello sono da oggi autorizzati a foraggiare Forza Italia con 2.100.000 euro l'anno, ricavandone pure un robusto vantaggio fiscale. Basta poi che contribuiscano altre cinque o sei società della galassia Fininvest e si arriva tranquillamente a più di tre milioni. Imponendo quindi una partenza ad handicap agli altri partiti che non dispongono di amici o di proprietari altrettanto ricchi e, per convenienza, 'generosi'.
Certo, le altre forze politiche possono comunque recuperare cercando di sedurre con il proprio programma altri benestanti - e già tra i finanziatori di Renzi non mancano imprenditori come Farinetti o finanzieri come Serra. Vero, ma aldilà della presumibile buona fede dei singoli, in questo modo i partiti non posseduti da tycoon si mettono in una condizione di debito e di subalternità nei confronti di operatori dell'economia i quali un domani potrebbero anche chiedere qualcosa in cambio. Senza dire che il meccanismo rischia di svantaggiare non poco i soggetti politici i cui programmi prevedono forme radicali di redistribuzione dei redditi, delle ricchezze e dei profitti: quale magnate donerà 300 mila euro a un partito che propone una patrimoniale, quale società di trading verserà 200 mila euro a un movimento che vuole tassare le transazioni finanziarie, quale immobiliare stanzierà fondi per una forza politica che propone un piano di edilizia pubblica?
Insomma, è evidente si pone un grave problema di pari opportunità democratiche.
Che rischia di aggravarsi ulteriormente con il sistema del due per mille, i cui effetti possono portare a partiti con maggiori o minori disponibilità economiche diverse a seconda del censo dei loro simpatizzanti. In altre parole, una forza politica i cui supporter appartengono prevalentemente al ceto medio-alto riceverà dal due per mille una cifra assoluta più alta di un'altra i cui sostenitori hanno redditi bassi: anche se questi ultimi sono magari più numerosi.
Ma c'è anche una terza distorsione di opportunità, che riguarda i soggetti politici nuovi.
Alla ripartizione annuale del due per mille potranno accedere infatti solo i partiti che abbiano conseguito nell'ultima consultazione elettorale almeno un eletto al Senato, o alla Camera o all'Europarlamento. Per le donazioni volontarie detraibili lo spettro si allarga a quelle liste che hanno almeno un consigliere regionale o che alle ultime elezioni politiche si sono candidate in almeno tre circoscrizioni.
Se un cittadino quindi, con il suo due per mille, vuole finanziare una forza politica nuova, non ancora rappresentata, semplicemente non può farlo. E se vuole offrire a questo nuovo partito o movimento una donazione privata, non ha diritto a detrazioni fiscali se questo alle ultime politiche non si è presentato (magari perché non esisteva ancora!).
Insomma, questa brutta legge è fondamentalmente il frutto di tre spinte diverse, che si sono mescolate e mediate tra loro.
La prima è la fretta demagogica, il bisogno di dare in pasto all'elettorato anti-casta la notizia (peraltro tecnicamente falsa, come si è visto) che «è stato abolito il finanziamento pubblico dei partiti»; la seconda è l'esigenza di Forza Italia di garantirsi i finanziamenti privati del suo fondatore e della galassia di persone e aziende che a lui fanno riferimento (di qui i tetti molto alti, 300 mila euro per le persone fisiche e 200 mila per le società); la terza è quella del Pd di garantirsi una presunta continuità economica attraverso il 'corpaccione' storico dei suoi simpatizzanti – i quasi tre milioni che vanno a votare alle primarie – da cui si spera di trarre il due per mille, impedendo che questo vada a eventuali soggetti politici di sinistra nuovi.
I fari della nuova legge insomma sono state la ricerca del facile consenso, la convenienza di bottega e la prevalenza dei soggetti politici già esistenti.
Ma c'è, allora, un'alternativa possibile, ammesso che il dibattito in merito non si chiuda con l'approvazione alle Camere di questo infausto decreto legge?
Forse sì: se i fari – appunto – fossero diversi, a partire da quello delle pari opportunità democratiche.
Ad esempio, con un tetto alle donazioni private molto più basso (un decimo della cifra attuale) e con meccanismi di sorveglianza che impediscano a singoli soggetti di fare più donazioni attraverso parenti e le società a essi collegate (nel 'capitalismo familiare' italiano, questo rischio sarebbe alto); consentendo uguali chance di essere volontariamente finanziato a un partito già esistente e a un movimento politico nuovo; sostituendo il meccanismo censuario del due per mille con un altro che preveda una scelta – da effettuare nella dichiarazione dei redditi o altrove – relativa a una cifra di denaro pubblico fissa e uguale per tutti, cioè indipendente dal reddito, che l'elettore-contribuente decide se destinare a una forza politica di suo piacimento o se lasciare nella disponibilità dello Stato.
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