Matteo Renzi è stato per due anni consecutivi il sindaco più assenteista d’Italia (con il 59% di assenze in consiglio comunale nel 2013 e addirittura l’82% nel 2012), ma adesso che è diventato premier ritiene giusto che in futuro paghi col licenziamento “un impiegato pubblico che sbaglia, partendo dai furti e arrivando all’assenteismo a volte vergognoso“, e su questo principio si dichiara “pronto al confronto in parlamento“.
Ma c’è ben poco da confrontarsi: forse Renzi ignora che la
legge italiana ha già introdotto da diversi anni la possibilità di
licenziamento a seguito di un procedimento disciplinare per i dipendenti
pubblici ladri o nullafacenti, che falsificano documenti,
dichiarano il falso, riportano condanne penali definitive o hanno una
insufficiente valutazione del rendimento nell’arco di un biennio. Il licenziamento non è ancora previsto, invece, per le cariche elettive ricoperte in seno alle istituzioni pubbliche,
che consentono ancora di assentarsi a piacimento dal luogo di lavoro,
come ha potuto fare il “sindaco d’Italia” quando era ancora sindaco di
Firenze.
L’ipotesi alternativa all’ignoranza
del premier sulla normativa in vigore è che queste dichiarazioni siano
funzionali alla preparazione del terreno per una inconfessabile agenda
politica: rendere licenziabili anche senza una giusta causa tutti i dipendenti pubblici a prescindere, in modo da poterli trasformare in esuberi a convenienza, per semplici ragioni di efficienza economica e indipendentemente dalla loro onestà e dal loro rendimento.
Del resto, i licenziamenti senza
giusta causa sono appena stati legalizzati nel settore privato con il
crudele sillogismo alla base del “Jobs Act”: Voglio diritti
uguali per tutti. C’è qualcuno senza diritti. Allora togliamoli a tutti
per affermare nobili principi di uguaglianza. In questo modo la
disparità di trattamento tra precari e contrattualizzati è stata
eliminata alla radice: adesso sono tutti licenziabili a piacimento,
fannulloni e stakanovisti. E’ il libero mercato, bellezza, dove i
problemi si possono scaricare dai piani alti fino ai livelli più bassi
della piramide sociale.
Il passo successivo sarà quello di far notare che adesso i dipendenti pubblici hanno più diritti di quelli del settore privato,
e in nome dell’uguaglianza bisognerà negare questi diritti con un nuovo
livellamento verso il basso, che renderà tutti i lavoratori ricattabili
perché nessuno sarà più tutelato da licenziamenti arbitrari, nemmeno chi lavora sodo e si trascina in ufficio anche con la febbre.
Una ipotesi che il giuslavorista
Ichino aveva frettolosamente descritto come realtà già in vigore per
effetto del “Jobs Act”, costringendo Renzi a smentirlo: “il Jobs act e il disegno di legge Madia sono due cose diverse - ha dichiarato il premier - per questo ho chiesto di togliere il riferimento al pubblico impiego dal Jobs act“.
Nella nuova sinistra, infatti, non bisogna essere impazienti come Ichino: i
diritti vanno tolti poco per volta, una legge dopo l’altra, senza
strappi bruschi e convincendo il popolo che è l’unica strada possibile
verso l’”uguaglianza reale”, cominciando dai precari per poi
risalire ai contrattualizzati del settore privato e culminare con la
rimozione delle tutele di quelli che nel nostro immaginario collettivo
sono i tutelati per antonomasia.
E dopo il regalo di Natale del Jobs Act, si
intravede già che cosa ci porterà la primavera grazie al botticelliano
ministro Madia e alla sua annunciata riforma del pubblico impiego: raccogliere a sinistra quello che aveva seminato Brunetta da destra, aggiungendo alla possibilità di licenziamento senza giusta causa per i dipendenti pubblici altre forme
mascherate di licenziamento, come il demansionamento che altri
chiamerebbero mobbing o il trasferimento forzato in un raggio di
cinquanta chilometri da casa, pagando il rifiuto con la perdita del posto.
La “perla” di Renzi sui ladri e i
fannulloni, dipinti come inamovibili anche se è già possibile
licenziarli, non è una gemma isolata, ma va incastonata in quel
teatrino della politica dove i “rottamatori dei diritti” hanno costruito
sapientemente nel corso degli anni un ricco cast di personaggi: i “lavoratori flessibili” di Maroni, da flettere fino allo schiavismo, i “dipendenti pubblici fannulloni” di Brunetta su cui far convergere l’odio dei meno abbienti, gli “annoiati dal posto fisso” di Monti che rifiutano le sfide della modernità, i “disoccupati schizzinosi” della Fornero che non lavorano per colpa loro, e dulcis in fundo i “contrattualizzati privilegiati” di Renzi, spogliati delle loro misere tutele per renderli nudi tanto quanto i precari davanti ai loro datori di lavoro.
A questo si aggiunge l’artificio retorico dei futuri contratti a “tutele parziali” che vengono spacciate per “tutele crescenti”:
a parità di condizione sociale dovremo decidere se le tutele che un
tempo coprivano tutti vanno fatte crescere nei contratti destinati al
giovane o all’anziano, al neoassunto o allo specializzato, allo sposato
con prole o al divorziato, al disabile o alla vedova. Il
risultato di questa compartimentazione dei diritti è la perdita di ogni
umana solidarietà tra lavoratori, dove i nemici sono sempre altri
lavoratori: gli autonomi evasori se sei tassato alla fonte, gli
statali fannulloni se sei libero professionista, le caste delle libere
professioni se sei un dipendente pubblico, i giovani rampanti se sei
anziano, gli anziani baroni se sei giovane, i precari malpagati che
svalutano la tua professione se sei assunto, gli assunti privilegiati se
sei precario.
Il meccanismo culturale che porta le
classi meno abbienti a sbranarsi politicamente e culturalmente a
vicenda, sgretolando ogni brandello residuo di solidarietà tra onesti
lavoratori, è stato illustrato in modo magistrale già da tempo da Alessandro Robecchi, che fa i conti con un imprescindibile “dato ideologico” (grassetti miei):
“la vera vittoria del renzismo - scrive Robecchi - [è] aver trasferito l’invidia sociale ai piani bassi della società. Quella che una volta si chiamava lotta di classe (l’operaio con la Panda contro il padrone con la Ferrari) e che la destra si affannava a chiamare “invidia sociale“, ora si è trasferita alle classi più basse (il precario con la bici contro l’avido e privilegiato statale con la Panda). Insomma, mentre le posizioni apicali non le tocca nessuno (né per gli ottanta euro, né per altre riforme economiche è stato preso qualcosa ai più ricchi), si è alimentata una feroce guerra tra poveri. Una costante corsa al ribasso che avrà effetti devastanti. Perché se oggi un precario può dire al dipendente pubblico che è privilegiato, domani uno che muore di fame potrà indicare un precario come “fortunato”, e via così, sempre scavando in fondo al barile. Si tratta esattamente, perfettamente, di un’ideologia”.
Sul palco di questo teatrino ideologico dove i pupi sono spinti a darsi randellate a vicenda, gli
unici che non sono esposti ai fischi e al lancio di pomodori sono i
burattinai che restano dietro le quinte a custodire l’ideologia: i finanzieri con la residenza fiscale all’estero che pontificano alla Leopolda contro il diritto di sciopero, i banchieri che tappano i loro buchi privati di bilancio grazie ai miliardi erogati con decretazione d’urgenza, le multinazionali
che fanno profitti in Italia ma li fanno tassare in altri paesi grazie a
quel legalissimo e convenientissimo gioco delle tre carte chiamato elusione fiscale, i vip alla Ezio Greggio che portano in dote a Montecarlo i profitti maturati nella televisione italiana, i faccendieri
alla Briatore che si spacciano per grandi capitani d’industria con
“sogni” e visioni innovative mentre sono semplicemente degli ex
latitanti con conoscenze altolocate.
Il dibattito sul diritto di
licenziare i dipendenti pubblici come ultima frontiera verso
l’uguaglianza dei diritti (negandoli a tutti in egual misura) si
preannuncia come intenso e appassionante. Ma prima di affrontarlo, fermiamoci un attimo a riflettere su altri dibattiti già persi in passato. Com’è finito il dibattito sul precariato? Con Maroni che approva la legge sedicente “Biagi”. Com’è finito il dibattito sulle pensioni? Con la Fornero che alza l’età pensionabile. Com’è finito il dibattito sulla macelleria sociale? Con l’aumento di Monti dell’Iva e delle accise per non toccare profitti finanziari, patrimoni e redditi milionari. Com’è finito il dibattito sull’articolo diciotto? Con Renzi che lo rottama dipingendo una tutela come privilegio.
A questo punto non ci vuole un indovino per capire come andrà a finire il dibattito sui dipendenti pubblici da licenziare a convenienza e assumere a progetto con contratti stagionali, come già avviene del resto per gli insegnanti. Da qui il dubbio: anziché
accanirci sui dibattiti, non sarebbe meglio mettersi a studiare perché
finiscono sempre nel modo peggiore per chi lavora, che casualmente
coincide con quello auspicato da chi comanda?
Del resto, vista la scelta tra Gesù e Barabba, cosa possiamo aspettarci da un popolo imbevuto dall’ideologia del teatrino quando viene chiamato a scegliere tra il dipendente pubblico (archetipo del parassita) e l’intraprendente finanziere con residenza fiscale all’estero,
archetipo del determinato e salvifico uomo di successo che porterà in
italia gli investitori, ma solo a condizione che si smetta di scioperare
nel settore dei trasporti?
Alla dozzina di discepoli del
keynesismo, ostili al potere politico dei macellai sociali e al potere
religioso del culto neoliberista, non resta che restare nelle catacombe
del mondo intellettuale dove saranno perseguitati come
“professoroni”, mentre cercano di predicare la buona novella del ‘900,
quella a cui avevano creduto in molti: un mondo che verrà, dove la spesa pubblica è orientata al lavoro socialmente utile come “moltiplicatore keynesiano dell’economia”,
e non a Ilva, Banche, Confindustria, Mercanti d’armi, mafie private
camuffate da servizi pubblici, grandi opere inutili, e tutto per poi
piangere miseria ogni luglio, licenziando anche gli insegnanti che si
riassumeranno con certezza il settembre successivo.
Se il rischioso percorso della
licenziabilità è la strada che ha deciso di intraprendere la maggioranza
politica del paese, non possiamo che inchinarci alle regole del gioco
democratico. Ma in ogni caso io introdurrei per gli sperimentatori di queste ricette economiche un principio di “accountability”, obbligandoli a rispondere delle loro decisioni.
I detrattori del pubblico impiego che
applaudono con la bava alla bocca le ipotesi di licenziabilità senza
giusta causa dei dipendenti statali dovrebbero mettere per iscritto la loro presa di posizione, per renderne conto politicamente (o almeno moralmente) nel caso in cui questa ennesima sforbiciata alla rete di tutela del lavoro dovesse innescare in Italia la spirale che dalla crisi porta verso la profonda e conclamata depressione economica, terreno fertile per la trasformazione del conflitto sociale in guerra civile.
Per quanto mi riguarda, è palese che lo Stato col pubblico impiego fa girare l’economia italiana più di quanto non faccia la grande industria, e che piegare anche il settore pubblico alla logica del profitto (per alcuni fortunati che resteranno nella macchina statale a prescindere dal loro rendimento) significa condannare il paese alla miseria
(per tutti quelli che non avranno santi in paradiso e si vedranno
licenziati anche lavorando sodo, perché i bilanci si faranno quadrare
coi licenziamenti e i tagli orizzontali).
A
conferma del ruolo centrale del pubblico impiego come motore
dell’economia, ci sono i dati di realtà raccolti in una ricerca
pubblicata dal Forum PA, da cui risulta che i dipendenti pubblici in Italia sono il 14,8% rispetto al totale degli occupati, e di conseguenza rappresentano una fetta consistente della popolazione lavoratrice, che con il suo reddito e le sue spese aiuta a tenere in piedi l’economia del paese, e in molti casi ne compensa anche le diseconomie, come avviene nelle famiglie in cui il reddito di un dipendente pubblico compensa l’intermittenza di reddito di un familiare precario.
Ma si sbaglia chi pensa che i dipendenti pubblici “sono troppi e vanno sforbiciati in qualche modo”, come suggerirebbe l’ideologia renziana: in Francia i dipendenti pubblici sono il 20% degli occupati, in Inghilterra il 19,2%, e sono molti meno anche in termini assoluti e in rapporto alla popolazione complessiva. In Italia abbiamo 3,4 milioni di dipendenti pubblici pari al 5,6% della popolazione, contro 5,5 milioni in Francia (dove rappresentano l’8,3% della popolazione) e 5,7 milioni in Inghilterra, che corrispondono al 10,9% della popolazione britannica.
E dopo aver scoperto che ci sono
paesi dove il settore pubblico viene sostenuto senza timore, invece di
essere minacciato con ipotesi di licenziamenti giustificati solo dalle
esigenze della macelleria sociale, possiamo chiederci quali possono essere i rischi potenziali legati ad un crollo del pubblico impiego.
Se il settore pubblico diventa “licenziabile a prescindere” anche se non ci sono motivi di licenziamento, la conseguenza è che i dipendenti pubblici diventeranno ricattabiili e corruttibili,
perdendo ogni potere di contrattazione e ogni rivendicazione di diritti
di fronte alla minaccia di licenziamento. Visto che non sono dipendente
della pubblica amministrazione italiana potrei anche fregarmene se la
scure dei macellai cadrà su altri, ma azzerando le tutele del pubblico
impiego crollerà inevitabilmente anche il reddito, con l’applicazione
della collaudata formula “se non ti sta bene così ti licenzio, ti
demansiono finché non ti stufi o ti trasferisco anche se hai figli a
carico, tanto ne trovo a migliaia disposti a fare la fila per condizioni
peggiori delle tue“. E se crolla il reddito in un settore
che genera il 14,8% del lavoro in Italia c’è il rischio concreto che
crolli l’intera economia del paese e che la crisi acuta si trasformi in
una depressione economica esplosiva, che a quel punto colpirà tutti, dipendenti pubblici e non.
E da qui le domande cruciali di fronte al vento di tempesta che sta soffiando sul pubblico impiego:
cari innovatori, rottamatori, cambiatori di verso, costruttori di
futuro, twittatori, coraggiosi visionari di governo e profeti
dell’ideologia renziana: vale davvero la pena di rischiare la depressione economica per battere cassa in modo miope con tagli che generano risparmi sul breve periodo ma negano lo sviluppo economico sul lungo termine? Vale davvero la pena di colpire un settore strategico del nostro sistema economico e lavorativo, legittimando questo azzardo con il risentimento atavico indirizzato verso il settore pubblico? Vale la pena di cavalcare questo risentimento
per l’ennesimo attacco ai lavoratori tra i più deboli e ai redditi tra i
più bassi? Ha senso negare che questo risentimento nasce anche da una classe politica che oggi pretende di colpire l’assenteismo altrui con il licenziamento, ma ieri non è stata in grado di arginare il proprio assenteismo nemmeno con delle semplici sanzioni morali, che avrebbero evitato di affidare il governo del Paese al sindaco più assenteista d’Italia?
A tutte queste domande solo il tempo potrà dare risposta. Nel frattempo si apra pure il dibattito sulle sorti del pubblico impiego, anche se postumo e con decisioni già prese altrove.
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