Le
previsioni si sono avverate. Quelle di dirompenza, per alcuni di
novità, per altri – come noi – di conferma di una linea di spostamento
ancora più a destra della geopolitica dei democratici. Matteo Renzi,
dunque, da nuovo segretario del PD promette la fine col periodo della
vecchia classe dirigente sia del suo partito che della politica italiana
nel senso più lato del termine.
E, infatti, Renzi è più che un semplice segretario che si avvicenda ad altri segretari del Partito democratico: è l’emblema di una linea di confine che molta parte della dirigenza economica e politica di questo Paese vuole tracciare tra un finto passato che non passa e un nuovo futuro che non esiste se non nell’accentuazione delle politiche del passato.
Il sindaco di Firenze fa un discorso di insediamento tutto metaforizzato, pieno di allegorie e – come doveva essere – ricco di entusiastici propositi. Intruduce l’elemento della puerilità, dei bambini come specchio della realtà di oggi; parla delle famiglie, del loro tenore di vita; parla delle imprese e dello sforzo che fanno nell’ambito di una compatibilità europea dove l’Italia è un fanalino di coda e subisce gli effetti della crisi.
Matteo Renzi rappresenta quindi, col suo discorso, non tanto il nuovo segretario del PD, quanto l’uomo nuovo di una Provvidenza italiana che ogni tanto si affaccia nella vita di questo Paese e che oggi è pronto a sostituire l’epoca berlusconiana con quella renziana. Gattopardismo all’ennesima potenza: tutto, davvero tutto, cambi affinchè tutto resti così come è oggi.
Qualche correzione di rotta sulla gestione degli ordini che provengono da Bruxelles e che Napolitano bene indirizza comandando al Parlamento persino quale legge elettorale deve mettersi a scrivere e poi via verso la volata per Palazzo Chigi.
Enrico Letta, intanto, lavora per il Re di Prussia e Renzi ha il tempo per costruirsi un consenso ancora più forte dei due milioni di elettori delle primarie democratiche che, per ora, lo hanno messo a capo dell’anomalia politica italiana, di quel conglomerato pentapartitico che riunisce cattolici democratici e socialdemocratici dell’ultimissima ora trasformati in una serie di tanti piccoli corrieri del liberismo temperato.
Mi ricorda la frase di Romano Prodi di tanti anni fa che era anche il titolo di un libriccino molto interessante da lui scritto: “Il liberismo ben temperato”. In sintesi, il professore spiegava come una coalizione di centrosinistra potesse dare un colpo al cerchio e uno alla botte, mantenendo ovviamente un tratto liberale nelle sue politiche ma comprendendo che era necessario, per fare ciò, anche rivolgersi a quella parte di Italia meno fortunata, più desertificata nei suoi diritti: noi lo chiameremmo “mondo del lavoro”, “proletariato”, e così via.
L’occhio di Prodi era almeno impostato su questa giusta ambivalenza e non aveva le pretese di farsi dettare le condizioni da Bruxelles. Lui era Bruxelles e sapeva come mantenere in equilibrio una qual certa “pace sociale”.
Oggi tutto questo sembrerebbe un miracolo se dovesse essere la ripartenza di una politica di centro-sinistra (trattino dovuto) in questo nostro sciagurato Paese.
Le condizioni economiche sono da tempo cambiate e cambiata profondamente è proprio la condizione sociale delle masse: la stratificazione si è fatta più ampia, i ceti sociali fanno fatica ad interagire tra loro e prevale, indotta dall’egoismo liberista, il “si salvi chi può”, quindi la fine della coscienza di classe, l’azzeramento della socialità e la sua sostituzione con una condotta individuale di tolleranza delle debolezze e di scardinamento dei diritti sociali in nome di quelli individuali.
Per l’appunto l’individualismo ha preso il posto ovunque del collettivismo, dell’idea generale di società.
Lo sa bene Matteo Renzi che raccoglie l’eredità, culturalmente americaneggiante, del “self made man” e che si fa eleggere quale nuovo esecutore politico di un testamento del liberismo che è formulato a più mani e che tenta di salvare la decadenza del capitalismo italiano in mezzo ad un contesto europeo di predominanza teutonica in quanto ad esportazioni e a ricchezza nazionale.
Lo stesso giorno in cui il sindaco di Firenze diventa capo del Partito democratico, sul fianco destro Silvio Berlusconi rilacia il progetto di Forza Italia e Angelino Alfano quello di un Nuovo Centrodestra dalla fisionomia rispettabile per accreditarsi un posto nel panorama politico devastato dalle inchieste che sembravano aver travolto definitivamente il Cavaliere nero di Arcore.
La riorganizzazione del bipolarismo italiano è nelle mani, dunque, di Renzi e Berlusconi. Altri assisteranno ai lavori: Salvini, neo segretario della Lega Nord e polverizzatore del vecchio Bossi; Alfano, neo coordinatore degli scissionisti berlusconiani.
Sull’altro fronte Nichi Vendola è pronto a sostenere Renzi come aveva, del resto, dichiarato qualche mese fa: la linea di sostegno di Sel al finto centrosinistra prima bersaniano e ora renziano è e rimane l’unica linea congressuale di un partito personalistico che scende, per la prima volta nella sua breve vita, al di sotto del 3% nei sondaggi e che comincia a lamentare alcuni malumori all’interno di una base che ha ancora una consapevolezza di una certa idea della sinistra. Moderata, ma pur sempre sinistra.
La vittoria di Renzi non cancella, come pensano e scrivono in tanti, gli ultimi elementi di piciismo presenti nel PD. La storia del PCI è finita da tempo e nel PD non c’è mai stata una presenza di sinistra comunista, anche una lontana parvenza di quei sentimenti, di quei progetti di trasformazione della società in senso socialista.
Le parole hanno perso di significato perché sono state abusate nel loro uso.
Ora la folla applaude sotto le note delle canzone di Jovanotti il nuovo conducator dell’Italia modernissima fatta di tablet nelle scuole mentre i soffitti cadono a pezzi, fatta di sostegni alle imprese mentre lo stato-sociale muore e rimuore, stramuore definitivamente sotto il peso delle finzioni riformatrici di governi tecnici e politici che non fanno altro se non dirigere la barra della barca verso un mare aperto di incognite.
Nei prossimi mesi, già con la partita delle elezioni europee, sarà possibile scorgere le prime proposte di Renzi e della sua nuova segreteria in merito al posizionamento del PD nello scacchiere presuntamente bipolarista della politica italiana.
Il fenomeno grillino sembra intrappolato tra il ritorno al successo sia di Berlusconi che del sindaco fiorentino e per ora non fa passi avanti. Gli attacchi alle fondamenta non dei princìpi più sociali ma quelli ben più liberali della Costituzione è un errore profondo, ormai incancellabile: giornali, giornalisti, libertà di stampa.
Se c’è una cosa che le primarie del PD hanno almeno dimostrato è che la partecipazione esiste e che Grillo ancora non ha in mano questo Paese e forse non lo avrà mai. E questa non potrà e non dovrà altrimenti essere considerata se non una fortuna.
Dall’altro canto, ciò che Renzi rappresenta non ci consegna la speranza di poter vedere il mondo del lavoro, della scuola pubblica, della sanità pubblica, dei diritti anche civili messi al primo posto di una agenda di spesa che implementi gli investimenti in questi settori e tagli, ad esempio, sul fronte delle spese belliche e metta finalmente una tassazione patrimoniale per far pagare gli straricchi e i ricchissimi o che propenda per una sacrosanta riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Nel suo discorso di investitura, proprio su questi punti Renzi ha espresso parole duramente chiare: è massimalismo e massimaliste sono le forze politiche che propongono tutto questo.
Quindi, se vogliamo ricostruire la sinistra italiana dobbiamo sapere che non possiamo affidarci al quarantenne Renzi e nemmeno a quella Sinistra Ecologia Libertà vendoliana che corre a fiato corto verso un PD che è pronto a farla entrare nel recinto di una parvenza dell’alternanza.
Ormai, da Berlusconi a Renzi, da Alfano a Salvini, da Vendola a Boselli, l’indistinguibilità è pressoché totale.
L’unica speranza per la sinistra comunista, per la sinistra italiana degna di questo nome, è comportarsi politicamente in modo tale da far percepire la propria peculare differenza da tutte queste forze che si sono auto omologate e rese compatibili col mercato capitalistico e con le sue esigenze. Chi più, chi meno. Ma tutte stanno nel cerchio delle esigenze del liberismo.
Ancora una volta differenziamoci, ma senza presunzione.
E, infatti, Renzi è più che un semplice segretario che si avvicenda ad altri segretari del Partito democratico: è l’emblema di una linea di confine che molta parte della dirigenza economica e politica di questo Paese vuole tracciare tra un finto passato che non passa e un nuovo futuro che non esiste se non nell’accentuazione delle politiche del passato.
Il sindaco di Firenze fa un discorso di insediamento tutto metaforizzato, pieno di allegorie e – come doveva essere – ricco di entusiastici propositi. Intruduce l’elemento della puerilità, dei bambini come specchio della realtà di oggi; parla delle famiglie, del loro tenore di vita; parla delle imprese e dello sforzo che fanno nell’ambito di una compatibilità europea dove l’Italia è un fanalino di coda e subisce gli effetti della crisi.
Matteo Renzi rappresenta quindi, col suo discorso, non tanto il nuovo segretario del PD, quanto l’uomo nuovo di una Provvidenza italiana che ogni tanto si affaccia nella vita di questo Paese e che oggi è pronto a sostituire l’epoca berlusconiana con quella renziana. Gattopardismo all’ennesima potenza: tutto, davvero tutto, cambi affinchè tutto resti così come è oggi.
Qualche correzione di rotta sulla gestione degli ordini che provengono da Bruxelles e che Napolitano bene indirizza comandando al Parlamento persino quale legge elettorale deve mettersi a scrivere e poi via verso la volata per Palazzo Chigi.
Enrico Letta, intanto, lavora per il Re di Prussia e Renzi ha il tempo per costruirsi un consenso ancora più forte dei due milioni di elettori delle primarie democratiche che, per ora, lo hanno messo a capo dell’anomalia politica italiana, di quel conglomerato pentapartitico che riunisce cattolici democratici e socialdemocratici dell’ultimissima ora trasformati in una serie di tanti piccoli corrieri del liberismo temperato.
Mi ricorda la frase di Romano Prodi di tanti anni fa che era anche il titolo di un libriccino molto interessante da lui scritto: “Il liberismo ben temperato”. In sintesi, il professore spiegava come una coalizione di centrosinistra potesse dare un colpo al cerchio e uno alla botte, mantenendo ovviamente un tratto liberale nelle sue politiche ma comprendendo che era necessario, per fare ciò, anche rivolgersi a quella parte di Italia meno fortunata, più desertificata nei suoi diritti: noi lo chiameremmo “mondo del lavoro”, “proletariato”, e così via.
L’occhio di Prodi era almeno impostato su questa giusta ambivalenza e non aveva le pretese di farsi dettare le condizioni da Bruxelles. Lui era Bruxelles e sapeva come mantenere in equilibrio una qual certa “pace sociale”.
Oggi tutto questo sembrerebbe un miracolo se dovesse essere la ripartenza di una politica di centro-sinistra (trattino dovuto) in questo nostro sciagurato Paese.
Le condizioni economiche sono da tempo cambiate e cambiata profondamente è proprio la condizione sociale delle masse: la stratificazione si è fatta più ampia, i ceti sociali fanno fatica ad interagire tra loro e prevale, indotta dall’egoismo liberista, il “si salvi chi può”, quindi la fine della coscienza di classe, l’azzeramento della socialità e la sua sostituzione con una condotta individuale di tolleranza delle debolezze e di scardinamento dei diritti sociali in nome di quelli individuali.
Per l’appunto l’individualismo ha preso il posto ovunque del collettivismo, dell’idea generale di società.
Lo sa bene Matteo Renzi che raccoglie l’eredità, culturalmente americaneggiante, del “self made man” e che si fa eleggere quale nuovo esecutore politico di un testamento del liberismo che è formulato a più mani e che tenta di salvare la decadenza del capitalismo italiano in mezzo ad un contesto europeo di predominanza teutonica in quanto ad esportazioni e a ricchezza nazionale.
Lo stesso giorno in cui il sindaco di Firenze diventa capo del Partito democratico, sul fianco destro Silvio Berlusconi rilacia il progetto di Forza Italia e Angelino Alfano quello di un Nuovo Centrodestra dalla fisionomia rispettabile per accreditarsi un posto nel panorama politico devastato dalle inchieste che sembravano aver travolto definitivamente il Cavaliere nero di Arcore.
La riorganizzazione del bipolarismo italiano è nelle mani, dunque, di Renzi e Berlusconi. Altri assisteranno ai lavori: Salvini, neo segretario della Lega Nord e polverizzatore del vecchio Bossi; Alfano, neo coordinatore degli scissionisti berlusconiani.
Sull’altro fronte Nichi Vendola è pronto a sostenere Renzi come aveva, del resto, dichiarato qualche mese fa: la linea di sostegno di Sel al finto centrosinistra prima bersaniano e ora renziano è e rimane l’unica linea congressuale di un partito personalistico che scende, per la prima volta nella sua breve vita, al di sotto del 3% nei sondaggi e che comincia a lamentare alcuni malumori all’interno di una base che ha ancora una consapevolezza di una certa idea della sinistra. Moderata, ma pur sempre sinistra.
La vittoria di Renzi non cancella, come pensano e scrivono in tanti, gli ultimi elementi di piciismo presenti nel PD. La storia del PCI è finita da tempo e nel PD non c’è mai stata una presenza di sinistra comunista, anche una lontana parvenza di quei sentimenti, di quei progetti di trasformazione della società in senso socialista.
Le parole hanno perso di significato perché sono state abusate nel loro uso.
Ora la folla applaude sotto le note delle canzone di Jovanotti il nuovo conducator dell’Italia modernissima fatta di tablet nelle scuole mentre i soffitti cadono a pezzi, fatta di sostegni alle imprese mentre lo stato-sociale muore e rimuore, stramuore definitivamente sotto il peso delle finzioni riformatrici di governi tecnici e politici che non fanno altro se non dirigere la barra della barca verso un mare aperto di incognite.
Nei prossimi mesi, già con la partita delle elezioni europee, sarà possibile scorgere le prime proposte di Renzi e della sua nuova segreteria in merito al posizionamento del PD nello scacchiere presuntamente bipolarista della politica italiana.
Il fenomeno grillino sembra intrappolato tra il ritorno al successo sia di Berlusconi che del sindaco fiorentino e per ora non fa passi avanti. Gli attacchi alle fondamenta non dei princìpi più sociali ma quelli ben più liberali della Costituzione è un errore profondo, ormai incancellabile: giornali, giornalisti, libertà di stampa.
Se c’è una cosa che le primarie del PD hanno almeno dimostrato è che la partecipazione esiste e che Grillo ancora non ha in mano questo Paese e forse non lo avrà mai. E questa non potrà e non dovrà altrimenti essere considerata se non una fortuna.
Dall’altro canto, ciò che Renzi rappresenta non ci consegna la speranza di poter vedere il mondo del lavoro, della scuola pubblica, della sanità pubblica, dei diritti anche civili messi al primo posto di una agenda di spesa che implementi gli investimenti in questi settori e tagli, ad esempio, sul fronte delle spese belliche e metta finalmente una tassazione patrimoniale per far pagare gli straricchi e i ricchissimi o che propenda per una sacrosanta riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Nel suo discorso di investitura, proprio su questi punti Renzi ha espresso parole duramente chiare: è massimalismo e massimaliste sono le forze politiche che propongono tutto questo.
Quindi, se vogliamo ricostruire la sinistra italiana dobbiamo sapere che non possiamo affidarci al quarantenne Renzi e nemmeno a quella Sinistra Ecologia Libertà vendoliana che corre a fiato corto verso un PD che è pronto a farla entrare nel recinto di una parvenza dell’alternanza.
Ormai, da Berlusconi a Renzi, da Alfano a Salvini, da Vendola a Boselli, l’indistinguibilità è pressoché totale.
L’unica speranza per la sinistra comunista, per la sinistra italiana degna di questo nome, è comportarsi politicamente in modo tale da far percepire la propria peculare differenza da tutte queste forze che si sono auto omologate e rese compatibili col mercato capitalistico e con le sue esigenze. Chi più, chi meno. Ma tutte stanno nel cerchio delle esigenze del liberismo.
Ancora una volta differenziamoci, ma senza presunzione.
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