Mi fa orrore il modello della crescita. Non mi fido delo sviluppo anche
quando è dichiarato sostenibile. Non mi convince neppure la decrescita.
Per me al punto in cui siamo arrivati gli uomini dovrebbero tendere a
una sorta di arretramento nella povertà. Non parlo della povertà che
subiscono i paesi del terzo mondo, penso a una povertà che viene da uno
svuotamento del superfluo. Noi pensiamo di portare in tasca il
telefonino e invece siamo solo il suo supporto. Le compagnie telefoniche
si arricchiscono sui nostri bisogni di attenzione, sui nostri litigi.
Non siamo il soggetto, ma l’oggetto. Accade qualcosa di simile anche il
rete. Abbiamo il mouse in mano, possiamo andare dove vogliamo, parlare,
leggere, curiosare. Alla fine siamo semplicemente schiavi di una grande
piramide digitale. Portiamo ogni giorno il nostro fiato nell’opera
collettiva di rendere il mondo sempre più irreale. Come sempre c’è chi
ci guadagna e chi ci perde. La rete in un certo senso ha distrutto la
modernità e anche la post-modernità, portandoci verso una strana
irrealtà in cui i dominanti continuano ad avere guadagni reali e perdite
immaginarie, puntualmente scaricate sui dominati.
In una situazione del genere lo snodo di tutto è teologico.
Il capitalismo è una religione a cui tutti siamo involontariamente fedeli. Puoi non credere ai suoi miracoli, comunque li subisci. Quando in una situazione del genere ci si chiede che fare, la risposta migliore è niente. Non dobbiamo opporre nessun progetto, nessun modello di sviluppo. La battaglia va fatta innanzitutto sul piano teologico. Alla fede nella moneta bisogna opporre la fede nella bellezza. Ammirare piuttosto che accumulare. I partiti non sono finiti perché erano pieni di ladri. Sono finiti perché credevano tutti alla stessa cosa: questo mondo e il suo sviluppo. Credevano cioè a una cosa di cui si occupano già il mondo della finanza e il mondo dell’impresa. Mentre la sinistra si attardava a cercare nuovi nomi per la sua scomparsa, il capitale continuava il suo lavoro. E così siamo arrivati a una situazione in cui il problema è lo stipendio dei politicanti e non la minaccia dell’estinzione della specie. Si fanno i conti in tasca agli imbroglioni e si dimentica che a Taranto si muore di cancro, che la pianura padana è tutta veleno, che le nostre città sono carcasse e carne senza sogni, un perenne festival della cattiveria in cui ognuno è in guerra con tutti gli altri.
Non propongo il ritorno allo stato di natura, ma almeno rimettiamo i piedi per terra, diamoci un governo mondiale che metta qualche limite al saccheggio del pianeta.
Bisogna essere puntigliosi contro la casta, ma bisogna sempre tenere assieme scrupolo e utopia. Essere sentinelle locali, reclamare, inveire se è il caso. Essere pure creature svagate, dolci, capaci di sentire che il mondo è già ben accordato e che non possiamo continuare a stressarlo con l’invenzione di problemi che si aggiungono a quelli che ci sono. Ci vuole una fede nella bellezza di quel che facciamo, di quello che ancora possiamo fare da soli e assieme agli altri. Forse questa è la sinistra oggi e non ha bisogno di progetti, di nuove idee, ma di fede.
In una situazione del genere lo snodo di tutto è teologico.
Il capitalismo è una religione a cui tutti siamo involontariamente fedeli. Puoi non credere ai suoi miracoli, comunque li subisci. Quando in una situazione del genere ci si chiede che fare, la risposta migliore è niente. Non dobbiamo opporre nessun progetto, nessun modello di sviluppo. La battaglia va fatta innanzitutto sul piano teologico. Alla fede nella moneta bisogna opporre la fede nella bellezza. Ammirare piuttosto che accumulare. I partiti non sono finiti perché erano pieni di ladri. Sono finiti perché credevano tutti alla stessa cosa: questo mondo e il suo sviluppo. Credevano cioè a una cosa di cui si occupano già il mondo della finanza e il mondo dell’impresa. Mentre la sinistra si attardava a cercare nuovi nomi per la sua scomparsa, il capitale continuava il suo lavoro. E così siamo arrivati a una situazione in cui il problema è lo stipendio dei politicanti e non la minaccia dell’estinzione della specie. Si fanno i conti in tasca agli imbroglioni e si dimentica che a Taranto si muore di cancro, che la pianura padana è tutta veleno, che le nostre città sono carcasse e carne senza sogni, un perenne festival della cattiveria in cui ognuno è in guerra con tutti gli altri.
Non propongo il ritorno allo stato di natura, ma almeno rimettiamo i piedi per terra, diamoci un governo mondiale che metta qualche limite al saccheggio del pianeta.
Bisogna essere puntigliosi contro la casta, ma bisogna sempre tenere assieme scrupolo e utopia. Essere sentinelle locali, reclamare, inveire se è il caso. Essere pure creature svagate, dolci, capaci di sentire che il mondo è già ben accordato e che non possiamo continuare a stressarlo con l’invenzione di problemi che si aggiungono a quelli che ci sono. Ci vuole una fede nella bellezza di quel che facciamo, di quello che ancora possiamo fare da soli e assieme agli altri. Forse questa è la sinistra oggi e non ha bisogno di progetti, di nuove idee, ma di fede.
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