A
guardarci dentro con attenzione, i numeri delle elezioni regionali
siciliane fanno davvero paura. Già con le percentuali non si scherzava:
con quel 52,6% di astenuti, per la prima volta sopra la soglia limite
della metà del corpo elettorale. E quel punto e mezzo percentuale in più
del Movimento 5 Stelle che sulle ceneri del centro-destra umilia il Pd e
gli rovina la festa. Ma se si considerano i valori assoluti, quella che
sembrava una frana appare davvero come uno tzunami. O una voragine (le
metafore si sprecano): ci sono quasi due milioni e mezzo di aventi
diritto al voto che se ne sono stati fuori (su 5 milioni). All’incirca
un milione che ancora nel 2008 aveva votato, ora se ne è andato
sbattendo la porta. Il Partito della libertà ne ha persi all’incirca
650mila (ne aveva presi 901.000 quattro anni fa, ora ne ha portati a
casa appena 247.000). Casini, che pure canta vittoria,, dei suoi 337.000
ne ha mantenuti appena 207.800, centotrentamila in meno). Il PD, per
parte sua, lascia sul terreno più di metà del suo elettorato
tradizionale (aveva 506.000 voti nel 2008, ora ne raggranella 257.000!).
Il candidato bicolore (Pd-Udc) Crocetta vince con 250.000 voti in meno
di quelli con cui Anna Finocchiaro aveva perso contro Lombardo in quella
che ormai sembra un’altra era geologica. E non si capisce cosa ci stia a
fare quel sorrisetto sulla faccia di Bersani. Grillo – unico tra tutti –
stravince guadagnando 240.000 voti puliti puliti, strappati agli altri e
all’area dell’astensione. Ha ragione Renato Mannheimer, che di queste
cose se ne intende, quando titola la sua analisi del voto: Partiti in
ginocchio.
E’ esattamente uno scenario di questo tipo – allora solo previsto,
oggi in atto – che in primavera aveva spinto un piccolo gruppo di noi,
guidato da Paul Ginsborg, a lanciare un “Manifesto per un soggetto
politico nuovo” (dove la collocazione dell’aggettivo nuovo dopo il
soggetto non era casuale: voleva dire non un nuovo micro.-partito, uno
tra gli altri, ma una proposta politica radicalmente diversa per stile,
metodo e pratica). A darci il senso dell’urgenza – “se nnon ora quando?”
– era l’idea che il quadro politico italiano si stesse liquefacendo.
Che i tradizionali contenitori politici – i partiti principali, la
“forma partito” transitata dalla prima alla seconda repubblica – si
stessero rompendo, lasciando fuoriuscire un elettorato liquido.
Spaesato. Spesso incazzato. Da “que sen vajan todos”. E che la crisi di
fiducia dei partiti si stesse comunicando alle istituzioni: al
Parlamento in primo luogo, mai così in basso nella considerazione
pubblica.
L’abdicazione di sovranità delle forze politiche in Parlamento di
fronte alla crisi in caduta libera e la porta aperta ai
tecnici-salvatori era stato colto da tutti come il segno non di un
appannamento contingente, ma di una crisi strutturale dei quei “soggetti
politici”. Da tutti, tranne che dai politici di professione, e da buona
parte dei media ad essi ormai del tutto omologati, che continuavano ad
abitare – secondo una felice espressione di Ilvo Diamanti – un “paese
sparito”. Continuavano a tracciare le loro rotte su mappe scadute, come
se alla fine dell’Ottocento si fosse continuato a usare la carta
geografica del 1830, con il Regno delle due Sicilie, i granducati e il
lombardo-veneto…
Decidemmo, allora, di utilizzare nuove mappe. E nuove parole. E una
nuova etica in politica. E’ questa la ragione per la quale ci teniamo
bene alla larga dalle primarie del Pd (pardon, “di coalizione). Non solo
perché hanno in sé qualcosa di grottesco (un rito mediatico di
separazione, destinato a moltiplicare i problemi di una forza eterogenea
e minata da personalismi difficili da domare)). Ma perché mimano un
gioco che ormai riguarda solo una parte, sempre più minoritaria, del
Paese. E comunque si concludano, sia che vinca Bersani (che dovrà fare i
conti e mediare con l’altra metà del cielo per tenere il partito) sia
che vinca Renzi (e allora probabilmente non ci sarà più il Pd), nell’uno
o nell’altro caso non ne uscirà la prospettiva della fine del tunnel.
Chiunque vinca – lo ha detto anche Scalfari, un altro che di queste cose
di palazzo se ne intende – la traccia segnata sarà l’agenda Monti (che
poi è l’agenda Draghi, e Merkel o Schauble, o Commissione Europea). Di
Vendola sbarcato al tornante del primo turno temiamo che resterà solo
l’ombra (e ce ne dispiace, di questa sua mancanza di coraggio in un
momento cruciale della nostra vita politica e sociale). D’altra parte
non ci piace il gioco cinico di chi dice “Voto alle primarie, poi mi
regolo a seconda di chi vince”. E’ la riproposizione del vecchio male
italiano e della riserva mentale gesuitica. Crediamo che chi si esprime
in quelle urne, poi dovrà agire di conseguenze nelle urne vere. E chi
accetta quel gioco, poi dovrà accettare la linea dei vincitori (che non
saranno né il radicalismo di Niki, né il pragmatismo socialdemocratico
di Fassina, ma il solito pasticcio di questo ventennio post-Bolognina).
Noi, per parte nostra, ci proveremo a lavorare perché
all’appuntamento elettorale vero ci sia una proposta radicalmente
alternativa e potenzialmente egemonica, che si collochi sulle “terre
emerse” (ovvero, fuori della palude). Ci auguriamo che la galassia di
idee e di forze che “non ci sta” all’ordine del discorso prevalso in
quest’anno si condensi intorno a uno “stile nuovo” che offra ai tanti
spaesati un riferimento. Parafrasando Draghi, “faremo di tutto” perché
questo succeda.
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