La
crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008 è diventata una
prolungata scossa sistemica dell’intera economia mondiale, in cui è
stata coinvolta direttamente e drammaticamente anche l’Italia. La nostra
economia è stata travolta da una profonda recessione che, alimentata
inizialmente da speculazioni e manomissioni finanziarie, si è rivelata
non più una semplice crisi momentanea, che arriva e dopo un anno o due
se ne va come era successo in passato, ma una bufera continua,
imprevedibile nella sua durata e nella sua estensione.
Questo terremoto nasce dal fallimento delle politiche neoliberiste che da trent’anni ci opprimono e che proprio nel momento più drammatico del disastro riescono a trovare nuovi predicatori, aitanti sostenitori, fedelissimi adepti i quali, anziché finire sul banco degli imputati come meriterebbero, “scoprono” nei debiti sovrani, nell’insufficiente produttività del lavoro, nell’eccessiva protezione sociale garantita dai sistemi di Welfare, negli sprechi veri e presunti dello Stato o delle svariate “caste” le autentiche cause della caduta dell’economia, delle condizioni di vita di milioni di cittadini, dell’impoverimento di intere nazioni arrivate sulla soglia del fallimento.
A fronte di questo ribaltamento della verità, la politica, la società, la cultura si adeguano tristemente all’elogio dei tecnocrati che, come conoscitori della tecnica, sono in grado di sostituirsi alle classi di governo tradizionali, quelle politiche ma anche quelle imprenditoriali ormai assai poco affidabili, riducendo la democrazia, comprese le elezioni, a un semplice, innocuo, alla fine inutile esercizio. Viviamo, dunque, non una banale recessione economica, con la chiusura delle imprese e la crescita della disoccupazione, ma un cambiamento del capitalismo, del suo modo di pensare e di agire, sempre più individualistico, manageriale, socialmente irresponsabile, dotato di privilegi e retribuzioni impensabili, condizionato solo dall’andamento dei corsi di Borsa e dalle esigenze momentanee e capricciose dei grandi azionisti, dei potenti fondi e banche di investimento. Viviamo, anche in Italia, un passaggio dominato dalla divaricazione crescente delle ingiustizie, dall’alterazione intollerabile delle capacità di reddito tra chi sta sopra e chi sta sotto, con la cancellazione di diritti, contratti, interessi, banali regole di convivenza in fabbrica, in ufficio, a scuola. In questo sistema, che nemmeno Barack Obama è riuscito a ostacolare nonostante la sua vittoria del 2008 fosse basata sull’impegno a tagliare gli artigli ai nuovi predatori, il lavoro è stato ridotto a una semplice, secondaria, componente del processo economico. Il lavoro vale poco, sempre meno. E, per la verità, non solo perché c’è la crisi, perché la globalizzazione ha spostato milioni di posti in Paesi dove il lavoro costa pochissimo, perché la parcellizzazione dei processi ha indebolito il lavoro anche come valore di rappresentanza politica, sindacale, sociale. Stiamo vivendo una regressione culturale, una deriva di cui il Paese non pare accorgersi nella sua drammatica gravità, siamo investiti da un’Apocalisse che cambia i termini della nostra democrazia, ma andiamo avanti, sorridiamo come dei cretini e applaudiamo il bocconiano di turno o il fenomenale Sergio Marchionne.
Proviamo a concentrarci sul lavoro, non solo un valore fondativo della nostra Repubblica, ma anche progetto, speranza, motore di cambiamento individuale e collettivo. La condizione del lavoro in Italia peggiora da almeno trent’anni, il Paese è diventato progressivamente più ingiusto. L’amministratore delegato della Fiat ha uno stipendio che è 430 volte quello medio di un suo operaio. Il manager ha incassato nel 2011 una retribuzione complessiva di 17 milioni di euro, mentre un cassintegrato di Mirafiori prende 850 euro al mese. Nel 2009 il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva un reddito 11.490 volte superiore a quello di un lavoratore di Pomigliano d’Arco. Il rapporto tra le retribuzioni medie dei manager e dei lavoratori dipendenti era di 45 a 1 nel 1980, è salito a 500 a 1 nel 2000. Forse qualcuno può pensare che questo è il mondo in cui viviamo e non si può fare demagogia, non ci si può scandalizzare.
Ma l’ingiustizia che patisce il lavoro in Italia è testimoniata anche dall’evoluzione della distribuzione della ricchezza nazionale: la quota di pil destinata a rendite e profitti cresce vistosamente mentre quella destinata ai salari precipita. La percentuale di pil destinata ai profitti è salita dal 23% del 1983 al 31% nel 2005, per i salari invece si è partiti dal 76% per scendere al 68% e oggi è ancora inferiore. Il sociologo Luciano Gallino ha stimato in 250 miliardi di euro all’anno la ricchezza uscita dai salari a favore dei profitti. Circa il 10% della popolazione italiana controlla oltre il 50% della ricchezza nazionale, secondo la Banca d’Italia. Il lavoro, dunque, è stato vittima di un furto prolungato, mai punito e a questo punto non rimediabile, a meno che non si voglia cambiare sostanzialmente la politica economica, sociale, ribaltare i criteri di distribuzione della ricchezza prodotta nel Paese. Ma ci vorrebbe una rivoluzione, o qualcosa di simile.
Sebbene la prima profonda crisi dell’economia globale abbia provocato conseguenze drammatiche per milioni di cittadini, anche in Italia, la realtà sociale del lavoro appare in larga misura trascurata dai mezzi di informazione, dall’opinione pubblica, dalla cultura. La chiusura di aziende, le ristrutturazioni, i licenziamenti, le ondate di cassa integrazione sono le immagini abituali di questi mesi, sono le cause che determinano un impoverimento generale dei lavoratori e delle loro famiglie, la diffusione di un’insicurezza e di una paura nella società che, tuttavia, non trovano un’espressione e una compiuta sintesi politica. A ben vedere l’impatto di azioni clamorose, ma purtroppo deboli in conclusione, come gli operai in cima alla torre, sui campanili o chiusi in miniera, i blocchi delle strade, le occupazioni, gli scontri con la polizia e gli scioperi della fame suscitano un interesse momentaneo, destano magari per un attimo i telespettatori dal loro torpore, suscitano addirittura protesta, ma tutto svanisce, quasi che l’esplosione di gesti clamorosi, spesso individuali o di piccoli gruppi, non fosse altro che l’attesa, scontata “apertura” dei tg della sera o gli argomenti centrali di trasmissioni molto impegnate, da Santoro in giù, che grondano indignazione per un paio d’ore, tra un Vendola e un Di Pietro, e poi si misura l’audience. Che, alla fine, è quello che conta.
Il lavoro, non solo come fonte di reddito ma anche come valore culturale e sociale sul quale costruire un modello di società, ha perso importanza, non sembra più centrale nemmeno per quelle formazioni politiche che storicamente ispiravano la loro azione alla difesa e all’emancipazione dei lavoratori. In nome di una presunta modernità, si è fatta strada tra i partiti e anche in alcuni sindacati l’idea di una società post-industriale in cui le classi sociali non esistono più (siamo diventati tutti ceto medio, ma adesso è in caduta e si sta addirittura proletarizzando...), è stata condivisa un’apparente realtà in cui gli operai sarebbero ormai una trascurabile minoranza, un soggetto quasi invisibile nella società, politicamente irrilevante. Questa crisi economica ci ha presentato un enorme paradosso: mentre si nazionalizzano le banche sull’orlo del fallimento, mentre gli stati intervengono nel capitale delle imprese finanziarie e industriali per salvarle, mentre crolla un modello di sviluppo esclusivamente liberista e di mercato, non si trova più la sinistra, di nessun tipo, innovativa o arcaica, capace di elaborare e proporre un diverso modello economico. È in questo vuoto politico e ideale che, forse non casualmente, si sono moltiplicate le proteste personali, di piccoli gruppi di lavoratori che hanno cercato con gesti clamorosi di rompere il silenzio, anche se queste espressioni pubbliche erano lontane dalla storia e dalla cultura delle lotte sindacali in Italia. Anche queste manifestazioni, spesso finite senza un successo, hanno avuto il merito di rompere l’afasia, di superare quella paura di parlare, di comunicare il disagio e il malessere profondo del mondo del lavoro che, pur frammentato, indebolito e oggetto di ogni tipo di attacco, mantiene ancora un ruolo importante nella società.
La crisi, assieme all’intera organizzazione sempre più segmentata e flessibile dell’economia, ha messo sullo stesso piano lavoratori di diversa cultura, di molteplici impieghi, garantiti e meno. Sono milioni di cittadini – operai, impiegati, tecnici, ricercatori, precari, donne e giovani – che forse non sono più una classe come si sarebbe potuto intendere una volta, ma oggi condividono molte cose, a partire dalle concrete condizioni di vita: temono di perdere il lavoro o l’hanno già perso, incassano retribuzioni che sono tra le più basse dell’Unione Europea, il loro potere d’acquisto in termini reali è crollato nell’ultimo decennio mentre le rendite finanziarie sono continuamente cresciute, pagano sempre tutte le tasse a fronte di un’evasione vergognosa e immorale. Quando, poi, vanno in pensione ricevono assegni da fame e i loro figli hanno davanti un futuro di precarietà. La vita di questi cittadini non è un elemento residuale di una vecchia società, potrebbe essere invece l’occasione per forze politiche e sindacati, ancora capaci di confrontarsi con la realtà, di ripensare la loro azione partendo proprio dalla condizione del lavoro. La crisi mostra segni diversi nelle diverse aree del Paese: perdere il posto di lavoro in Emilia Romagna è un fatto grave, ma non così grave come può essere in altre zone del paese, a Brindisi, a Termini Imerese, a Taranto dove la disgregazione del tessuto sociale è favorita dalle infiltrazioni malavitose e dove la presenza di un’azienda, un’occupazione vera e onesta rappresentano non solo una fonte di reddito ma un presidio di democrazia e di legalità.
L’aspetto più preoccupante che emerge da questi lunghi anni di crisi economica e di emergenza sociale è lo stato di solitudine, di isolamento in cui versa il mondo del lavoro. C’è la sensazione di essere soli davanti alla crisi e alle nuove difficoltà, c’è un vuoto che i partiti, le istituzioni, il governo non riempiono e che anche il sindacato, pur con mille sforzi, fatica a colmare. C’è una solitudine politica, sociale e soprattutto culturale attorno al lavoro. Spesso prevalgono ancora le solidarietà diffuse, semplici, il welfare di condominio, l’impegno di base dei delegati delle Rsu o degli uomini e delle donne della Caritas per alleviare le sofferenze. Ma è evidente che la tenuta di questa rete solidale non basta.
Non c’è dubbio che per capire quello che sta succedendo nell’economia, nell’industria, nel lavoro in Italia, come la crisi stia cambiando il Paese, ci sia bisogno di riscoprire, con umiltà e competenza, l’impegno di conoscere, di studiare e di raccontare le condizioni di vita, le preoccupazioni e le aspirazioni dei lavoratori e delle loro famiglie. Per la verità, non sono certo che oggi la politica, il sistema dell’informazione, gli intellettuali di quest’Italia sfilacciata e proterva abbiano la voglia e siano in grado di farlo.
Questo terremoto nasce dal fallimento delle politiche neoliberiste che da trent’anni ci opprimono e che proprio nel momento più drammatico del disastro riescono a trovare nuovi predicatori, aitanti sostenitori, fedelissimi adepti i quali, anziché finire sul banco degli imputati come meriterebbero, “scoprono” nei debiti sovrani, nell’insufficiente produttività del lavoro, nell’eccessiva protezione sociale garantita dai sistemi di Welfare, negli sprechi veri e presunti dello Stato o delle svariate “caste” le autentiche cause della caduta dell’economia, delle condizioni di vita di milioni di cittadini, dell’impoverimento di intere nazioni arrivate sulla soglia del fallimento.
A fronte di questo ribaltamento della verità, la politica, la società, la cultura si adeguano tristemente all’elogio dei tecnocrati che, come conoscitori della tecnica, sono in grado di sostituirsi alle classi di governo tradizionali, quelle politiche ma anche quelle imprenditoriali ormai assai poco affidabili, riducendo la democrazia, comprese le elezioni, a un semplice, innocuo, alla fine inutile esercizio. Viviamo, dunque, non una banale recessione economica, con la chiusura delle imprese e la crescita della disoccupazione, ma un cambiamento del capitalismo, del suo modo di pensare e di agire, sempre più individualistico, manageriale, socialmente irresponsabile, dotato di privilegi e retribuzioni impensabili, condizionato solo dall’andamento dei corsi di Borsa e dalle esigenze momentanee e capricciose dei grandi azionisti, dei potenti fondi e banche di investimento. Viviamo, anche in Italia, un passaggio dominato dalla divaricazione crescente delle ingiustizie, dall’alterazione intollerabile delle capacità di reddito tra chi sta sopra e chi sta sotto, con la cancellazione di diritti, contratti, interessi, banali regole di convivenza in fabbrica, in ufficio, a scuola. In questo sistema, che nemmeno Barack Obama è riuscito a ostacolare nonostante la sua vittoria del 2008 fosse basata sull’impegno a tagliare gli artigli ai nuovi predatori, il lavoro è stato ridotto a una semplice, secondaria, componente del processo economico. Il lavoro vale poco, sempre meno. E, per la verità, non solo perché c’è la crisi, perché la globalizzazione ha spostato milioni di posti in Paesi dove il lavoro costa pochissimo, perché la parcellizzazione dei processi ha indebolito il lavoro anche come valore di rappresentanza politica, sindacale, sociale. Stiamo vivendo una regressione culturale, una deriva di cui il Paese non pare accorgersi nella sua drammatica gravità, siamo investiti da un’Apocalisse che cambia i termini della nostra democrazia, ma andiamo avanti, sorridiamo come dei cretini e applaudiamo il bocconiano di turno o il fenomenale Sergio Marchionne.
Proviamo a concentrarci sul lavoro, non solo un valore fondativo della nostra Repubblica, ma anche progetto, speranza, motore di cambiamento individuale e collettivo. La condizione del lavoro in Italia peggiora da almeno trent’anni, il Paese è diventato progressivamente più ingiusto. L’amministratore delegato della Fiat ha uno stipendio che è 430 volte quello medio di un suo operaio. Il manager ha incassato nel 2011 una retribuzione complessiva di 17 milioni di euro, mentre un cassintegrato di Mirafiori prende 850 euro al mese. Nel 2009 il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva un reddito 11.490 volte superiore a quello di un lavoratore di Pomigliano d’Arco. Il rapporto tra le retribuzioni medie dei manager e dei lavoratori dipendenti era di 45 a 1 nel 1980, è salito a 500 a 1 nel 2000. Forse qualcuno può pensare che questo è il mondo in cui viviamo e non si può fare demagogia, non ci si può scandalizzare.
Ma l’ingiustizia che patisce il lavoro in Italia è testimoniata anche dall’evoluzione della distribuzione della ricchezza nazionale: la quota di pil destinata a rendite e profitti cresce vistosamente mentre quella destinata ai salari precipita. La percentuale di pil destinata ai profitti è salita dal 23% del 1983 al 31% nel 2005, per i salari invece si è partiti dal 76% per scendere al 68% e oggi è ancora inferiore. Il sociologo Luciano Gallino ha stimato in 250 miliardi di euro all’anno la ricchezza uscita dai salari a favore dei profitti. Circa il 10% della popolazione italiana controlla oltre il 50% della ricchezza nazionale, secondo la Banca d’Italia. Il lavoro, dunque, è stato vittima di un furto prolungato, mai punito e a questo punto non rimediabile, a meno che non si voglia cambiare sostanzialmente la politica economica, sociale, ribaltare i criteri di distribuzione della ricchezza prodotta nel Paese. Ma ci vorrebbe una rivoluzione, o qualcosa di simile.
Sebbene la prima profonda crisi dell’economia globale abbia provocato conseguenze drammatiche per milioni di cittadini, anche in Italia, la realtà sociale del lavoro appare in larga misura trascurata dai mezzi di informazione, dall’opinione pubblica, dalla cultura. La chiusura di aziende, le ristrutturazioni, i licenziamenti, le ondate di cassa integrazione sono le immagini abituali di questi mesi, sono le cause che determinano un impoverimento generale dei lavoratori e delle loro famiglie, la diffusione di un’insicurezza e di una paura nella società che, tuttavia, non trovano un’espressione e una compiuta sintesi politica. A ben vedere l’impatto di azioni clamorose, ma purtroppo deboli in conclusione, come gli operai in cima alla torre, sui campanili o chiusi in miniera, i blocchi delle strade, le occupazioni, gli scontri con la polizia e gli scioperi della fame suscitano un interesse momentaneo, destano magari per un attimo i telespettatori dal loro torpore, suscitano addirittura protesta, ma tutto svanisce, quasi che l’esplosione di gesti clamorosi, spesso individuali o di piccoli gruppi, non fosse altro che l’attesa, scontata “apertura” dei tg della sera o gli argomenti centrali di trasmissioni molto impegnate, da Santoro in giù, che grondano indignazione per un paio d’ore, tra un Vendola e un Di Pietro, e poi si misura l’audience. Che, alla fine, è quello che conta.
Il lavoro, non solo come fonte di reddito ma anche come valore culturale e sociale sul quale costruire un modello di società, ha perso importanza, non sembra più centrale nemmeno per quelle formazioni politiche che storicamente ispiravano la loro azione alla difesa e all’emancipazione dei lavoratori. In nome di una presunta modernità, si è fatta strada tra i partiti e anche in alcuni sindacati l’idea di una società post-industriale in cui le classi sociali non esistono più (siamo diventati tutti ceto medio, ma adesso è in caduta e si sta addirittura proletarizzando...), è stata condivisa un’apparente realtà in cui gli operai sarebbero ormai una trascurabile minoranza, un soggetto quasi invisibile nella società, politicamente irrilevante. Questa crisi economica ci ha presentato un enorme paradosso: mentre si nazionalizzano le banche sull’orlo del fallimento, mentre gli stati intervengono nel capitale delle imprese finanziarie e industriali per salvarle, mentre crolla un modello di sviluppo esclusivamente liberista e di mercato, non si trova più la sinistra, di nessun tipo, innovativa o arcaica, capace di elaborare e proporre un diverso modello economico. È in questo vuoto politico e ideale che, forse non casualmente, si sono moltiplicate le proteste personali, di piccoli gruppi di lavoratori che hanno cercato con gesti clamorosi di rompere il silenzio, anche se queste espressioni pubbliche erano lontane dalla storia e dalla cultura delle lotte sindacali in Italia. Anche queste manifestazioni, spesso finite senza un successo, hanno avuto il merito di rompere l’afasia, di superare quella paura di parlare, di comunicare il disagio e il malessere profondo del mondo del lavoro che, pur frammentato, indebolito e oggetto di ogni tipo di attacco, mantiene ancora un ruolo importante nella società.
La crisi, assieme all’intera organizzazione sempre più segmentata e flessibile dell’economia, ha messo sullo stesso piano lavoratori di diversa cultura, di molteplici impieghi, garantiti e meno. Sono milioni di cittadini – operai, impiegati, tecnici, ricercatori, precari, donne e giovani – che forse non sono più una classe come si sarebbe potuto intendere una volta, ma oggi condividono molte cose, a partire dalle concrete condizioni di vita: temono di perdere il lavoro o l’hanno già perso, incassano retribuzioni che sono tra le più basse dell’Unione Europea, il loro potere d’acquisto in termini reali è crollato nell’ultimo decennio mentre le rendite finanziarie sono continuamente cresciute, pagano sempre tutte le tasse a fronte di un’evasione vergognosa e immorale. Quando, poi, vanno in pensione ricevono assegni da fame e i loro figli hanno davanti un futuro di precarietà. La vita di questi cittadini non è un elemento residuale di una vecchia società, potrebbe essere invece l’occasione per forze politiche e sindacati, ancora capaci di confrontarsi con la realtà, di ripensare la loro azione partendo proprio dalla condizione del lavoro. La crisi mostra segni diversi nelle diverse aree del Paese: perdere il posto di lavoro in Emilia Romagna è un fatto grave, ma non così grave come può essere in altre zone del paese, a Brindisi, a Termini Imerese, a Taranto dove la disgregazione del tessuto sociale è favorita dalle infiltrazioni malavitose e dove la presenza di un’azienda, un’occupazione vera e onesta rappresentano non solo una fonte di reddito ma un presidio di democrazia e di legalità.
L’aspetto più preoccupante che emerge da questi lunghi anni di crisi economica e di emergenza sociale è lo stato di solitudine, di isolamento in cui versa il mondo del lavoro. C’è la sensazione di essere soli davanti alla crisi e alle nuove difficoltà, c’è un vuoto che i partiti, le istituzioni, il governo non riempiono e che anche il sindacato, pur con mille sforzi, fatica a colmare. C’è una solitudine politica, sociale e soprattutto culturale attorno al lavoro. Spesso prevalgono ancora le solidarietà diffuse, semplici, il welfare di condominio, l’impegno di base dei delegati delle Rsu o degli uomini e delle donne della Caritas per alleviare le sofferenze. Ma è evidente che la tenuta di questa rete solidale non basta.
Non c’è dubbio che per capire quello che sta succedendo nell’economia, nell’industria, nel lavoro in Italia, come la crisi stia cambiando il Paese, ci sia bisogno di riscoprire, con umiltà e competenza, l’impegno di conoscere, di studiare e di raccontare le condizioni di vita, le preoccupazioni e le aspirazioni dei lavoratori e delle loro famiglie. Per la verità, non sono certo che oggi la politica, il sistema dell’informazione, gli intellettuali di quest’Italia sfilacciata e proterva abbiano la voglia e siano in grado di farlo.
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