Qualcuno si aspettava barricate, rivolte e scissioni: invece dall’assemblea nazionale del Pd è arrivata solo la voce tremebonda di Stefano Fassina,
a testimoniare non solo la rabbia repressa, ma soprattutto l’impotenza e
la frustrazione di quella nebulosa chiamata minoranza interna.
Lo capisco, Fassina: che ho conosciuto come persona verticale,
riflessiva, intelligente eppure scarsamente capace di capire non poche
delle dinamiche contemporanee della politica, incluse quelle mediatiche.
Uno convinto quindi ancor oggi che il suo partito avrebbe dovuto votare
Franco Marini per il Quirinale perché
era «l’uomo adatto a ricostruire una connessione sentimentale con il
Paese», «lo conoscono anche mia cognata che lavora alla posta e mio
cognato che fa l’elettrauto, invece non sanno chi è Rodotà»; uno che si
porta il peso di essere stato responsabile economico nel Pd che
appoggiava l’austerità di Monti, votava il fiscal compact, il pareggio
di bilancio, e le riforme Fornero; e che quando è entrato nel governo
Letta insieme ai berlusconiani è cascato nella trappola di far coppia in posa con Brunetta per una testata del Cavaliere.
Con ciò, non ce l’ho affatto in particolare con Fassina, ripeto.
Credo tuttavia che nella nebulosa di cui sopra sia comprensibile se
non inevitabile l’attuale frustrazione: lui – così come D’Alema, Bindi e
altri del vecchio establishment – prima sono finiti fuori dalla stanza
dei bottoni a furor di popolo e per eccesso di errori; adesso – ironia
della sorte – si ritrovano a contestare alleanze e politiche economiche
che sono in piena continuità proprio con quelle che implementavano
quando erano in maggioranza.
Lo stesso Jobs Act, del resto, non è che la prosecuzione con altri
mezzi dei tutti i provvedimenti sul lavoro firmati dal vecchio
centrosinistra. Certo, questa legge ha un nome in inglese, è verniciata
di modernità e viene presentata con battute sorridenti anziché con volti
obitoriali, ma – con poche eccezioni – è assai difficile per chi oggi
la critica da dentro il Pd rivendicare un’alterità politica profonda.
Per questo oggi Renzi maramaldeggia. Perché sa bene che quella che
ha nel partito è un’opposizione quasi tutta di paglia. Fatta in buona
parte dagli stessi che un anno e mezzo fa avevano suicidato il vecchio
Pd. E finché la “sinistra” sono loro, o in prevalenza loro, lui se la
ride.
Ieri il segretario-premier non ha avuto nemmeno bisogno di andare
alla conta, per “asfaltarli” come di consueto. È bastata la voce
tremebonda di Fassina, per chiarire a tutti i rapporti di forza.
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