venerdì 20 dicembre 2013

Populismo e imperialismo. Note sul movimento dei “forconi”. di Collettivo City Strike – Noi saremo tutto - Genova

Il carattere distintivo dell’imperialismo contemporaneo è che 
“tutto il mondo è già territorialmente spartito tra i paesi più ricchi”, 
cioè la spartizione della terra tra gli Stati è terminata. È proprio da 
questa circostanza che deriva la particolare asprezza della lotta per 
una nuova spartizione del mondo, la particolare asprezza
dei conflitti che porta alle guerre 
(V. I. Lenin, Per la revisione del programma del partito).
 
Le mobilitazioni dei “forconi”, in maniera un po’ inaspettata, hanno catturato l’attenzione dell’intero mondo politico. Percepiti come qualcosa di non dissimile da una sagra folcloristica hanno finito, attraverso alcune giornate di mobilitazione sparse in parti non irrilevanti del territorio nazionale, con l’obbligare un po’ tutti a ragionare sul significato e il senso di quella che, a detta degli organizzatori, si è presentata come l’inizio della “rivoluzione popolare”. I reportage sulle manifestazioni sono talmente tanti che pare superfluo starne a riportare l’ennesima sintesi. Scoop giornalistici a parte, ciò su cui sembra importante intervenire è il dibattito che, a sinistra, si è aperto intorno a queste giornate.
 
Andando all’osso, di fronte ai “forconi”, all’interno del movimento comunista e antagonista, si sono delineate due posizioni. La prima, sostanzialmente maggioritaria, ha identificato i “forconi” come movimento apertamente neofascista e ne ha tracciato il profilo tenendo costantemente a mente la genealogia propria del fascismo. In tal senso, e molto giustamente, sono stati richiamati alla mente le fasi “diciannoviste” e “sansepolcriste” dei fasci di combattimento e, con questi, tutta l’epopea “radicale” che ha tenuto a battesimo il fascismo. A partire da ciò, la netta chiusura nei confronti di quanto si andava delineando. In tale ottica i “forconi” rappresentano la classica risposta della piccola borghesia di fronte a una crisi economica che, ogni giorno che passa, la fa precipitare sempre più tra le schiere del proletariato, se non addirittura in una condizione di povertà tout court. La sintesi di questa posizione è tanto chiara quanto netta: nessuna relazione, anche solo conoscitiva, con un movimento i cui tratti fascisti sono ampiamente evidenti. Posizione classica del movimento comunista anche se meno ortodossa di quanto, a prima vista, possa sembrare, poiché fattasi egemone nel post ’45 come ricaduta immediata della Grande guerra patriottica.
 
La seconda posizione che ha fatto capolino nel movimento è quella che ha preso le mosse da Info Aut e dalle realtà politiche e sociali che si cristallizzano intorno alle posizioni dell’Askatasuna, in linea di massima l’area di “Autonomia/Contropotere”, alle quali si sono aggiunte, pur con qualche differenziazione, organizzazioni prone all’ortodossia marxista-leninista. Per questi compagni, i “forconi”, rappresentano un polo della contraddizione propria della crisi, raggruppano al loro interno settori proletari e in via di proletarizzazione i quali devono essere strappati all’influenza dei movimenti neofascisti. Una posizione che, con ogni probabilità, nasce dall’aver toccato con mano come a Torino, almeno questo è ciò che immaginiamo, la trasversalità sociale del movimento dei “forconi”.
 
Una posizione molto meno eterodossa di quanto possa apparire poiché, proprio il rapporto con i “movimenti popolari della destra radicale”, è stato oggetto di un dibattito piuttosto intenso tra le file del movimento comunista tedesco negli anni Venti del secolo scorso. Lo stesso Dimitrov, che non può certo essere accusato di poca ortodossia, agli inizi degli anni Trenta del Novecento rimproverava ai militanti comunisti tedeschi il non saper intervenire dentro le assemblee naziste nelle quali venivano affrontate questioni quali la disoccupazione, il caro vita, la condizione operaia ecc. Infine, ma non per ultimo, occorre ricordare come Lenin stesso, rispetto alla situazione italiana del Primo dopoguerra, lamentò l’incapacità del movimento operaio italiano di sapersi relazionare con quella massa piccolo borghese che andava a ingrossare le fila del movimento di D’Annunzio. Una massa che poteva andare ovunque e che la classe operaia avrebbe dovuto cercare di arruolare tra le proprie formazioni. Massa che, fatto non secondario, proveniva quasi per intero dell’esercito e che si mostrava particolarmente incline, se solo politicamente indirizzata, a riversare nella lotta politica tutto il suo sapere militare.
 
Si tratta di due posizioni antitetiche, entrambe le quali possono vantare una buona dose di ortodossia insieme a una certa sensatezza, le quali però, a nostro avviso, sono accomunate dal medesimo errore: osservano l’albero senza vedere la foresta. Ciò che diventa importante, pertanto, è comprendere il fitto intreccio della foresta nella quale siamo immessi. Di tutto ciò, l’albero “forconi”, non è che una pianticella il cui compito si limita a dare “legittimità di popolo” a un insieme di interessi, nazionali e sovranazionali, che stanno dando vita a una partita mortale sia tra le forze borghese locali, sia tra gli schieramenti imperialisti internazionali. La questione non è banale e occorre provare ad affrontarla in tutte le sue sfaccettature evitando, contrariamente a quanto avvenuto, di considerare i “forconi” il cuore della questione.
 
Con ogni probabilità, per comprendere al meglio di che cosa i “forconi” siano attori più o meno consapevoli, occorre riportare le parole pronunciate l’undici dicembre dal premier Letta:Oggi, con il voto di fiducia al Governo, si delineano in maniera inequivocabile le forze politiche pro Europa e le forze antieuropee”. Esattamente qua si pone il nodo della questione.
 
Sicuramente il progetto della costituzione del Polo imperialista europeo è, per una quota della borghesia nostrana, il progetto principe. Questo progetto accomuna, in una sorta di neo “patto d’acciaio”, il PD, i gruppi del Centro e SEL. Un progetto che, in tutti questi anni, ha potuto mantenersi egemone in virtù delle continue oscillazioni del principale partito della destra, il PDL, il quale, pur non essendo mai stato troppo europeista, non è mai stato neppure troppo antieuropeista. Tirando a campare, in mezzo a tutte le questioni private del suo leader, il PDL ha rinverdito, nei confronti del progetto imperialista europeo, una sorta di “né aderire, né sabotare”. Una linea di condotta che è stata possibile mantenere sino a quando la messa in forma del Polo imperialista non ha conosciuto passaggi operativi che ben poco spazio lasciavano a quel: manana che, nei confronti dell’Europa, ha caratterizzato i Governi capeggiati da Berlusconi. Nel momento in cui l’Europa ha iniziato a viaggiare a ritmi serrati non vi è più stato spazio per i tentennamenti.
 
Il golpe consumato da Draghi, Monti e Napolitano ha segnato esattamente questo passaggio. La situazione di stallo verificatasi nelle ultime elezioni politiche che hanno portato, tra l’altro, a consumare un’ulteriore eccezione quale la rielezione di Napolitano a Presidente della Repubblica, non ha fatto altro che reiterare quel malinteso del quale le forze di destra del nostro Paese sono state maestre. In mezzo, ovviamente, tutte le vicissitudini di Silvio Berlusconi continuamente alle prese con una serie imprecisata di procedimenti penali. Sulla base di ciò ha preso vita il Governo “delle larghe intese”, il cui collante sembrava essere il salvacondotto per Berlusconi. Così non è stato e, subito dopo, quel progetto governativo è andato in fumo. Ma su che cosa è saltato il Governo? Cosa differenzia realmente il blocco dei partiti di destra dagli altri? Certo la “decadenza” di Berlusconi ma sarebbe per lo meno miope pensare che tutto il problema stia lì. I raggruppamenti politici sono pur sempre il risultato e l’effetto di condizioni e interessi materiali che nessuna personalizzazione e spettacolarizzazione della politica è in grado di scongiurare. Non per caso, sino a quando gli interessi personali di Berlusconi hanno avuto il sopravvento sugli interessi materiali del suo blocco sociale, si è osservata una non secondaria perdita di consensi da parte del PDL mentre, ricostituita Forza Italia e posizionatasi all’opposizione, si è assistito al suo deciso recupero. Ma tra i due schieramenti qual è la reale posta in palio? Perché, a differenza di quanto accade negli altri Paesi europei, in Italia tra le due maggiori rappresentanze parlamentari esistono, di fatto, contraddizioni apertamente insanabili? La questione vera e centrale è l’adesione o meno al progetto di costituzione del Polo imperialista europeo. Un passaggio tutt’altro che indolore.
 
Qua entra pesantemente in ballo il blocco o i blocchi sociali che trovano nei partiti di destra la loro rappresentanza politica. Questi settori sociali sono radicalmente ostili al progetto europeista perché, per loro, comporterebbe la morte. Significherebbe perdere per intero o in gran parte quelle postazioni di rendita, potere e prestigio che il nostro sistema politico, economico e sociale gli ha garantito per decenni. Questi settori, almeno all’interno del corpo elettorale, sono decisamente maggioritari. Se, con una buona dose di realismo, ipotizziamo che alle prossime elezioni politiche l’astensione si attesterà intorno al 40%, quindi che gran parte del proletariato e dei subalterni non si presenterà alle urne, tra il restante 60% del corpo elettorale ben più della metà (M5S, Forza Italia, Lega Nord, Fratelli d’Italia insieme alle altre formazioni di destra) fa dell’uscita dall’Euro e dello stralcio dei trattati europei il proprio programma politico immediato. La partita tra le forze della borghesia, in Italia, è tutt’altro che chiusa, anzi.
 
Sotto tale profilo l’Italia rappresenta realmente l’anello debole dell’ipotetica catena imperialista europea poiché, i blocchi sociali della destra, differiscono non poco da quelli dei restanti partiti affini europei. In Grecia, Portogallo e Spagna sono Governi di destra a gestire in prima persona il progetto europeista e a mostrarsi, tra l’altro, come i più solerti esecutori delle politiche criminali degli organi imperialisti sovranazionali. In Italia non è così. In Italia i partiti di destra possono esistere e prosperare, in virtù della composizione socio - economica di questo Paese, solo se assumono in toto le retoriche proprie del populismo e coltivando modelli politici, economici e sociali diversi e distanti da quelli necessari alla costituzione di un forte Polo imperialista europeo e per di più non si tratta, come ad esempio in Germania, di una posizione di nicchia.
 
Su questa ipotesi, infatti, i partiti di destra sanno di avere dalla loro gran parte del Paese. Alla costituzione del progetto imperialista europeo risultano avverse sia le classi sociali subalterne, sia tutto quell’insieme di ceti, gruppi e segmenti di classe che possono dirsi borghesi e possidenti. In poche parole circa i due terzi del Paese. Si dirà: ma tutto ciò cosa c’entra con i “forconi”? C’entra e anche tanto. Ciò che è stato posto in scena in queste giornate è stata una “mobilitazione di popolo” il cui collante era esattamente il rifiuto dell’Europa. Una mobilitazione di “popolo” alla quale ha immediatamente fatto da riscontro l’adesione neppure troppo velata di notevoli pezzi di Stato.
 
Gli atti simbolici compiuti dalle forze dell’ordine in aperto appoggio e solidarietà con il “popolo” insieme alla palese mano libera concessa ai dimostranti indica come, i “forconi”, non siano altro che la punta di un iceberg di dimensioni e consistenza non proprio irrilevante. L’intreccio tra apparati statuali e “popolo” mostrano al meglio come la “battaglia antieuropeista” goda di un ampio consenso che va dalle forze dell’ordine, passa per i militari e attraversa gli apparati burocratici. In altre parole, parti considerevoli della macchina statuale, si ritrovano esattamente sulla stessa linea strategica dei “forconi”. Le sponde istituzionali che tanto i partiti di destra quanto il Movimento 5 Stelle hanno immediatamente fornito ai “forconi” mostrano come questo strano movimento si collochi a tutti gli effetti dentro uno schieramento di forze per nulla irrilevanti delle quali, per molti versi, ne rappresenta l’aspetto fenomenico. Dentro questo movimento non vi è nulla di spontaneo, tranne forse l’ingenuità della sua base, ma un’articolazione tattica di un progetto strategico coltivato, in primis, da corposi pezzi statuali in unità con blocchi e ceti sociali piuttosto corposi.
 
Ma tutto questo significa che siamo di fronte a una contrapposizione tra un blocco borghese progressista e uno reazionario? Assolutamente no. Su ciò occorre essere estremamente chiari e lasciarsi alle spalle ogni retaggio analitico legato alle vicende del Secondo conflitto mondiale. La scena politica attuale, se qualche antecedente storico lo ha, questo va trovato in quanto andato in scena nel corso del Primo conflitto mondiale piuttosto che a in ciò che ha dato vita alla coalizione antinazista nel Secondo.
 
Oggi non vi è alcuna Grande guerra patriottica da condurre, nessuna guerra di liberazione nazionale alla quale aderire ma il ben più prosaico e realistico conflitto tra diversi blocchi imperialisti che ben poco, nella sostanza degli obiettivi politici, si differenziano tra loro. Il fatto che, nel nostro Paese, uno di questi - PD/Sel - vanti origini interne al movimento operaio e si autorappresenti come “democratico e progressista” ha un valore pari a zero. Il fatto che, donne e uomini di questo raggruppamento, ogni 25 aprile intonino qualche canto resistenziale non è altro che la riprova di quanto camaleontica e cinica sappia essere la borghesia. Alla prova dei fatti l’effetto che ha Bella ciao intonata da costoro è pari all’idea di libertà, eguaglianza e fratellanza che emanava in Algeria La marsigliese quando usciva dalla gola del colono. Non c’è un imperialismo di destra e uno di sinistra ma un insieme di comitati d’affari delle borghesie imperialiste impegnate a spartirsi il mondo. Il sangue dei proletari e dei subalterni il bottino al quale mirano. Ed è esattamente a questo punto che occorre allargare l’orizzonte dell’analisi emancipandola dai ristretti ambiti localistici.
 
Sarebbe estremamente sbagliato pensare che tutto quanto accade sia il semplice frutto di questioni nostrane il che, nell’epoca del capitalismo globale, prenderebbe immediatamente il sapore della bega condominiale. Non per caso abbiamo parlato di blocchi imperialisti, di alleanze imperialiste e ci siamo ben guardati dal contrapporre il progetto imperialista europeo a una sorta di nazionalismo indipendentista. Ciò che infatti deve essere chiaro è che, i “forconi” e tutto quanto si portano appresso, sono ben distanti dall’incarnare la Nazione o una sorta di patriottismo antimperialista. Per “forconi” e affini in gioco non vi è alcuna autonomia e indipendenza nazionale ma il rigetto di un progetto imperialista al fine di coltivare l’inserimento all’interno di altri blocchi dove, lo status socio – economico dei ceti dei quali questo movimento è espressione, non rischia di essere posto in discussione più di tanto. Tanto per fare un esempio, per costoro, fare dell’Italia un immenso “parco giochi” turistico, sul modello della Cuba di Batista, con l’aggiunta di zone produttive speciali di tipo messicano diventa un progetto quanto mai allettante. Per forza di cose, quindi, gli interessi dei “forconi” e dei segmenti sociali rappresentati dalla destra non possono che inserirsi, trovando sponsor e alleati più o meno occulti, in altri blocchi imperialisti, il cui interesse, ovviamente, è impedire che il progetto imperialista europeo vada a buon fine. Qua la partita immediatamente si allarga e, per forza di cose, “il movimento 9 dicembre” non può che diventare una pianticella insignificante della foresta imperialista.
 
Come si è visto di recente il rapporto tra gli USA e gli Stati europei si è fatto particolarmente teso. Per quanto ancora formalmente alleati, entrambi si guardano con sospetto. Da tempo la NATO, venuto meno il nemico per antonomasia, è entrata palesemente in crisi. Allo stesso tempo la nascita dell’Euro e soprattutto ciò che potrà diventare una volta che il processo di unificazione politica dell’Europa sarà portato a compimento, non è certo qualcosa che riempie di gioia il dollaro. In poche parole se, a breve, l’Europa assumesse per intero i contorni di uno Stato continentale forte di una popolazione di circa cinquecento milioni di persone, con una base produttiva ampiamente invidiabile e una forte Banca centrale, i restanti blocchi imperialisti si ritroverebbero tra i piedi un concorrente che in quanto potenza economica, finanziaria, politica e militare sarebbe in grado di creare a tutti problemi più che seri. La stessa supremazia militare statunitense potrebbe essere velocemente azzerata mentre, sotto il profilo produttivo, l’Europa imperialista, dove la maggior parte dei salariati sarebbero ridotti nella condizione del colonizzato, sarebbe in grado di competere, pressoché alla pari, con tutti gli altri giganti. Evidentemente sono in molti a essere interessati affinché il banco europeo salti. L’Italia ha tutte le caratteristiche perché il colpo possa essere tentato dal suo interno.
 
Qua non si tratta di fare della dietrologia o di aderire incondizionatamente a una qualche “teoria del complotto” ma, ben più realisticamente, tenere a mente la possibile quantità degli attori in gioco. Del resto ciò che è vero per gli Usa non lo è di meno per la Russia, la Cina o l’India. Tutte queste potenze, che tra l’altro stanno acquistando a man bassa interi pezzi d’Italia a prezzi stracciati, hanno tutto l’interesse che dentro il progetto imperialista europeo si situi un cuneo in grado di complicare le cose. Ecco che, allora, ciò che nasce come appendice folcloristica assume immediatamente tratti ben diversi. Sotto tale ottica i “forconi” diventano la cartina tornasole di un gioco politico del quale, con ogni probabilità, loro stessi hanno un sentore a dir poco vago. La vera partita che si sta giocando è tra le forze imperialiste le quali, dentro la crisi, non possono far altro che combattersi senza esclusioni di colpi. Paradigmatico, al proposito, quanto sta accadendo in Ucraina. In quello scenario, al fine di limitare e incrinare una non secondaria area di influenza dello “Orso russo”, l’imperialismo europeo si serve senza remora alcuna di un insieme di forze apertamente fasciste e naziste. Ad assediare i Palazzi del potere ucraino, infatti, sono quei “nazionalisti” diretti eredi di coloro i quali, nel 1941, appoggiarono senza indugi l’Operazione Barbarossa e, nel corso della guerra, si mostrarono tra i più feroci e convinti sostenitori di quello “Ordine nuovo” apportato dalle Divisioni Panzer teutoniche. La quantità di crimini di guerra compiuti da costoro, tra i quali un antisemitismo talmente acceso da essere persino imbarazzante per gli stessi ideatori della “soluzione finale”, non hanno nulla da invidiare a quanto posto in opera dalle stesse armate nazifasciste. Inoltre, proprio tali organizzazioni “nazionaliste”, si mostrarono particolarmente feroci e spietate nell’organizzare la guerra contro le forze partigiane e le popolazioni che le sostenevano. Gran parte degli eccidi dei civili ucraini fu infatti opera delle formazioni armate nazionaliste. Tutto ciò è bene tenerlo costantemente a mente poiché, senza troppi giri di parole, mostra come l’imperialismo, al fine di raggiungere i suoi obiettivi, non si ponga, per un verso, alcun limite morale così come, dall’altro, del tutto irrilevanti appaiono le convinzioni e le basi ideologiche degli alleati di turno. Molto più prosaicamente ciò che è costantemente applicata non è altro che la legge del beduino, ossia: il nemico del mio nemico è mio amico. In Ucraina, un movimento nazionalista per molti versi affine a quello dei “forconi”, si ritrova in piena sintonia con l’ipotesi imperialista coltivata da PD, SEL e i partiti di Centro; mentre, per la destra nostrana, un movimento in apparenza così vicino come quello ultranazionalista e reazionario ucraino è quanto di più distante possa esservi. In tutto ciò non vi è nulla di misterioso e ancor meno di poco comprensibile. Per le forze imperialiste, di strategico, vi è solo il raggiungimento dei propri fini. All’interno di tale ottica tutte le alleanze sono e diventano possibili. Proprio in Ucraina, oggi, se ne ha un’ulteriore e non secondaria conferma. Non dobbiamo mai dimenticare che, se da un lato la lotta tra capitale e lavoro salariato rimane la contraddizione principale della fase imperialista, i conflitti interimperialistici non sono mai tempeste in un bicchiere d’acqua. Dentro la crisi e la competizione globale, questi si fanno, ogni giorno che passa, più acuti e laceranti rendendo concreta la possibilità di veri e propri scenari di guerra.
 
Attraverso questa necessaria parentesi abbiamo mostrato come, nell’era attuale, sia come minimo miope leggere gli accadimenti locali scorporati dalla loro dimensione internazionale. Ciò che i “forconi” ci raccontano, allora, è l’acutizzarsi di crisi e conflitti interborghesi e interimperialistici con i quali non solo saremo costretti a convivere ma obbligati a confrontarci. Tanto per dire: se l’Italia uscisse dall’Europa, per approdare direttamente nell’orbita statunitense o russa, è evidente quanto banale che la “linea di condotta” delle avanguardie comuniste non potrebbe rimanere identica a quella elaborata per la lotta all’interno del Polo imperialista Continentale. Scenari sicuramente futuri e incerti ma non così distanti e improbabili da non dover essere considerati.
 
Detto ciò rimane da capire, dentro tale contesto, in che modo debbano muoversi e orientarsi le avanguardie comuniste. Da tempo ripetiamo che la costituzione della soggettività politica è il nodo imprescindibile da sciogliere. Senza organizzazione politica non solo è impensabile contrastare i progetti dell’imperialismo ma diventa persino difficile ipotizzare una lotta di resistenza di lunga durata. Eppure, pur nell’indubbia difficoltà del momento, le masse operaie e proletarie, danno segni di vitalità non proprio effimeri, come dimostra la quantità e la qualità crescente nel nostro Paese degli scioperi operai, delle lotte sui posti di lavoro, di quelle contro la devastazione dei territori, delle battaglie per la riappropriazione del salario indiretto, contro sfruttamento e precarietà, contro l’ azzeramento dei diritti all’istruzione, alla salute, alla mobilità. Sarebbe l’ora che altrettanta vitalità venisse mostrata dai gruppi e dalle organizzazioni comuniste e antagoniste. Il fatto che, oggi, un fenomeno come quello dei “forconi”, trovi così tanto spazio tra la nostra stampa è l’indice di una drammatica arretratezza. Condurre la battaglia per il Partito significa esattamente emanciparsi dall’impasse del presente avendo fortemente a mente che il tempo stringe. Di fronte a noi non abbiamo un ciclo più o meno lungo di sviluppo pacifico del capitalismo. Non abbiamo un’età dell’ oro della borghesia all’interno della quale le forze proletarie e comuniste possono lavorare con estrema calma.
 
Di fronte a noi abbiamo una situazione che, fatte le dovute tare del caso, ricorda quella in cui sulla fine degli Venti del ‘900 versava l’URSS rispetto al mondo capitalista. In quel contesto fu necessario e obbligatorio colmare in dieci anni, cento anni di arretratezza. Solo in quel modo fu possibile presentarsi, con tutte le carte in regola, all’appuntamento con la Storia. Noi oggi abbiamo da colmare una voragine i cui prodromi possono essere fatti risalire agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso. Oltre trent’anni di controrivoluzione dove, sotto tutti gli aspetti, il movimento comunista è stato posto sotto assedio e massacrato. Lo è stato sul piano della teoria, attraverso il sistematico attacco al marxismo; lo è stato sul piano politico, attraverso la delegittimazione del leninismo; lo è stato sul piano organizzativo, attraverso la messa in mora della forma partito. I risultati che la controrivoluzione ha ottenuto non sono stati pochi e sarebbe stolto ignorarli. Tuttavia l’irrompere prepotente della crisi ha scompaginato non poco le carte e tutto si è rimesso in moto. Un dato oggettivo e materiale che ha ribaltato, almeno in potenza, l’intero scenario politico. Nessun oggettivismo, però, è in grado di per sé di rovesciare una situazione. Si può anche giocare avendo il vento a favore, il che rappresenta indubbiamente un bel vantaggio, ma per vincere la partita è pur sempre necessario fare goal e da solo il pallone non entra nella porta avversaria. Per quanto le condizioni climatiche possano giocare a nostro favore, è pur sempre necessario che una difesa blocchi l’iniziativa avversaria, che un centro campo prenda tra le mani le redini del gioco e che le punte applichino degli schemi in grado di eludere le difese avversarie. Tutto ciò, ovviamente, non può essere frutto di semplici condizioni oggettive favorevoli. Così come le condizioni climatiche favorirono, ma non furono decisive, l’azione dell’Armata Rossa contro il nazifascismo, allo stesso modo la crisi, di per sé, non garantisce la vittoria delle forze operaie e proletarie.
 
L’Armata Rossa vinse perché un pensiero politico strategico informava il suo agire allo stesso modo, il proletariato, può vincere se costruisce il suo “quartiere generale”. Questo il passaggio, non rimandabile, a cui le avanguardie comuniste sono chiamate. Il tutto dentro un contesto che, drasticamente, si presenta come una fatidica corsa contro il tempo. “Socialismo o barbarie” indica esattamente la storia del nostro presente ed è bene ricordare che, in non poche occasioni, a imporsi non è stato il socialismo bensì le barbarie, con conseguenze per le classi subalterne e gli sfruttati che nessuno può permettersi a cuor leggero di dimenticare. Per questo tutte le nostre energie e risorse debbono essere utilizzate, senza tentennamenti, per la costruzione della soggettività politica, dell’organizzazione che senza più inutili pudori bisogna ricominciare a chiamare col nome proprio di partito. La decisione in questo caso non è più rimandabile, continuare a temporeggiare, a guardarsi intorno, a rimandare, sempre di più equivale perdere la battaglia senza nemmeno essere in grado di entrare nel vivo dello scontro. Vuol dire scegliere la resa incondizionata e rendersi responsabili, di fronte alla Storia, delle sue conseguenze.
 
Sappiamo di non essere i primi, né gli unici che premono su questo tasto e come, inoltre, il problema che ci poniamo abbia dato corpo a esiti svariati non particolarmente efficaci, in cui si è fatta parecchia confusione, anteponendo spesso alla costruzione del partito come processo necessario a cui bisogna contribuire, la costituzione formale di una organizzazione; quindi di fatto scambiando il proprio embrione organizzativo come il nucleo costituente del partito o almeno come prima articolazione della sua ossatura fondamentale. Per noi lavorare per la costruzione del partito vuol dire innanzitutto contribuire allo sviluppo delle condizioni reali che lo rendono possibile: elaborazione di una linea strategica, formazione e preparazione teorico-ideologica dei quadri, sviluppo delle forme organizzative concrete tra soggettività politiche che si danno una prospettiva comune, affinché il partito possa essere costituito il prima possibile, facendo fare un salto qualitativo ai soggetti coinvolti in questa tendenza di accumulo di forze soggettive. In questo senso ci sembra utile "forzare l'orizzonte" nell'accelerazione di questo processo, nella misura in cui si anticipano teoricamente gli sviluppi di una tendenza in atto, per non inseguirla poi faticosamente nella pratica. Non si tratta di “bruciare le tappe” ma di porre l’accento su quale sia il nodo principale senza il cui scioglimento alcun reale avanzamento appare possibile.
 
Hic Rhodus, Hic Salta!

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