Incontro-dibattito sul libro Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, Clash City Workers (La casa Usher, 2014) presso La casa in Movimento, Cologno Monzese (MI), 13 novembre 2015
Il progetto Clash City Workers nasce a Napoli nel 2009 e si diffonde a Roma, Firenze e Padova, in piccolo anche a Milano, Torino e Verona, dove si sono sviluppati dei nodi del collettivo Clash. Di base è nato dall’esigenza di trovarsi, dal fatto di essere sempre stati legati a livello ideologico a una visione della società che vede il lavoro al centro quantomeno del ragionamento politico, una visione che però non aveva gli strumenti adeguati per leggere la realtà che si trovava di fronte: andavamo davanti ai luoghi di lavoro a distribuire il volantino ma non riuscivamo a parlare con i lavoratori, ad avere con loro una relazione, proprio perché il nostro approccio era puramente ideologico. In più si aggiungeva la constatazione che quel lavoro che i media raccontavano non esistere più, o perlomeno essere confinato a una parte marginale delle nostre vite, di fatto lo vivevamo direttamente, o anche indirettamente perché disoccupati e studenti che si andavano a formare per poi inserirsi nel mercato del lavoro.
Eravamo di fronte quindi a una mancata considerazione di quel campo che è al centro sia della nostra esperienza individuale e collettiva sia, anche se in modo rovesciato, del discorso pubblico – se pensiamo a qual è il centro dell’operato del governo Renzi, iniziato con una riforma che, a parole, doveva garantire una maggiore occupazione e risolvere il problema del dualismo del mercato del lavoro, e si è tradotta in un un abbassamento generalizzato delle condizioni complessive, con i due passaggi del Jobs Act che prima ha peggiorato il dualismo con la semplificazione dei contratti a termine e poi ha messo in atto l’attacco più violento con l’abolizione dell’articolo 18.
Per anni si è anche detto che non esisteva più la possibilità di lottare nei luoghi di lavoro, che non c’era più conflitto, che era diventato difficile farlo; per cui si pensava che il posto di lavoro non fosse più lo spazio dove poter fare politica, e poter organizzarsi per migliorare anche quell’aspetto della nostra vita. Se questa lettura in parte coglieva alcune verità, quelle di una trasformazione, quantomeno in Italia, dei rapporti produttivi e del tipo di organizzazione aziendale, e della conseguente possibilità di fare sindacato, dall’altro era una visione molto schiacciata sulle percezioni individuali di chi aveva la possibilità di scrivere, o di chi ha avuto un ruolo intellettuale sia all’interno di quello che possiamo chiamare Movimento sia all’interno di ciò che rappresenta l’arco della sinistra istituzionale. Eppure a noi questa idea che fossimo tutti pizzaioli o lavoratori della conoscenza suonava un po’ strana. E, soprattutto dopo lo scoppio della crisi nel 2007/2008, bastava leggere le pagine locali di un quotidiano per scoprire che c’erano tante fabbriche che chiudevano, oppure lavoratori in vertenza contro un abbassamento salariale. Quindi ci siamo detti che forse questo mondo che si racconta non esistere più, non esiste più nel nostro discorso ma nella realtà esiste eccome.
Volevamo inoltre cercare di capire quegli elementi storici, anche recenti come le Primavere arabe, che ci hanno mostrato come non sia tanto la dimensione della piazza a determinare le trasformazioni sociali quanto piuttosto la capacità di incidere nella sfera di produzione, nei rapporti economici: in passato in Italia i movimenti della lotta per la casa hanno assunto centralità e ottenuto un passaggio significativo quando anche il movimento dei lavoratori ha assunto la questione della casa come centrale e rilevante, e l’ha quindi posta all’ordine del giorno e si è mobilitato; allo stesso modo nelle Primavere arabe, soprattutto in Tunisia e in Egitto – sebbene ora la situazione sia pessima – ci sono stati momenti importanti, che sono riusciti a trasformare una situazione immobile da almeno trent’anni, proprio quando in piazza sono scesi i lavoratori.
Quindi, per non avere un approccio ideologico e riuscire a capire veramente com’è oggi il mondo del lavoro e quali sono le forme di organizzazione, abbiamo deciso di iniziare a fare inchiesta. Significa cercare di capire effettivamente quali sono le lotte che si muovono, come sono organizzate, quali sono i loro problemi, quali possono essere gli strumenti di intervento, come possiamo muoverci, noi che vogliamo di fatto fare un lavoro politico, nella direzione di trasformare questa società nella sua generalità; come possiamo incidere veramente e come facciamo a diventare strumento nelle mani di chi già si mobilita, e non essere grillo parlante, merlo indiano sulla spalla del lavoratore; come possiamo promuovere questa mobilitazione.
Il lavoro che dunque facciamo quotidianamente, che spesso non è un lavoro particolarmente avvincente perché non ha delle ricadute immediate, è quello di mappare il territorio dove siamo, ossia andare a vedere che cosa succede; quindi apriamo il giornale e facciamo la rassegna stampa, per avere un’idea di quello che si muove – chiaramente è un lavoro filtrato dalla linea editoriale dei quotidiani, ma mano a mano si costruiscono delle relazioni che tentano di avere una presa maggiore su ciò che accade, scavalcando anche questo strumento. Poi andiamo dove ci sono le vertenze, facciamo delle video interviste, cerchiamo di dare voce e usiamo il nostro sito e i social network, in particolare facebook, per dare voce alle singole lotte, con articoli e interviste. Facendo questo cerchiamo di mettere quei lavoratori con cui abbiamo una relazione, in contatto con una dimensione più grande: in questo modo si trovano sul sito affiancati a lavoratori di altri settori, o dello stesso settore ma in un’altra parte di Italia o del mondo (anche se questo lo facciamo in maniera molto più indiretta), e ciò fa emergere alcune questioni comuni che ci possono essere tra settori completamente differenti e in luoghi geografici diversi. È importante fare emergere questa omogeneità di fatto, che esiste in gran parte delle condizioni di lavoro e di vita, e quindi creare delle connessioni materiali.
Quello che cerchiamo di fare è costruire relazioni.
A Padova, per esempio, in questo momento stiamo promuovendo un coordinamento di lavoratori in lotta dove ci sono i lavoratori di Ikea, gli insegnanti contro la Buona Scuola di Renzi e i lavoratori di una fabbrica che produce frigoriferi, a capitale cinese, che vuole chiudere gli stabilimenti. Qualche settimana fa abbiamo presentato il libro in val Brembana, in provincia di Bergamo, e lì c’erano dei lavoratori della Fiber che nel 2012 si sono trovati davanti una situazione simile, e hanno reagito impedendo la delocalizzazione della fabbrica, autogestendola per sei mesi, e riuscendo a continuare la produzione finché non è arrivata un’azienda tedesca che ha acquistato l’impresa – e dopo due anni ha proposto nuovi esuberi, quindi da ottobre dell’anno scorso i lavoratori sono di nuovo in presidio permanente con un camper davanti all’azienda. È stata una vicenda significativa che non è emersa e di cui si sa molto poco, e ha dei punti comuni con la situazione di Padova, punti che possono essere da esempio e stimolo. Quindi abbiamo chiesto a questi lavoratori se volevano mandarci un contributo, un video messaggio, e lo hanno fatto, raccontando la loro storia e spingendo i lavoratori di Padova a tenere duro e lottare. Abbiamo proiettato il video durante un’assemblea al presidio ed è stato accolto con entusiasmo, e con la richiesta di avere i contatti per potersi parlare.
Abbiamo costruito relazioni anche in realtà più grosse come l’Electrolux, relazioni con le Rsu e i lavoratori dei vari stabilimenti, che sono andati a dare la propria solidarietà ai presidi delle lavoratrici di una casa di riposo che dovevano essere licenziate e sostituite con una cooperativa. Un’azione che ha dato maggiore visibilità alla lotta, e ha contribuito a sviluppare una percezione comune della propria situazione dentro i rapporti sociali.
Da queste esperienze, e quindi dalla necessità di sganciarci dalla nostra visione personale e individuale e di approfondire la conoscenza, che è teorica ma anche pratica, della realtà, è nato il libro Dove sono i nostri, dove per ‘nostri’ si intende la classe lavoratrice. Alle manifestazioni del 18/19 ottobre 2013, che hanno segnato un momento importante e visto in piazza soprattutto i movimenti di lotta per la casa, ci siamo detti: qui manca quel grande insieme di persone, molto più grande, che noi vediamo lottare e organizzarsi quotidianamente, anche in maniera scomposta e senza riuscire a creare delle forme organizzative stabili. Quindi abbiamo deciso che dovevamo far capire a chi c’era in quella piazza perché per noi è importante lavorare su questa dimensione, e siamo partiti con l’idea di scrivere un commento, un documento, che poi si è trasformato in questo libro.
Per scriverlo siamo partiti da alcune indagini statistiche e ricerche economiche fatte dall’altra parte, per esempio da Intesa San Paolo, e andando a spulciare il sito dell’Istat, che pur essendo costruito per esigenze che non coincidono con le nostre contiene molti dati interessanti che possono essere utilizzati. Abbiamo quindi affiancato un’indagine di dati, statistica, che è una parte consistente del libro, alla nostra esperienza.
Sinteticamente, da una introduzione in cui cerchiamo di capire quali sono i temi da mettere in discussione, siamo andati a vedere qual è la struttura produttiva dell’Italia, ossia come si produce la ricchezza, quali sono i settori, che cosa è cambiato nel corso del tempo, chi la produce, quindi com’è composta la popolazione italiana, chi sono gli studenti, i lavoratori, i disoccupati; poi siamo entrati nel dettaglio, seguendo una divisione dei settori produttivi secondo le caratteristiche da un punto di vista statistico – genere, provenienza geografica, età, tipo di istruzione – affiancando i dati a quelli che sono i risultati delle nostre inchieste, indagini e relazioni sul campo, di modo da far emergere i punti di forza, le possibilità di organizzazione, quello su cui ci sembra maggiormente importante puntare e spingere; poi siamo entrati anche dentro le categorie del lavoratore autonomo, cercando di capire cosa c’è dei nostri dentro quel settore e cosa invece non c’è, e anche la categoria dei Neet, che critichiamo proprio per come è costruita, perché fondamentalmente in questa categoria ci sono dei disoccupati, o comunque l’incremento dei Neet è dovuto all’incremento della disoccupazione; infine abbiamo tirato le conclusioni politiche, cercando di collocare le trasformazioni dal lato sindacale e dal lato politico, seguendo quello che sono stati gli accordi a partire dall’abolizione della scala mobile fino a quello sulla rappresentanza – il Jobs Act ancora non c’era – e cogliendo quindi anche il ruolo neocorporativo verso cui stiamo andando, sebbene con delle trasformazioni negli ultimi mesi, e proponendo in chiusura la nostra progettualità.
Per tutto il libro abbiamo cercato di mantenere due prospettive temporali, facendo un confronto di lungo periodo, prendendo gli ultimi dati disponibili del Censimento Industria e servizi, del 2011, e confrontandoli con quelli del 1971, un anno che nell’immaginario è visto come simbolo di una società scandita dal ritmo della fabbrica, lo Statuto dei lavoratori è da poco stato approvato e siamo tutti operai; una lettura che per un certo senso è vera, ma dall’altra è una rappresentazione un po’ mitologica.
Se andiamo quindi a vedere com’era prodotta la ricchezza, il Pil, nei macrosettori di agricoltura, industria, servizi e commercio, nel 1971 l’industria in senso stretto produceva il 29,5% del Pil, nel 2011 il 18,6%; se andiamo a vedere il numero degli occupati, nel 1971 nell’industria in senso stretto erano quasi il 29%, oggi sono il 20,5%. Guardando questi dati un po’ superficialmente si può dunque pensare che l’Italia stia andando effettivamente verso una deindustrializzazione, ma non è così. Andando dentro i dati infatti, scomponendo queste categorie, si scopre che a essere aumentati non sono tanto i servizi in genere, bensì i servizi legati all’industria, e per due ordini di motivi, che hanno a che fare con la classificazione statistica. Da un lato c’è una correzione, dall’altro un errore.
Dalla metà degli anni Settanta in poi è avvenuta una scomposizione dell’organizzazione aziendale. La Benetton, per citare un nome e fare un esempio, è passata da una grande fabbrica concentrata, dove avveniva tutta la produzione, a una fabbrica diffusa nel territorio: sono stati presi diversi reparti, trasformati in piccole aziende e dati in mano ai caporeparto, che sono così diventati piccoli padroncini. Una fetta della forza lavoro che stava nella fabbrica è stata quindi espulsa e spezzettata in varie piccole aziende. Ma la scomposizione non è avvenuta solo sul territorio, anche all’interno del luogo di lavoro. Un tempo erano tutti dipendenti di Benetton, gli operai che lavoravano in mensa, quelli che facevano le pulizie ecc., mentre ora queste attività sono state esternalizzate e le statistiche, correttamente, le leggono come ‘servizi’. Eppure quelle persone svolgono la stessa attività di quarant’anni fa. Quindi abbiamo avuto una correzione statistica.
Ma abbiamo anche un errore. I lavoratori, come a Pomigliano, per esempio, all’epoca Alfa Romeo oggi Fiat, o Fca che dir si voglia, che svolgevano una funzione fondamentale del processo produttivo, quella di spostare i pezzi da una linea all’altra, da un capannone all’altro, si sono trovati non più dipendenti dell’Alfa Romeo ma di una azienda di logistica interna; quindi oggi la statistica li colloca nei servizi, e questo è un errore perché la loro mansione è produttiva, non ha niente a che fare con i servizi.
Queste due variazioni di classificazione spiegano una parte significativa del cambiamento dei dati tra il 1971 e il 2011, anche se non del tutto, ovviamente. Perché di fatto c’è stata una crescita di altri servizi, legati all’informatizzazione, al design, alla progettazione, che hanno integrato nuovi tipologie di lavoro all’interno della produzione. Ma ciò che è rilevante è il fatto che il manifatturiero è centrale nell’organizzazione economica e produttiva a livello europeo, o forse si può dire a livello generale per una economia capitalistica.
Quindi c’è stata una trasformazione formale dell’organizzazione del lavoro, che però ha avuto e ha degli effetti sostanziali perché spezzetta, rende più difficile l’organizzazione della lotta, perché se mi ritrovo in una piccola azienda della provincia avrò più difficoltà ad andare a parlare con i miei colleghi che lavorano nella grande azienda, quella che ha esternalizzato e per cui io produco un pezzo che poi i miei colleghi continueranno a lavorare.
È una trasformazione anche globale, degli investimenti. Basti pensare alla Cina, alla crescita che ha avuto. Quindi la costruzione di filiere globali crea uno spezzettamento che è anche verticale, affiancato però da una sempre maggiore coesione con i servizi legati all’industria, in cui è sempre più difficile distinguere tra cosa è produttivo e cosa non lo è.
È chiaro che questa trasformazione del sistema produttivo è stata anche una reazione alle lotte che negli anni Sessanta e Settanta hanno segnato la conquista di diritti collettivi, in Italia l’applicazione, in parte, della Costituzione, e un miglioramento generale: l’Italia più egualitaria è stata quella degli anni Settanta, proprio come esito di quel ciclo di lotte. Come reazione quindi alla perdita di profittabilità degli investimenti, a livello anche globale, si sono sviluppate tutta una serie di riorganizzazioni produttive, le delocalizzazioni ecc. Sicuramente questo ha indebolito l’organizzazione operaia, ma offre anche nuove possibilità di lotta.
Filiere così integrate danno la possibilità di interrompere il flusso. Quella del tessile, per esempio, che va dalla coltivazione fino al Bangladesh, dove avviene la confezione dei capi, e poi arriva in Italia dove si realizza la vendita, ma che parte anche dall’Italia perché qui ci sono i piccoli stabilimenti che producono i campioni; oppure la filiera agricola, che parte dai campi della raccolta, nelle condizioni disastrose che conosciamo, dei pomodori e della arance pugliesi e calabresi, sale lungo i magazzini e i camion della logistica e arriva nei centri della grande distribuzione. Capire come sono organizzate queste filiere è necessario per comprendere quali sono gli strumenti più efficaci per incidere nelle lotte.
Un esempio l’hanno dato i lavoratori del magazzino centrale di Ikea, che tra il 2012/2013 e poi nell’estate scorsa del 2014 hanno organizzato una dura lotta, sebbene in questo momento si può dire che abbiamo perso, anche se non completamente. Tutti i lavoratori della logistica sono formalmente dipendenti di cooperative ma di fatto svolgono una mansione per Auchan, Bennet, Ikea ecc., ossia il committente finale; quando hanno iniziato a mobilitarsi, questi lavoratori hanno scelto come propria controparte non la cooperativa, anche quella, certo, ma prima di tutto l’Ikea, la Bennet ecc., cioè l’impresa che effettivamente tiene le redini della filiera, il grande gruppo multinazionale capace di condizionare le situazioni di lavoro lungo tutta la filiera. Sceglierlo come controparte offre anche la possibilità di organizzarsi al di là della propria singola condizione specifica, e quindi andare a parlare con i dipendenti di Ikea, Auchan ecc.
Questa frammentazione, quindi, se rende più difficoltosa l’organizzazione crea anche spazi di conflitto che non sono ancora stati indagati e studiati, forse perché, come si diceva, si è creduto che non esistesse più la possibilità di organizzarsi; dunque c’è tutto un sapere da costruire ex novo, o quantomeno da recuperare.
Esiste un’altra questione legata al confronto temporale tra il 1971 e il 2011. Quando si crede che tutti i lavoratori stavano in fabbrica, mentre si legge nelle statistiche che erano il 28%, vuol dire che la capacità di determinare la direzione politica, ossia di mettere al centro della discussione politica la questione del lavoro – che non è solo la questione del lavoro in fabbrica ma delle condizioni di lavoro in generale – non derivava tanto dalla consistenza numerica bensì dalla coscienza e dall’organizzazione: dal riconoscersi come classe, e poter essere in grado di muoversi in una direzione comune, anche se magari non studiata, però percepita.
La nostra paura è che non moriremo di inedia, disoccupati, ma torneremo in una situazione di super sfruttamento. Le politiche europee del lavoro, i desideri di Confindustria, che si stanno realizzando in gran parte nel governo Renzi, non sono quelli di eliminare la produzione dall’Italia o dall’Europa, vivendo di turismo e chissà cos’altro; ci sono studi in Francia, Italia e soprattutto negli Usa, che mostrano come ci sia stato e ci sarà un ritorno dell’industrializzazione. Al posto della delocalizzazione, dell’offshoring, potremmo entrare in una fase di reshoring, che significa riportare la produzione e gli investimenti produttivi in Europa e in Occidente, ma sarà attuato solo quando le condizioni di sfruttamento saranno ripristinate e il Capitale potrà ottenere dei profitti adeguatamente alti secondo i suoi desideri. Quindi ridurre i salari, andare a smantellare le garanzie sui luoghi di lavoro, indebolire la possibilità di fare sciopero ecc. sono operazioni che vanno in questa direzione. Perché la Germania starebbe meglio nella rappresentazione che abbiamo? È vero, ci sono i lavoratori della Volkswagen che hanno buoni salari, ma c’è anche un grande esercito di sottoccupati, persone che lavorano con i cosiddetti Mini Jobs, lavori pagati pochissimo che costringono a una precarietà di vita molto alta, che legano a doppio filo con i sussidi, come quello che la Naspi cerca di emulare, ossia il fatto di dover accettare per forza un’offerta di lavoro perché se la si rifiuta per la terza volta si riduce o si perde il sussidio, e la si deve accettare anche se il lavoro offerto è pagato meno del sussidio stesso. La Germania ha fatto questo processo di attacco al salario nel 2003, con le riforme del Piano Hartz, e se si osserva un semplice grafico appare evidente che dal 2003 la quota di reddito nazionale che va ai salari inizia a scendere, mentre quella che va ai profitti inizia a salire; quello che è accaduto in Italia dopo l’abolizione della scala mobile e gli accordi del ‘92/93 sulle rappresentanze sindacali. Il Piano Hartz ha avuto un tale effetto da porre, anche a partire da condizioni specifiche della stessa Germania, le basi per mantenere gli investimenti e la profittabilità. Quindi quello che di fatto si va a cercare è la possibilità di tornare a fare investimenti redditizi anche in Europa, e lo si fa abbassando i salari, aumentando i ritmi, peggiorando le condizioni di lavoro in tutti i settori. Certo è più evidente su una linea di montaggio, come all’Elec-trolux, dove si passa da 60 a 82 pezzi all’ora; poi magari viene attivato un contratto di solidarietà in cui si lavora sei ore ed è ancora sopportabile, però intanto la proprietà ottiene la stessa produzione che aveva prima nelle otto ore; e poi quando si registra il picco produttivo e si torna a otto ore, il lavoro diventa assolutamente insostenibile.
Noi non diciamo che si può fare politica solo nel lavoro, anzi, facciamola ovunque esista la possibilità di farla, però scegliamo delle priorità, che non dipendono tanto da noi e dalla nostra convinzione ma dalla possibilità di generalizzarle, di incidere su dei piani che abbiano una dimensione di massa, che siano recepibili, comprensibili, attaccabili, a livello generale nella società, dai nostri, tutti. È vero che c’è una grande frammentazione che è figlia di questi processi e che in parte è sempre esistita, ma è vero anche che c’è una tendenza alla omogeneizzazione; ed emerge dai dati, a livello dei salari, al ribasso, e questo dobbiamo essere in grado di usarlo a nostro vantaggio. Il fatto che i bancari facciano saltare il contratto collettivo non li fa sembrare più dei privilegiati, e ciò vuol dire che saranno più facilmente con noi a lottare.
Esiste una omogeneizzazione anche a livello globale. Non dobbiamo pensare che tutto dipenda da noi, che siamo gli unici protagonisti di questa storia, perché se andiamo a vedere qual è l’andamento dei salari in Cina ci accorgiamo che i lavoratori cinesi scioperano, pur avendo un unico sindacato, governativo, e con tutte le difficoltà della situazione, ottenendo dei miglioramenti salariali del 30% l’anno nel distretto del Guang-dong del sud est cinese, dove sono localizzate le più grandi concentrazioni industriali. È chiaro che questo risponde anche a una politica del governo che cerca di stimolare i consumi interni, ma è anche frutto di quelle lotte. Quindi se là i salari crescono, esiste la possibilità di vedere una omogeneizzazione che può essere utilizzata per individuare delle rivendicazioni collettive. Per esempio si deve ragionare su una dimensione europea, sulla differenza salariale importante esistente tra la Germania e la Polonia e la Repubblica Ceca, Paesi confinanti che hanno salari pari alla metà, a un terzo, di quelli tedeschi, e che quindi funzionano anche da bilanciamento sul piano delle rivendicazioni salariali in Germania; pensare una rivendicazione di incremento salariale uguale è un’azione di cui non sappiamo niente nella pratica. Nella pratica conosciamo solo quelle che sono le risposte dall’alto, che spingono sempre più in una direzione neocorporativa tra proprietà e sindacati, quindi i nostri devono riuscire a creare qualcosa di più omogeneo e trovare gli strumenti per guidarlo.
In Italia in questo momento, probabilmente la realtà più significativa sul piano della partecipazione, mobilitazione e della capacità di incidere anche nella politica cittadina, di fare proprio quel lavoro di rimessa al centro del discorso pubblico della questione lavoro, è il Coordinamento dei lavoratori e delle lavoratrici livornesi. È nato circa un anno fa sulla spinta di alcuni compagni che si occupavano di lotta per il diritto alla casa e di un lavoratore Rsu molto capace, che ha deciso di costruire una rete di relazioni. È un coordinamento che va al di là dell’appartenenza sindacale e cerca di essere proprio quello strumento nelle mani dei lavoratori. Ha subito dato sostegno a una lotta molto improvvisa e accesa di alcuni lavoratori di una fabbrica che produceva pezzi per la Fiat, che hanno scoperto nel corso di una notte che lo stabilimento sarebbe stato chiuso da lì a poco; 400 lavoratori che hanno iniziato subito una mobilitazione con sciopero e sono andati a occupare la sede di Confindustria. Il coordinamento è cresciuto intorno a loro, rafforzandoli, dandogli visibilità, ed è riuscito ad aggregare intorno a sé più di trenta realtà lavorative diverse in pochissimo tempo, tant’è che il primo corteo a fine di ottobre dell’anno scorso ha visto 3.000 lavoratori in piazza, dai call center ai lavoratori del porto, e sta proseguendo nell’azione ed è riuscito a spostare il dibattito cittadino su queste questioni.
E chiaro che bisogna fare dei passi in avanti, perché il conflitto resta tuttora schiacciato sulla dimensione vertenziale e resistenziale, rimane sulla difesa, sul mantenimento di uno spazio di agibilità, di condizioni di vita che verrebbero meno, e non riesce a porre, o lo fa poco, delle questioni di avanzamento. Ma ci sono anche realtà in cui si va all’attacco, come nelle lotte del mondo della logistica, che vanno anch’esse nella direzione di costruire una omogeneità; perché è vero che tutti lavorano nella logistica, ma è vero anche che sono una miriade di cooperative diverse. Tutto è iniziato nel 2008/2009, nella provincia di Milano, a partire da alcune lotte piccole ma significative, che poi si sono estese soprattutto a Piacenza, a Bologna, lungo gli snodi della logistica; i lavoratori sono riusciti a portare un esempio di possibilità di andare all’attacco, ossia di ottenere cose che prima non avevano. È vero che si partiva da situazioni molto pesanti, in cui il contratto nazionale non era assolutamente applicato e c’era un forte dispotismo nell’ambiente di lavoro, ma adesso i lavoratori sono organizzati in due principali sindacati di base, Si Cobas e Adl Cobas, e sono riusciti a ottenere quantomeno l’applicazione del contratto collettivo nazionale e la riduzione netta del livello di dispotismo. E ora stanno portando avanti una piattaforma che chiede un nuovo contratto collettivo nazionale che preveda di fatto il superamento del sistema delle cooperative, utilizzate unicamente per ottenere sgravi fiscali, evadere la contribuzione e poter fare i cambi appalto ogni due anni, che significa eliminare scatti di anzianità e poter lasciare a casa con una grande facilità chi diviene troppo fastidioso. Riuscire ad abolire questa organizzazione del lavoro all’interno della logistica ha delle ricadute molto positive anche negli altri settori in cui si lavora all’interno di cooperative; è una questione comune che pone il tema di come si possano generalizzare le forme di lotta e di rivendicazione.
C’è anche la Camera popolare del lavoro di Napoli, che abbiamo sviluppato come Clash City Workers dentro uno spazio occupato a marzo di quest’anno, un vecchio ospedale psichiatrico giudiziario. Questa realtà è stata costruita rifacendosi al ruolo originario che dovevano avere le Camere del lavoro – quindi fine Ottocento, inizi Novecento – ossia quello di mettere in relazione i lavoratori, creare capacità di organizzazione al di là del proprio luogo di lavoro e al di là della propria appartenenza alla singola lega sindacale, creare informazione e istruzione suoi propri diritti, e mobilitare i lavoratori sulle questioni degli altri lavoratori: io che sto alla Fiat vado a supportare i lavoratori della cooperativa che fa le pulizie alla Auchan .
Di fatto questa Camera popolare del lavoro è un embrione di una forma organizzativa che va nella direzione di costruire, anche dal punto di vista della coscienza, una omogeneità che esiste già nella materialità dei fatti. Siamo connessi dal Capitale a livello globale, siamo connessi lungo le filiere e siamo omogeneizzati nell’attacco che ci viene rivolto, ma di fatto siamo scomposti dal punto di vista soggettivo, nella nostra percezione, da quanto ci sentiamo diversi, separati, non capiamo; quindi fondamentale prerequisito per qualsiasi possibilità, anche di sviluppo politico, è il presentarsi dei nostri, della nostra classe, nel dibattito pubblico, in una forma organizzata.
Parlare del conflitto capitale/lavoro non è una questione ideologica ma uno strumento per trasformare anche la rappresentazione che c’è fra i nostri. Lavorare occupa dalle otto alle dieci ore al giorno, ore fondamentali, e in più esiste tutto il corredo del lavoro che occupa buona parte del resto del tempo: quando vado a casa mi trascino dietro alcuni di questi aspetti, le conseguenze, i pensieri, le preoccupazioni. Bisogna recuperare l’ambito del lavoro anche nella quotidianità, che non è vero che non c’è, c’è eccome, solo che le persone tendono a trasformarlo nella preoccupazione del dover pagare la bolletta, l’assicurazione dell’auto, senza pensare che devono pagarla, semplificando estremamente, perché non ci sono più mezzi di trasporto pubblico e quindi tutto è a carico del lavoratore. Aspetti che non sono immediatamente il salario ma elementi all’interno della quotidianità del lavoratore, in quanto lavoratore o disoccupato, che è la stessa cosa, che appartiene alla classe; aspetti su cui si possono fare rivendicazioni secondarie ma che, in un determinato momento, sono più immediatamente alla portata, più politicamente attuabili, e permettono di fare un passaggio politico più rapido e raggiungibile. Da questo punto di vista può quindi essere utile dare sponda a chi altro lo fa, oppure utilizzare anche questi ambiti su cui agire.
Certo avere una dimensione nazionale dà la forza e la capacità di leggere la realtà, di costruire quelle relazioni che si muovono sul territorio nazionale, così come si muovono sul territorio globale. L’unico modo per avere un peso a livello nazionale è essere in grado, sul livello nazionale, di agire diffusamente nel territorio, avere la capacità di essere incisivi rispetto al quotidiano dei lavoratori. Costruirla è difficile. In questo momento abbiamo bisogno di creare gli strumenti che ci permettono di presentarci alla nostra classe, però dobbiamo farlo a partire dall’esperienza concreta, dalle forme organizzative che si danno le lotte. E a partire da quel conflitto che esiste, costruire le forme organizzative che ci saranno utili nel momento in cui tornerà il Capitale. Se saremo come siamo adesso, sarà un massacro; se utilizziamo le lotte di oggi, che sono certamente difensive e non offensive, per costruire relazioni e organizzazioni, magari saremo capaci di contrattaccare e ottenere.