Intervento al convegno L'Europa verso la catastrofe?
Come
hanno detto i relatori che mi hanno preceduto, la situazione in cui
viviamo è una situazione invernale, gelida. Penso che alcuni di voi,
certamente i più anziani come me, abbiano visto il film Frankenstein Junior e quindi si ricorderanno la scena in cui il giovane Frankenstein e il gobbo Igor vanna a scavare
in un cimitero per esumare il cadavere del mostro e Frankenstein jr.
dice "che lavoro schifoso" e Igor risponde "potrebbe andare peggio.
Frankenstein jr. chiede "come?" e Igor risponde "potrebbe piovere".
Subito si sentono tuoni e inizia una pioggia violenta. Questa è la situazione in cui sono convinto da tempo che ci
troviamo a vivere. E in effetti ho intitolato “Potrebbe piovere” uno
scritto ormai di due dicembre fa firmato con Joseph Halevi.
Cercherò
di rispondere alle sollecitazioni avanzate da Raparelli e Casarini,
oltre che dai relatori che mi hanno preceduto. Non è facile da farsi in
così breve tempo. Cercherò sostanzialmente di svolgere tre argomenti,
dandovi soltanto una sorta di schema di un ragionamento possibile.
Primo: cercherò di chiedermi in che tipo di crisi del capitalismo
globale ci troviamo, e su questo sarò veramente telegrafico. Dopo,
cercherò di discutere dell’euro, dell’euro così come si è costruito
nella realtà, non come spesso ce lo raccontiamo, e del tipo di crisi
dell’euro e dell’Europa che viviamo adesso. In terzo luogo, cercherò di
entrare nel terreno di discussione, complicato, delle possibili
politiche economiche, e di qui svolgerò alcune considerazioni politiche.
Sarò estremamente schematico. Chi fosse interessato trova lo sviluppo
del ragionamento in due libretti che ho pubblicato recentemente [n.d.r. La crisi capitalistica, la barbarie che avanza e La crisi globale, l’Europa, l’euro, la sinistra, editi entrambi da Asterios, Trieste, nel 2012].
Mi
capiterà di incrociare argomenti che non sono solo a questo tavolo ma
che sono anche abituali nelle discussioni della sinistra … Non sono
abituato a fare nomi, ma a fare cognomi, quindi spero che nessuno se la
prenda. E inizierò dicendo che sostanzialmente a sinistra due mi sembra
che siano le interpretazioni della crisi più diffuse. La prima è
quella marxista ‘ortodossa’: vivremmo l’ennesima manifestazione della
caduta tendenziale del saggio di profitto nella forma classica
consegnataci dalla tradizione. In Italia chi ha sostenuto questa tesi
con più rigore è Vladimiro Giacchè: uno degli interpreti più
interessanti sia di questo filone che della crisi attuale più in
generale. L’altra interpretazione che vi ricordo è un’interpretazione
che sta all’incrocio delle problematiche keynesiane e
conflittualiste/neoricardiane – una lettura a mio avviso più keynesiana
e neoricardiana che marxista, in realtà. Mi riferisco la all’idea che
noi vivremmo la crisi di ‘un mondo di bassi salari’. E’ a ben vedere
un’interpretazione sottoconsumista. L’interprete migliore di questa
linea in Italia è probabilmente Emiliano Brancaccio.
Sia
l’una che l’altra lettura della crisi sostanzialmente interpretano gli
anni ’80 e ’90 del secolo scorso, fino alla crisi dal 2007 in poi,
come la crisi di un capitalismo ‘stagnazionista’, intrappolato nella
stagnazione da decenni. Credo che questo sia riduttivo, e in verità
probabilmente falso. Ci sono state grandi ondate di cambiamento su scala
globale, viviamo la crisi di un capitalismo dagli aspetti fortemente
dinamici. Questo non nega che nel mondo ci siano state aree del
capitalismo sviluppato, in parte l’Europa, e senz’altro il Giappone, che
hanno avuto decenni di stagnazione, in particolare dagli inizi degli
anni ‘90. Il mio atteggiamento è piuttosto di capire le contraddizioni
di questo
capitalismo, del capitalismo che è stato chiamato troppo genericamente
un capitalismo ‘neoliberista’, e dagli economisti borghesi come il
capitalismo della Grande Moderazione. Voglio capire le contraddizioni specifiche
di questo capitalismo, le ragioni della sua crisi, non del capitalismo
in generale. Peraltro penso che su questo Christian Marazzi possa
essere d’accordo con me, cioè che si debba tenere conto del fatto che
il capitalismo che abbiamo alle spalle (almeno dagli anni ’80 in poi) è
stato trainato dalla finanza, e che sia stato un capitalismo con
capacità di creazione di consenso, di creazione di ricchezza, di
creazione di rendita. Semmai, rispetto all’interpretazione di Christian
Marazzi quale lui l’ha disegnata con grande intelligenza prima della
crisi recente, penso che lui, come molti, abbia forse sovrastimato la
sostenibilità nel tempo di questo capitalismo, penso in particolare al
suo libro edito da Bollati Boringhieri qualche anno fa, Il denaro va.
Appunto:
che tipo di capitalismo è stato? Anche se la ridurrò a poche frasi,
devo prenderla da molto lontano, dalla fine dell’800. Il capitalismo
attraversa delle ‘grandi crisi’, delle crisi ‘sistemiche’ (che non sono
certo il ‘crollo’). A fine ‘800 ha vissuto quella che quando studiavo
veniva detta la Grande Depressione (e oggi come la Lunga Depressione).
Quella crisi, in effetti, si spiega benissimo con la caduta tendenziale
del saggio di profitto, proprio secondo la teoria di Marx, cioè come
dovuta all’aumento della composizione di capitale. Negli anni ’30 del
‘900 ha poi vissuto una crisi tipica da mancata ‘realizzazione’ del
plusvalore, quella che riduttivamente viene descritta come una crisi da
‘sottoconsumo’, la crisi che John Kenneth Galbraith ha descritto in un
libro meritatamente famoso come il Grande Crollo.
Negli
anni ’70 del secolo scorso è molto più complicato ridurre ad uno le
cause della crisi (lo è sempre, in verità, ma in questo caso ancora di
più). E’ però mia convinzione che quella crisi – che ha origine un po’
prima, alla metà degli anni ’60 – abbia avuto come suo fattore centrale
le lotte. Le lotte operaie, certo, di resistenza all’aumento dello
sfruttamento: e che per qualche anno sono state in grado di far crescere
il ‘salario relativo’. Ma accanto alle lotte del lavoro, le lotte
delle donne, l’emergere prepotente di una questione della natura
(quella che oggi viene detta, di nuovo riduttivamente, la questione
‘ambientale’). Le lotte contro l’autoritarismo, nella scuola e
nell’università, le lotte nella ‘società civile’ (per proseguire con le
espressioni riduttive!).
Il
capitalismo successivo è stato una risposta a questa barriera posta
dalle lotte, una risposta ad un attacco dal basso (non semplicemente un
‘complotto’ dall’alto), che si è mossa su due gambe. Una delle due
gambe la chiamo ‘centralizzazione senza concentrazione’. Per capirci
alla svelta, fatemi richiamare la lucida analisi di Luciano Gallino.
Non è più vero che le imprese crescano dimensionalmente in modo
lineare, nei vecchi termini di una integrazione verticale sempre
maggiore. Non viviamo più – se non in casi certo significativi ma non
universali – una situazione in cui i lavoratori sono occupati in
sempre maggiore quantità sotto lo stesso padrone, nello stesso luogo,
nelle medesime condizioni sindacali, sotto lo stesso contratto:
maturando così le condizioni potenziali di una sempre maggiore forza,
per una sempre maggiore omogeneità ‘materiale’. Quindi non c’è
marxianamente ‘concentrazione’ del capitale. Ma c’è sempre maggiore
‘centralizzazione’ del capitale. Non è evidentemente un capitalismo che
torna alla ‘vecchia’ piccola impresa. È semmai un capitalismo
organizzato in ‘reti’, lungo filiere transnazionali.
L’altra
gamba è quella che chiamo ‘sussunzione reale del lavoro alla finanza’.
L’inclusione dentro le dinamiche della finanza in senso lato: il
debito nei confronti delle banche, e prima ancora i mercati azionari.
E’ una inclusione delle famiglie, prima delle classi medie (che
coinvolgono largamente il mondo del lavoro), poi delle classi povere.
C’è evidentemente una dimensione distributiva che dovrei tenere in
conto, ma il punto chiave è che lo stesso mondo del lavoro salariato, e
del lavoro dipendente dal capitale, è incluso in forma subordinata
dentro il capitale. E’ qualche cosa di sconvolgente dal punto di vista
dei rapporti di classe. Ed è qualcosa, non nascondiamocelo, che è stato
in grado di creare consenso. Un consenso e un falso senso di
‘sicurezza’ (meglio, di risposta alla crescita di incertezza) che ha
fatto leva su una serie di meccanismi che hanno portato ad un
prolungato aumento dei prezzi delle ‘attività’ nei mercati finanziari,
proprio quando i salari per i più erano invece bloccati (in senso
relativo, senz’altro; in senso reale, spesso). E’ questa capital asset inflation una
determinante chiave dello sviluppo del capitalismo anglosassone – in
primis evidentemente gli Stati Uniti – che ha fornito gli sbocchi per i
capitalismi cosiddetti ‘neomercantilisti’ (la Germania, parte del
capitalismo europeo, parte della stessa Italia, il Giappone, i paesi
dell’est asiatico e la Cina: anche se quest’ultima è un fenomeno
parzialmente diverso).
Una
forma del capitalismo che paradossalmente si è presentato con la
parvenza di una sempre maggiore stabilità (la Grande Moderazione,
appunto). E però era un capitalismo alla lunga ‘insostenibile’. E per
ragioni che abbiamo indicato tempestivamente, ben prima della stessa
crisi scoppiata nel 2007; e ancor prima della crisi del 2000-01 (nel mio
caso, mi basta rimandare agli articoli sulla rivista del manifesto,
e più in generale agli scritti della seconda metà degli anni ’90 del
secolo scorso). Un capitalismo che per queste ragioni è saltato in aria.
Non è saltato in aria, badate, con la bancarotta della Lehman Brothers
nel settembre del 2008. E’ saltato in aria con la crisi dei subprime nel 2007, una crisi annunciata, almeno da quando erano iniziati a crollare negli Stati Uniti i prezzi delle case.
Possiamo
ora passare a considerare l’Europa. La crisi europea – per una volta! –
è una crisi non endogena, è una crisi ‘importata’. Non è dovuta in
prima battuta all’euro. Non è neppure dovuta al debito pubblico. E’
dovuta semmai all’esplosione del debito privato, fuori e dentro
l’Europa. L’hanno già detto qui, se ricordo bene, sia Raparelli che
Casarini. Questo non significa che io non sia assolutamente d’accordo, e
lo voglio dire subito, con la tesi che ha presentato qui Klaus Busch,
secondo la quale non è stata una grande idea quella della moneta unica.
Qui
però c’è preliminarmente da avvertire su un problema terminologico.
Credo di nuovo che su questo Christian Marazzi e io ci intendiamo.
L’euro è una ‘moneta unica’ in quanto è tanto moneta delle banche
centrali aderenti all’euro quanto moneta effettivamente circolante. In
Europa siamo ormai con un tasso di cambio irrevocabilmente fissato
all’origine dell’euro. ‘Moneta comune’ è il termine che ha usato Klaus
Busch. Ma ‘moneta comune’ lo uso nei miei scritti per intendere un’altra
cosa (come fa una parte della letteratura), che configura una strada
non presa dall’Europa negli anni ’90. Mi riferisco ad una proposta
avanzata da Suzanne de Brunhoff e da altri, tra cui chi vi parla. E’ una
cosa di cui ci ha parlato anche Christian Marazzi, e appunto ne
scrissi anche io allora. L’idea era quella di avere una moneta comune,
una moneta comune alle banche centrali europee, secondo un accordo di
cambio fisso (magari per fasce non strette), e aggiustabili. Non,
dunque, una moneta circolante. Ovviamente, l’idea riporta al progetto
di Keynes nel 1944 a Bretton Woods. E, esattamente come quel progetto,
richiederebbe di essere coordinato con altre politiche: politiche
fiscali, politiche commerciali, politiche di aggiustamento simmetrico
degli squilibri nelle bilance di partite correnti, ecc.. Questa via
però non è stata presa. La via che è stata presa è un via che si sapeva
che avrebbe condotto al disastro.
Da
quando lo sapevamo? Beh, almeno dall’inizio degli anni ’90. Le
contraddizioni per le quali l’euro avrebbe portato a divergenza reali
sempre più marcate, si conoscevano bene. Le ragioni erano squadernate,
per così dire, in letteratura: e neanche nella letteratura granché
radicale o eterodossa in economia. Chiunque conoscesse la storia e la
concretezza delle industrie, e della struttura reale più in generale,
dei vari paesi europei, sapeva bene che una convergenza puramente
nominale avrebbe condotto ad una divergenza reale. Non possiamo però
fermarci a questa considerazione. Dobbiamo chiederci come mai l’euro lo
si sia fatto comunque, alla fine degli anni ‘90, e come mai per dieci
anni dopo la sua nascita sia apparso a quasi tutti un esperimento di
successo.
La
storia che normalmente ci viene raccontata, in particolate a sinistra,
è che l’euro sarebbe figlio del Trattato di Maastricht del 1992, e che
il Trattato di Maastricht con tutte le politiche contro il lavoro
ecc., nascerebbe dal collasso del socialismo reale, e dal crollo
dell’Unione Sovietica. Non voglio certo sottostimare quell’evento, ma –
per dirla tutta – secondo me non c’entra niente. Il Trattato di
Maastricht, quel progetto di unificazione monetariaeuropea, nasce prima
della caduta del muro, prima della fine dell’URSS. Nasce nel 1988, e
ha le sue radici ben prima. E’ un progetto essenzialmente francese, con
una Germania, nano politico ma gigante economico, che però governa la
moneta europea. La Francia è, o meglio si sente, si pretende, un
gigante politico, in qualche maniera aveva anche le armi, la force de frappe,
e voleva mettere le mani anche sul governo della moneta europea. Nella
concezione originaria – che non si è realizzata, perché la Thatcher
non c’è stata, e dopo l’uscita dal Sistema Monetario Europeo quel paese
si è ben guardato dal rientrare nel progetto – la Gran Bretagna
copriva il lato del mercato finanziario.
Questa idea non poteva che saltare in aria definitivamente tra il 1990-91, esattamente
in conseguenza del crollo del muro, perché ne era saltato il
presupposti geopolitico. Un fattore cruciale fu anche che la
riunificazione delle due Germanie comportò un drastico aumento del tasso
di interesse in quel paese, per finanziare la ricostruzione (Kohl si
guardò bene dal farlo via aumento delle imposte), e ciò fece esplodere
lo SME nel 1992-93. A quel punto, di una possibile moneta unica europea,
sembrava proprio non se ne dovesse parlare più, e i tedeschi in realtà
non la volevano. A loro interessava un’area del marco allargata ai
‘satelliti’: forse, e sottolineo il forse, allargata anche alla Francia.
I tedeschi erano stati costretti al Trattato di Maastricht e avevano
chiesto un prezzo elevato: “volete mettere le mani sul governo della
moneta in Europa? In cambio mi date i famosi parametri, su tassi di
interesse, inflazione, e soprattutto finanza pubblica”.
Una
volta saltato il tutto in aria, quando è che rinasce, come e perché?
Rinasce a metà anni ’90 perché – sottolineo: per ragioni di nuovo esterne
all’Europa – cadono i tassi d’interesse, l’economia americana
accelera, e noi siamo un po’ trascinati. I tedeschi, l’economia
tedesca, sono però in difficoltà. Quello è il decennio, tutti se lo
dimenticano, in cui la posizione esterna della Germania non è affatto
in attivo, torna in attivo dopo, negli anni zero del nuovo millennio.
Intanto si fanno le ristrutturazioni. In questo contesto la Germania è
in qualche modo di nuovo costretta a un progetto di unificazione
monetaria (anche perché sono gli altri a rispettare i, o convergere
sui, parametri che ha voluto, mentre lei stessa non li rispetta del
tutto!)- E chiede di nuovo qualcosa in cambio. Il prezzo è il Patto
cosiddetto ‘di stabilità e crescita’, siglato a Amsterdam e Dublino. A
questo punto l’euro si fa davvero, tra il 1999 e il 2001-02. Come mai
le contraddizioni non esplodono subito? L’ha detto bene Casarini, ed è
stato poi ribadito da altri. L’euro è stato ciò che in Europa ha, in
forma diversa, attivato un meccanismo simile al meccanismo dei subprime
negli Stati Uniti. I tassi d’interesse si sono abbattuti un po’
dappertutto (perché sono caduti i premi di rischio). Sono gli anni in
cui gli altri paesi europei crescevano più della Germania: come dovrebbe
essere, purtroppo non nei modi che potremmo auspicare. Il tutto salta
in aria non per le contraddizioni dell’euro, salta perché salta il
capitalismo anglosassone.
A
questo punto togliamoci di mente anche un’altra cosa: che in Europa
non si sia fatto niente di fronte alla crisi. Leggende della sinistra.
Nel 2007, in verità, alcuni raccontavano che questa era una crisi
‘americana’, che c’era il delinking (lo
‘sganciamento’), che i BRIC contavano molto di più, e così via. E’
vero che ancora per un po’ l’Europa cresce, e dentro l’Europa crescono
di più i paesi manifatturieri, la Germania cresce, l’Italia cresce. Con
Joseph Halevi, in quel periodo, replicavamo disegnando una
‘caricatura’, che però poi si è rivelata non lontana dal vero: “ma
intanto sta cadendo l’economia degli Stati Uniti, che domandano meno
merci alla Cina, a sua volta la Cina domanda meno mezzi di produzione,
non solo al Giappone ma anche alla stessa Germania, quindi la
subfornitura italiana anch’essa esporta di meno in Germania. Se voi
tenete conto di tutte le interconnessioni, crolleranno anche i paesi
europei, a partire da quelli più manifatturieri, Germania e Italia”. È
successo proprio così meno di un anno dopo. Ma si è fatto qualcosa,
eccome. Quello è stato il periodo in cui i tedeschi, la Germania,
nonostante la sua retorica contro i disavanzi di bilancio, i disavanzi
di bilancio li ha praticati, e con forza, e così anche la Francia.
L’Italia anzi a suo modo, da questo punto di vista, è stata
perversamente ‘virtuosa’, si è affidata solo
agli stabilizzatori automatici, Germania e Francia hanno fatto
politiche discrezionali e mirate. La Germania, per esempio, ha fatto
politiche come quelle della ‘settimana corta’, la politica delle 20 ore
di lavoro, per esempio alla Volkswagen ma non solo, finanziate dai
lavoratori, ma anche dallo stato e dalle imprese, e così ha difeso
l’occupazione. La Francia ha sovvenzionato l’auto, ma non con generiche
rottamazioni, ma chiedendo alle imprese di rispettare certi standard.
Dopo
il crollo di Lehmann Brothers e fino al marzo 2009 ci sono stati 6
mesi di autentico terrore a livello mondiale, nelle stesse classi
dirigenti. Se questa fase si fosse prolungata sarebbe stato forse
possibile un autentico cambiamento. Quello che è certo che dalla
ricaduta in una crisi come quella degli anni ’30 del secolo scorso non
ci hanno certo salvato le misure di Bush e Obama essenzialmente a
favore della finanza, non ci hanno neanche salvato i maggiori disavanzi
di bilancio di alcuni dei paesi europei, è stata semmai l’enorme
politica ‘keynesiana’ di massiccio investimento infrastrutturale
intrapreso dalla Cina, proprio tra fine 2008 e inizio 2009. Ci ha
salvato dalla ricaduta nel Grande Crollo, non però da una Grande
Recessione. Nella primavera del 2008, nel mondo e in Europa, si
comincia a parlare di ‘germogli della ripresa’. In Europa viene allora a
montare un attacco contro il debito pubblico, contro la spesa pubblica
e il welfare, che è in realtà un approfondimento dell’attacco contro
il mondo del lavoro e contro la sfera della riproduzione sociale.
Questo investe immediatamente i lavoratori e le lavoratrici ma investe
anche, altrettanto immediatamente e violentemente, le donne: perché
l’attacco alla riproduzione sociale e l’attacco al welfare ricadono
sulle donne più che su chiunque altro.
A
proposito di questo lasciatemi soltanto dire, tra parentesi, che la
retorica del movimento è un po’ arretrata rispetto a quella che è la
sfida che abbiamo davanti. Credo sì che il capitalismo cerchi di uscire
dalla crisi appropriandosi dei ‘beni comuni’, ma credo anche che sia un
errore, un errore grave, definire il lavoro un bene comune. Qui il
punto risale all’abc, alla teoria di Marx. I capitalisti hanno bisogno
della forza lavoro, i capitalisti la vogliono per estrarre l’attività
lavorativa che è la sorgente del valore e del plusvalore, ma la forza
lavoro è ‘attaccata’ a degli esseri umani viventi. L’attività lavorativa
non è un bene comune. Semmai tutto ciò ha più a che vedere con la
scritta che c’era all’ingresso di Auschwitz “il lavoro rende liberi”,
strana ironia, un lavoro da cui liberarsi, che non a una nostra attività
di cui è necessaria una liberazione, una liberazione del lavoro (in
cui continuo a credere). Non si può, non si deve fare confusione qui.
Il
problema del capitale oggi, come in tutte le grandi crisi
‘sistemiche’, è quello di sfondare il più possibile sugli ambiti di
elasticità del salario, delle condizioni lavorative, nell’attacco alla
riproduzione sociale e al welfare, e dunque anche sulla contraddizione
di genere. Lo faceva già prima, nella Grande Moderazione, figuriamoci
cosa succede nella Grande Crisi che ne è seguita. Ci sarebbe qui da dire
molto altro, ma lasciatemi ora passare molto velocemente alle
condizioni della politica economica e dell’euro, perché il tempo
stringe.
Sono
molto d’accordo con i 5 punti sollevati da Klaus Busch. Penso, non so
se qui ci sia una differenza con Christian Marazzi, che vadano presi
tutti insieme. Se noi ne prendiamo uno solo, come dirò fra un attimo,
nessuno basta. Penso che su ognuno di essi separatamente si possano
avanzare obiezioni del tipo di quelle che ha fatto Christian Marazzi
sulla proposta degli eurobond.
Cercherò poi di tornare al tema del New Deal, che io piuttosto
chiamerò del New Deal di classe, sollevato da Klaus Busch. Vorrei solo,
prima di procedere oltre, chiarire bene che questa crisi è quella che
l’economista giapponese della Nomura Richard Koo ci ricorda essere una balance sheet recession,
una recessione che si esprime nella deflazione degli ‘stati
patrimoniali’ di tutti gli agenti. Quando dal debito si cerca di uscire
comprimendo la spesa, e di questo sono fatte le stesse politiche di
austerità, tutto ciò non è una soluzione, anzi peggiora le cose, perché
alla caduta della spesa segue che cadono i redditi, dopo cade ancora la
spesa, dunque il reddito. In realtà vorresti uscire dal debito
rispetto al reddito, ma in realtà il reddito ti cade, talora persino
anche più velocemente. A quel punto tu devi svendere, semmai avessi
delle ‘attività’. Ma quando tutti cercano di svendere le attività, il
loro prezzo crolla.
Non
è un paradosso astratto (tutti vogliono risparmiare sul reddito, ma
succede il contrario), non è un esempio di scuola: è ciò che sta
succedendo davvero. Si chiama ‘deflazione da debiti’, una espressione
introdotta negli anni ’30 del secolo scorso da Irving Fisher. Se ne può
uscire con un default,
con un fallimento? Oppure con una ‘insolvenza’ sul debito pubblico”?
Lasciatemi dire che qualunque sia la risposta alla seconda domanda, la
risposta alla prima dovrebbe essere in Europa un netto ‘no’. Poi tornerò
sul problema, ma non c’è alcuna ragione in Europa, perché nessuna
delle crisi in sequenza che abbiamo visto, Grecia, Irlanda, Portogallo,
debba dare luogo – per così dire, meccanicamente – ad un fallimento.
La Grecia non è l’Argentina. Il problema della Grecia è un debito
pubblico eccessivo nella sua moneta, perché la moneta della Grecia è l’euro (tralascio il paradosso, che capiamo visto quello che ho appena detto sulla balance sheet recession,
che le supposte cure per ridurre il debito pubblico sul PIL lo hanno
fatto in realtà esplodere). Sono le politiche della Banca Centrale
Europea, e la cultura economica delle istituzioni europee, e il disegno
istituzionale perverso della moneta unica, che trattano la Grecia come
se fosse l’Argentina. Ma in questo, ribadisco, non c’è alcuna
necessità, e non si può concedergliela in alcun modo.
Come si esce dalla crisi del debito? Se non vuoi la deflazione da debito, se il default
lo vuoi evitare, e comunque in Europa non sarebbe necessario, se ne
può uscire soltanto con lo sviluppo economico, da destra con politiche
di crescita, oppure con le politiche di inflazione. E prima o poi se ne
uscirà così, più facilmente da destra. Già subito dopo lo scoppio
della crisi nell’estate del 2007 Martin Feldstein, ex consigliere di
Bush e di Reagan, ha scritto “abbiamo bisogni sociali insoddisfatti:
armi e sicurezza, per questo bisogna ritornare alla leva della spesa
pubblica, anche in disavanzo. L’ex economista capo del Fondo Monetario
Internazionale, Kenneth Rogoff, ha anche lui tempestivamente sostenuto
da anni che serve un’inflazione almeno (almeno) dell’8%. Allora il
problema che abbiamo di fronte è in realtà: quale motore dell’economia,
quale crescita (meglio, quale sviluppo)? E se ci capiterà, come ci
capiterà, un’inflazione con i redditi e i salari fissi, prima o poi.
Queste politiche, ribadiscono, possono esserci da destra.
A
questo punto arriviamo alle politiche economiche praticabili o
sostenibili dalla sinistra. Le banche centrali devono agire come
prestatori di ultima istanza? Evidentemente, sì. Ma questo non è affatto
sufficiente a risolvere il tipo di crisi in cui ci troviamo. La crisi
di un capitalismo dove c’era un motore della crescita di ultima
istanza, che era il consumo a debito, gestito politicamente da quello
che altrove ho chiamato un ‘keynesismo privatizzato’, e questo motore
della crescita si è a un certo punto volatilizzato. Cosa mettiamo al
suo posto? La Banca Centrale lender of last resort
potrebbe impedire lo sfondamento verso il basso dei valori finanziari.
La BCE non è però un prestatore di ultima istanza, in questo senso non è una vera banca centrale. Un attimo! Ma negli ultimi anni la BCE non ha fatto proprio
questo? L’ha fatto in vie deviate, in vie indirette. Togliamoci però
dalla testa che in Europa le istituzioni non siano cambiate, non stiano
cambiando, e con un sistema istituzionale orrendamente fallato come
quello dell’euro potevano e possono cambiare solo nel mezzo e in forza
di una drammatica crisi Certo, sono cambiate troppo poco e soprattutto
troppo tardi. I mutamenti accettati un anno dopo avrebbero risolto i
problemi un anno prima, forse. Comunque, non c’è da aspettarsi troppo da
quel lato, dal versante della politica monetaria.
Passiamo
al lato della politica fiscale. I disavanzi dello Stato salvano? Beh,
dipende, i disavanzi di bilancio salvano se sono voluti, se sono
pianificati, non se sono il risultato automatico della crisi. Perché la
cosa paradossale è che le politiche di austerità non ti fanno uscire
dai disavanzi, ti ci fanno scivolare sempre più come nelle sabbie mobili. Gli eurobonds? Gli eurobonds
da soli ricadono sotto la critica di Christian Marazzi, ma potrebbero
essere legate a disavanzi buoni, pianificati, in vista della
produzione di valori d’uso sociali un po’ diversi da quelli che ha in
mente Feldstein, e con una Banca Centrale prestatore di ultima istanza.
Ci sono poi le richieste di reddito, il basic income.
Anche qui c’è molta confusione: spesso si parla di reddito di
cittadinanza, o di reddito universale, o di reddito minimo, o di salario
sociale, come se fossero la stessa cosa. Parlo qui invece di basic income nella forma, rigorosa, di allocazione universale di un reddito a chiunque. Credo che il basic income così inteso sia un modo, e un modo nient’affatto irragionevole, di organizzare un welfare universalistico.
Qualcuno
forse si stupirà, ma sono stato uno dei primi che ha sollevato un’idea
del genere nel 1993, in una rivista che trattava altre questioni, Bozze
di Raniero La Valle, e feci qualche anni prima pubblicare in Italia
uno scritto di Van Parijs con cui avevo dialogato e discusso a metà
degli anni Ottanta a Leuven-la-Neuve. Non ne parlava nessuno da noi.
Ora il problema però è il come questa idea viene presentata in Italia
(e come pare averla assorbita, confusamente, una parte stessa del
sindacato). Mi rifaccio qui alle critiche che Giovanna Vertova, del
tutto a ragione, avanzò qualche anno fa, prima della crisi, sul manifesto, e a cui ci riagganciammo Halevi ed io. Una cosa è una proposta di basic income
sulla base della convinzione (del tutto illusoria) che vivremmo in una
fase di espansione quasi automatica della produttività sociale, per
l’emergere di un ‘comune’ che esprimerebbe una spontanea cooperazione
che si estenderebbe alla vita stessa in quanto tale: a quel punto, si
può fantasticare che il basic income ti
consentirebbe di scegliere tra lavoro e non lavoro, e retribuirebbe
questa produttività del ‘comune’. Questa, insisto, mi sembra una
illusione, molto pericolosa. C’è poi una seconda difficoltà, per così
dire, sul piano pratico: il basic income
viene prima proclamato ideologicamente come ‘incondizionato’, poi
realisticamente lo si degrada a sussidio per i precari, come un passo in
quella direzione. Nient’affatto. Si crea una dinamica, espressa in
massimo grado nell’esperienza storica di Speenhamland (di cui parla
Polanyi nella Grande Trasformazione:
ma qualcosa del genere è già in Marx): quella dinamica per cui
l’erogazione benintenzionata di un ‘sussidio’ che consente alle imprese
di pagare retribuzioni più basse, nel tempo si trascina dietro al
ribasso l’intera struttura dei salari, e finisce così col ritrasformare i
lavoratori in mendicanti – tanto più quanto più la crisi morde, il
sussidio stesso viene quindi abbassato, e ricadiamo in pieno nella
critica precedente.
Un’altra cosa tutta diversa sarebbe il basic income come lo proposi nel pezzo su Bozze. Come parte di
una ridefinizione del welfare in un progetto di sinistra dove la spesa
pubblica e i disavanzi ‘buoni’ sono la condizione di quel pieno
impiego con valori d’uso sociali che solo rende sostenibile quel
progetto. Pieno impiego significa, sia chiaro, riduzione dell’orario di
lavoro, ma lavoro per tutti. Il vecchio, ma ancora attuale, ‘lavorare
meno, lavorare tutte e tutti’. E in quel progetto bene starebbe un
obbligo di lavoro sociale per tutte e tutti nell’arco vitale.
Così
arrivo alle ultime considerazioni. Sono abbastanza pessimista, tendo a
stare dal lato di Klaus Busch. Cerco però di agire praticamente perché
questo pessimismo sia smentito dalla realtà che cerco, con altre/i, di
costruire. Credo che sia una precondizione essenziale perché le cose
cambino in meglio è che ci sia una lotta dura e senza ambiguità contro qualsiasi
politica di ‘austerità’, una lotta dura per reggere sul salario, una
lotta dura per ottenere reddito. Queste sono però lotte difensive, anche
se essenziali. La questione che però abbiamo di fronte è ben più
seria, e ci si arriva partendo da Marx, come anche partendo da Hyman
Minsky. Il nostro problema è quello di mettere in questione sia la
composizione della produzione che la natura della produttività. A noi
fanno una testa così sul rapporto debito pubblico/prodotto interno
lordo e sul costo del lavoro per unità del prodotto. Quello che sta al
denominatore, in entrambi i rapporti, ha a che vedere con cosa, come e quanto
si produce. Non esiste sinistra, almeno nel mio senso della parola, se
non si ha la pretesa, se non si ha l’ambizione, di intervenire sul
denominatore, sulla produttività e sulla produzione. E non esiste uscita
da sinistra, da questa crisi, che non sia legata alle lotte su questo
terreno.
Sono,
lo confesso, abbastanza colpito dal fatto che trovo molto più radicali
i ragionamenti che leggo negli ultimi due capitoli finali del libro di
Hyman Minsky Keynes e l’instabilità del capitalismo,
del 1975 (edito da noi da Boringhieri), di qualsiasi cosa mi capiti di
leggere, dovunque, di qualsiasi sinistra. In questo libro Minsky –
nominando, tra l’altro ed esplicitamente il ‘socialismo’ – propone di
una socializzazione dell’investimento molto più radicale di quella di
Keynes, a cui affianca una socializzazione dell’occupazione, una
socializzazione della banca e della finanza. Minsky non ha remore a
criticare il keynesismo realizzato, un sistema che, sostiene, ha finito
con il distruggere la natura, come l’equilibrio sociale, producendo una
nuova crisi da cui se ne esce soltanto ponendo la questione di cosa e
come si produce: usa praticamente la stessa terminologia che ho
impiegato io. Alla sua espressione per cui lo Stato dovrebbe essere
occupatore di ultima istanza, preferisco l’idea che è tipica di un certo
sindacato italiano (ma anche di pensatori liberalsocialisti come
Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini) di un Piano del Lavoro. Se lo Stato
deve intervenire definendo, oltre il livello, anche la composizione
della produzione, deve anche suscitare direttamente occupazione in quei
settori (se questo stimolo pubblico si traduca necessariamente in
nazionalizzazione è un’altra questione).
Come mai questo Minsky tira fuori queste
idee? Perché è nato politicamente nel bel mezzo del New Deal, il New
Deal di Roosevelt. Perché il New Deal era keynesiano, perché sosteneva i
disavanzi dello Stato? No, questa è un’altra leggendo della sinistra
italiana. Roosevelt era contro i disavanzi dello Stato. Roosevelt ha
bloccato il New Deal nel 1937, perché s’è spaventato del debito pubblico
che cresceva. Però, tra il 1933 e il 1937 è intervenuto con
investimenti infrastrutturali – alcuni con l’ottica del dopo ci
piaceranno, altri no – provvedendo direttamente occupazione. E perché ha
potuto e ha dovuto farlo? Perché era incalzato da lotte dal basso: da
un lato rispondeva alla crisi, ma dall’altro lato era tallonato da
lotte della classe lavoratrice, e da un’intellettualità – non solo
economica, anche giuridica, quella che sta dietro il Wagner Act; e da
una intellettualità più in generale – che era in grado di pensare in
avanti, che era dotata da quello che Musil chiamava il ‘senso della
possibilità’. Non è il senso di un sognatore, che nega che esistano i
vincoli, ma sa che si possono e si debbono ridefinire i vincoli.
Chiudo
su questo con due, anzi tre osservazioni. La prima è che c’è un punto
su cui non sono d’accordo con Minsky. I keynesiani, anche quelli più
avanzati e progressisti come lui, pensano che in questo modo si crei un
nuovo ‘equilibrio’, un capitalismo ‘buono’ (tra i 47 possibili di cui
scherzava Minsky). No, tutto ciò, semmai avesse una traduzione nella
realtà effettuale, creerebbe una situazione di ‘squilibrio’ che certo il
capitalismo può subire, e che non tollerebbe per molto (così come
Kalecki nel 1943 ammonì che un capitalismo di piena occupazione sarebbe
stato possibile, ma non su base permanente).
Questo mi porta alla seconda osservazione, che qualcuno riterrà un po’
contraddittoria. Si ottengono, delle riforme decenti soltanto se non
si accettano i vincoli così come sono e quindi solo se si ha un
atteggiamento ‘rivoluzionario’. Questo in genere non piace né ai
riformisti, né ai rivoluzionari. Su questo, sul tema del cosa, come e
quanto produrre, credo che si possa e debba trasversalmente discutere,
in Italia e altrove, nella sinistra in generale: la separazione tra chi
ha a tema le problematiche strutturali e chi si limita alle questioni
distributive attraversa tutte le formazioni politiche e sindacali, e non
è leggibile lungo l’asse moderati/radicali. La terza osservazione è
che ci troviamo ormai di fronte il dispiegarsi di un capitalismo
autoritario. Uno dei pochi maestri che ho avuto, Claudio Napoleoni, alla
fine della sua vita, in una fase di cui non condivido tante cose, ha
detto però una cosa giustissima. Il capitale è tendenzialmente
autoritario, perché include dentro di sé la forza lavoro, facendone la
rotella di un meccanismo, pretendendo che i lavoratori e le lavoratrici
non abbiano voce, non siano soggetti ma solo ‘cose’. Al capitale,
sosteneva, la democrazia viene ‘dall’esterno’.
Quali
sono le prospettive della crisi? La crisi sarà lunga, la crisi sarà
devastante. Se ne uscirà, se se ne uscirà, con il conflitto dal basso e
con un intervento dall’alto, che richiederà un diverso intervento
attivo da parte dello Stato. Ma questo può avvenire da destra. Il
conflitto sociale già oggi si sta generalizzando come insorgenza
reazionaria, che attraversa le classi popolari. Potrà fare da
contraltare un intervento dello Stato, da destra, ripeto, di carattere
autoritario, reazionario. Non sarà il vecchio fascismo. Monti è uno
strano esperimento di transizione, che durerà quello che durerà. Per la
prima volta un liberista vero, a tutto tondo. Non credo che il
liberismo sia mai esistito davvero, ma lui è un professore, che nutre
l’illusione che bastino un po’ di liberalizzazioni per fare partire la
crescita: ma se verrà, verrà da fuori, e non se ne vede il come, per
ora. Monti è parte di un movimento che, mantenendo formalmente il
suffragio universale, sta creando le condizioni del ritorno di una
democrazia censitaria. E sta dando i colpi definitivi allo
smantellamento delle garanzie sul lavoro e del welfare.
Nessun commento:
Posta un commento