Voglio
cominciare con un ricordo personale. Sono cresciuto sul confine fra due
epoche: la modernità classica e la postmodernità, o tarda modernità.
Infatti, ho trascorso la mia adolescenza negli anni '70. Allora, il
potere utilizzava un linguaggio chiaro: la famiglia, la scuola, la
chiesa, l'esercito, le istituzioni dello Stato. Parlavano con linguaggio
altezzoso e autoritario. Domandavano rispetto e sottomissione in quanto
pretendevano di detenere la verità. Non cercavano di darci
soddisfazioni immediate, ma di garantire il nostro futuro insegnandoci, o
imponendoci, quello che non eravamo capaci di apprezzare e scegliere
spontaneamente. Volevano anche obbligarci a fare sacrifici in nome di
una verità superiore all'individuo, come la patria. In realtà, nei
settori più importanti della vita, era già tutto stabilito, erano gli
individui che dovevano adattarsi. Invece, quelli che non si volevano
adattare parlavano di "rivoluzione", di "sovversione", e proponevano
soprattutto di minare le certezze comuni. Spargere dubbi, mettere in
discussione le verità ufficiali, sottolineare la relatività di ogni
sapere, sembravano attività sovversive. Mentre il potere, molto tempo
dopo la secolarizzazione ufficiale della società, parlava ancora in nome
di un dogma che doveva essere accettato e non discusso; la
contestazione, al contrario, si poneva dalla parte degli scettici, dei
relativisti. Non è forse meglio, per le religioni, perseguitare gli
scettici, piuttosto che i detentori di presunte contro-verità? La
libertà politica e sociale dovrebbe andare di pari passo, agli occhi dei
nemici dell'autoritarismo esistente, con la denuncia di ogni dogmatismo
nel pensiero: l'"anarchismo epistemologico" del filosofo Paul
Feyerabend ne è stato forse l'esempio più noto.
Poi, si è assistito ad un cambiamento sorprendente, una vera e
propria giravolta (e non mi riferisco al fatto, assai curioso, per cui
l'attuale Papa citi Feyrabend del 1990 per giustificare il rifiuto che
la Chiesa dell'epoca oppose a Galileo, mettendo il relativismo più
estremo al servizio del dogmatismo più estremo). Il relativismo è
diventato il dogma ufficiale, a tal punto che ogni affermazione
minimamente categorica passa per essere "totalitaria". Allo stesso
tempo, il concetto di "rivoluzione" sembra essere passato
definitivamente nel campo della pubblicità e del consumo. Se prima si
cercava di mettere a tacere il pensiero critico, dichiarando che era in
disaccordo con la verità stabilita, ora, al contrario, si cerca di
zittirlo accusandolo di pretendere di esprimere una qualche verità. Il
relativismo ha assunto una funzione di censura analoga a quella
esercitata prima dal dogma. L'idiosincrasia e l'angoscia che le
generazioni precedenti provavano nei confronti del prete che scuoteva
l'aspersorio, verso il militare che marciava al passo o verso il maestro
di scuola che batteva gli alunni, io, che ho conosciuto queste figure
quando erano già al declino, provo la stessa angoscia davanti al
pensiero postmoderno, davanti all'idea che tutto è permesso, che tutto è
ugualmente possibile e legittimo, e pertanto ugualmente privo di valore
e di senso - che è inutile discutere, argomentare, cercare di
convincere o di combattere per qualcosa. Ogni critica sociale, che non
si limiti a criticare alcuni dettagli, ma che intenda denunciare la
società capitalista e insieme aspiri a questo cambiamento radicale che
riassumiamo sotto il nome di "rivoluzione", viene denunciata da alcune
decadi come "totalitaria", ed ogni aspirazione alla coerenza nel
pensiero passa per essere "autoritaria" o arcaica. Così, la rinuncia
alla verità finisce per essere presentata come una pratica di
emancipazione.
Senza dubbio, il nominalismo, sotto forma di empirismo e di
positivismo, è stato il fondamento del pensiero moderno a partire
dall'Illuminismo. Ogni generazione di nominalisti ha trovato che la
generazione precedente era stata ancora troppo poco nominalista - è la
"dialettica dell'Illuminismo" della quale parlavano Adorno e Horkheimer.
Nietzsche ed altri vanno a dare a questo nominalismo un aspetto più
sovversivo. Con la teoria della relatività che la teoria quantica, la
scienza stessa sembrava aver abbandonato un concetto univoco di verità.
Ciò nonostante, è solo dopo il 1968, in quello che è stato chiamato
"nuovo spirito del capitalismo", che questo relativismo arriva nella
vita quotidiana e nella mentalità media, nei metodi educativi e nelle
relazioni familiari. "Niente è vero, tutto è permesso" era, secondo
Nietzsche, il principio supremo del "Vecchio della montagna", il capo
della setta medievale degli "assassini". Guy Debord citava questa
massima come la regola di chi, come lui, non ammetteva niente di ciò che
era socialmente stabilito. Adesso è diventato il principio ufficiale
del mondo. Questo sì che merita di essere chiamato cambiamento!
Infatti, la rappresentazione sociale di questo lavoro astratto è il
denaro e, pertanto, infine, il prezzo: seppure le merci siano
differenti, in quanto oggetti d'uso, in quanto prezzo non conoscono
differenza qualitativa. La merce è quindi relativista per natura, mette
tutto sullo stesso piano, ogni merce può sostituire qualsivoglia altra
merce nello scambio di valore, una bomba equivale ad un sacco di
frumento. Per la merce non c'è niente di sacro da rispettare, nessuna
trascendenza, ed è questa la ragione per cui la critica reazionaria ne
accompagna spesso gli inizi. Si conosce il ruolo avuto dalla logica
mercantile nella dissoluzione delle gerarchie tradizionali, le quali
affermavano sempre di essere i rappresentanti terreni di una verità
trascendente. Storicamente, la mercificazione non si impone nel mondo
tutta in una volta, ma si estende poco a poco a quegli ambiti
considerati fino a prima come aventi un valore "assoluto",
"inviolabile", intraducibile in denaro: nel XVIII secolo, la terra e la
forza lavoro, oggi il genoma, l'acqua potabile o il cervello dei
neonati. Ogni "progresso" della mercificazione del mondo diventa perciò
un passo in avanti nella relativizzazione. Ciò nonostante, le strutture e
le mentalità ereditate dalle formazioni sociali antecedenti, dalla
religione alla famiglia e dall'austerità ai privilegi di classe, hanno
continuato - e continuano a volte ancora oggi - a mescolarsi alla logica
"pura" della merce. Al punto che la critica sociale le considera un
punto centrale del dominio e si impegna fermamente a combattere la loro
pretesa di esprimere certe "verità" indiscutibili. Oggi, la logica pura
della merce, che conosce solamente l'imperativo di aumentare il valore,
regna sempre più sola, anche se questo compromette le sue capacità di
sopravvivenza, oltre a quella degli esseri umani e della natura. Quando
l'unica legge dell'esistenza è la legge di vendere e comprare, qualsiasi
preoccupazione per qualsivoglia verità non è altro che un ostacolo.
Spesso si elogia questa relativizzazione generalizzata perché si
accompagnerebbe al pluralismo, alla tolleranza, alla libertà e
all'individualismo. Nonostante questo, la possibilità apparente di
scegliere pragmaticamente fra diverse opzioni, senza che la legittimità
di tali opzioni possa essere dedotta da una verità trascendente
previamente stabilita, può riferirsi solamente - anche nel migliore dei
casi - alle opzioni che esistono all'interno di un campo che, in quanto
tale, viene messo in discussione meno che mai. Questo campo è, senza
dubbio, quello dell'economia stessa della merce, basata sul lavoro e
sulla sua trasformazione in valore: l'eternità del vendere e comprare,
del denaro e le merci, del mercato e la concorrenza, passa per essere
una verità così ontologica, con un'enorme maiuscola, che non c'è nemmeno
quasi mai bisogno di pronunciarla, o di evocarla, né per difenderla, né
per criticarla apertamente. Passa per essere così evidente, che il
fatto stesso di negarla pone lo scettico fuori da ogni discussione
possibile - come se fosse un eretico, nel Medioevo, che metteva in
discussione, non la natura di Dio, ma la sua esistenza stessa.
Diversamente da quello che è successo negli anni '60 dello scorso
secolo, si discute solamente del modo migliore di gestire il
capitalismo, mai della sua abolizione, ed il ritorno al keynesismo e
alla piena occupazione, condito con un po' di commercio equo e solidale,
qualche tassa ambientale ed una maggior partecipazione del Sud del
pianeta, costituisce l'ipotesi più audace.
Perciò, nessuna rivoluzione! Almeno, se si intende la rivoluzione
come la intendeva Debord alla fine de "La Società dello Spettacolo",
definendola, detournando il giovane Marx, come l'auto-emancipazione della nostra epoca con la "missione storica di instaurare la verità nel mondo".
Il pensiero postmoderno - nelle sue forme decostruttiviste,
post-strutturaliste, ecc. - ha esorcizzato esplicitamente qualsiasi
ricerca di un forte collegamento fra i molteplici fenomeni sociali; tale
ricerca non sarebbe, ai loro occhi, altro che un "essenzialismo",
dunque un "sostanzialismo" o un "naturalismo". Pertanto, il pensiero
postmoderno si presenta come una continuazione dell'Illuminismo e del
suo rifiuto della metafisica in nome del nominalismo. Ma come è già
accaduto per l'Illuminismo originario, anche tutto il pensiero
postmoderno - che si ritiene del tutto disilluso e "laico" - abbandona
solo la metafisica classica a beneficio di una "metafisica reale", cioè a
dire la metafisica del lavoro e del capitale, che domina questo mondo
sublunare. Nella società di mercato, la separazione fra un mondo
sensibile ed un mondo sovrasensibile è scesa dal cielo in terra: secondo
la formula di Marx, la merce, unità di valore d'uso e valore astratto, è
nel contempo sensibile e sovrasensibile. E come nella metafisica, è
questo lato astratto, "sovrasensibile", ad essere essenziale, mentre il
lato concreto, sensibile, ne è solo la forma esterna, il solo substrato
materiale e visibile. Per il platonismo, come per il cristianesimo,
l'uomo di carne ed ossa non è altro che una copia del suo modello
depositato in cielo; per la merce, l'utilità reale della merce ed il
lavoro esistono solo come "forma di rappresentazione" del valore e del
lavoro astratto. Marx riassume questa situazione nel termine di
"feticismo della merce", il quale indica altresì il carattere
surrettiziamente religioso della società moderna. Il feticismo della
merce non è una mistificazione, ma una realtà nella quale l'essere umano
viene governato dagli idoli che egli stesso ha creato. Così, una forma
di verità metafisica, perfino religiosa, costituisce, ancora e sempre,
il tessuto della società. Ma, paradossalmente, la denuncia di questa
metafisica abusiva, oggi viene accusata di essere un "grande racconto"
metafisico. Dunque, un relativismo che è uno pseudo-relativismo che non
mantiene la sua promessa principale, quella di difendere il particolare
contro la totalità, il dettaglio contro l'universale. Difatti, trasforma
questa difesa in qualcosa di estremamente difficoltoso, dal momento che
la totalità non può essere né nominata né criticata e passa per essere
un'invenzione di coloro che la criticano.
La capacità di comprendere la verità potrebbe essere definita come la
capacità di andare oltre le apparenze ed i fenomeni, e di arrivare
all'essenza delle cose. La scomparsa del concetto di "verità" ha preso
la forma di un culto della "finzione", del "discorso", del "simulacro" e
del "virtuale". Tutto si riduce alle costruzioni e alle definizioni e
si nega la differenza fra fenomeno ed essenza. La polemica contro il
concetto di essenza ha sempre caratterizzato il pensiero positivista,
empirista. Il trionfo postmoderno, in questa polemica, è legato
solamente ad un'evoluzione del pensiero? Oppure, al contrario, possiamo
indicare che in realtà c'era una "essenza", che ha cominciato a sparire?
La risposta può essere "sì", se per "essenza" intendiamo "sostanza":
quello che rimane inalterabile dopo le modifiche di superficie, quelle
che riguardano solo ciò che in termini filosofici vengono chiamati
"accidenti". Quale potrebbe essere questa sostanza che è venuta meno?
Possiamo dire che la vita sociale è una "sostanza"? Una sostanza che non
sarebbe il riflesso di una sostanza trascendente, ma che avrebbe la sua
origine nella vita umana stessa? Ogni società deve organizzare la sua
sopravvivenza materiale per mezzo del suo "interscambio organico" con la
natura; ma solo nella società capitalista moderna le attività che
garantiscono questo interscambio con la natura, prendono la forma di
"lavoro": questo non è più rivolto alla soddisfazione delle necessità,
ma, in quanto lavoro astratto, è solo un dispendio di energia umana
indifferente a qualsiasi contenuto. Il suo unico obiettivo è quello di
far crescere la sua quantità, trasformare cento euro in centodue euro.
La produzione di valore d'uso non è altro che una mediazione, la parte
sporca, ma indispensabile, per questo aumento tautologico del valore e,
quindi, del denaro. La "sostanza" del valore e, perciò, quella del
capitale in quanto valore accumulato, è il lavoro astratto che ho prima
menzionato. Il valore d'uso ed il valore concreto che essi hanno creato
non sono altro che "accidenti" multipli e differenziati di quella
sostanza unica ed omologa che è il valore astratto. (Ripeto, non si
tratta di due tipi distinti di lavoro, ma dello stesso lavoro
considerato ora come un risultato concreto, ora in quanto dispendio
indifferenziato di tempo, che ne forma il lato astratto). Non si tratta
di un'operazione mentale, di una maniera di vedere le cose, ma di
un'astrazione ben reale che domina il concreto. Lo vediamo, nella vita
quotidiana, nella supremazia del denaro su tutto il resto. Tuttavia,
questa situazione non è naturale, ontologica o eterna, ma è
caratteristica della società capitalista, e solo di essa. Questa società
in cui continuiamo a vivere, dunque, ha una sostanza, anche se essa non
è altro che la proiezione della potenza sociale sulle creazioni umane
erettesi ad esseri indipendenti: le merci. Questa sostanza costituisce
il feticcio della società moderna, alla stessa maniera in cui gli dei, o
i totem, o la terra, costituivano dei feticci in altre epoche.
Il concetto marxiano di sostanza come proiezione feticista e come
astrazione reale si situa al di là della distinzione tradizionale fra
essere ed apparenza, tra la concezione metafisica della sostanza, come
realtà ontologica e insuperabile, e la sua negazione nominalista che ci
vede solamente un inganno dello spirito, che basterebbe solo riconoscere
come tale per farla scomparire. Questa sostanza viene creata
costantemente dall'attività umana, però sotto una forma spettrale che la
fa sfuggire al controllo umano, facendola apparire come un
auto-movimento delle cose. Ciò nonostante, tale sostanza, proprio perché
è creazione degli uomini, dipende da loro ed ha la particolarità di
poter diminuire. Il sistema capitalista vuole solo l'aumento di questa
sostanza, il valore, e lo fa facendo lavorare il più possibile. Ed anche
così, il sistema capitalista è andato sostituendo, fin dai suoi inizi
ed in maniera crescente, questa "sostanza" che lo fa vivere, con la
tecnologia che non crea valore. La concorrenza spinge ciascun
proprietario di capitale a dotare la forza lavoro che ha comprato, di un
massimo di tecnologia, per produrre il più possibile; sostituendo così
il lavoro vivo con la tecnologia. Ma così facendo, contribuisce a
ridurre l'uso globale del lavoro vivo, che è l'unica fonte di valore (e,
perciò, di plusvalore, cioè a dire, di profitti). Tutta la storia del
capitalismo è la storia di questa caduta della massa di valore (e non
solo del famoso saggio di profitto) e dei conseguenti tentativi di
compensare la diminuzione del valore in ciascuna merce particolare,
mediante l'aumento della massa di merci prodotte. La sostanza del
capitale, il risultato della trasformazione di energia umana nella
categoria sociale del valore, si espone, quindi, ad un esaurimento ad
ogni avanzamento tecnologico. Questo limite interno che il capitale
porta in sé fin dai suoi inizi sembra sia stato raggiunto negli anni
1970. L'abbandono della conversione in oro, da parte del dollaro,
annuncia la fine della "sostanza": a partire da allora, il denaro smette
di essere una rappresentazione della sostanza-lavoro, frutto della
trasformazione riuscita, di lavoro vivo in lavoro morto, cioè a dire in
capitale. Da allora in poi, il denaro si basa esclusivamente sulla
garanzia data dallo Stato. Lo si può aumentare anche in assenza di una
valorizzazione riuscita del lavoro, quindi in assenza di un beneficio
reale; e se questo aumento miracoloso del denaro, sotto forma di una
stampa eccessiva di biglietti di banca, è la causa dell'inflazione, in
quell'epoca, il suo aumento ancora più considerevole sotto forma di
valori borsistici ed immobiliari non sembra aver conosciuto limiti. Fu
l'inizio della famosa finanziarizzazione: il trionfo del credito - dal
momento che non esiste - su una scala mai vista nella storia, la
moltiplicazione del denaro senza che fosse coperto da un'accumulazione
reale del capitale. Quello che Marx chiama "capitale fittizio".
Da alcuni anni, è di gran moda attribuire la responsabilità della
crisi globale del capitalismo alla gigantesca torre di Babele delle
finanze globali, o direttamente ai finanzieri. In realtà, è stato
l'aumento esponenziale delle finanze che ha permesso di differire di
varie decadi, la crisi del sistema del lavoro e del capitale,
nascondendo per mezzo dei crediti, e del denaro fittizio, la sua
mancanza reale di redditività. Se all'inizio degli anni 1970, ad ogni
dollaro "sostanziale" - che rappresenta lavoro realmente effettuato -
corrispondeva più o meno un dollaro fittizio, nel senso di un credito
estratto dal dollaro sostanziale, oggi, secondo varie stime, ad ogni
dollaro sostanziale corrispondono cinque, perfino dieci, dollari
fittizi. Ci troviamo di fronte ad una vera e propria
"desustanzializzazione" del denaro, diventato una finzione sociale. E
nessuno dice che questo sia un problema unicamente economico: in una
società nella quale, da almeno due secoli, il denaro è diventato il
legame sociale principale, nella quale la soddisfazione di ogni ogni
minimo desiderio passa per il denaro, la sua desustanzializzazione
comporta una sorta di desustanzializzazione di tutta la vita.
La
relativizzazione e la virtualizzazione, la simulazione e la finzione,
tanto deplorate e tanto esaltate nel corso di questi ultimi decenni, non
hanno prodotto un background troppo immaginario, qualcosa che possa
essere ridotto a mero "discorso", o a "rappresentazione". La simulazione
ha funzionato così bene per tutto questo tempo perché tutti gli attori
si tranquillizzavano a vicenda, assicurando che non c'era "verità", che
non c'era "sostanza" e che le simulazioni avevano lo stesso gradi di
realtà delle vecchie realtà. Ora, sembra che la sveglia abbia suonato
... Ma le mentalità, i comportamenti e gli atteggiamenti individuali e
collettivi sono profondamente impregnati della simulazione. Se il
capitalismo nella sua lunga fase ascendente, ha imposto il principio di
realtà contro il principio di piacere, creando così la nevrosi classica
frutto della repressione del desiderio, nella sua fase attuale si è
liberato dei riferimenti alla realtà e alla verità, per soccombere ad un
narcisismo generalizzato, in senso psicoanalitico, che effettivamente
può ancora stimolare un qualche consumo, ma che però renderà ancora più
difficile qualsiasi uscita dal disastro. Tuttavia, la scomparsa della
nozione di verità, anche nella vita quotidiana, facilita di molto quei
comportamenti necessari per adattarsi ad un mondo in mutazione
permanente. Come dice lo psicanalista francese Jean-Claude Liaudet, nel
suo libro "L'impasse narcisista del liberalismo": "Il perverso instaura
uno statuto specifico di fede: io so che non è vero, ma ha tutta l'aria
di esserlo. Una credenza, propria della nevrosi liberale, che si
distingue per la fede in un grande Altro. E che dà alla verità un nuovo
statuto: in un sistema simbolico, la verità è un ideale, ha un carattere
trascendente; nel sistema di negazione della nevrosi liberale, la
verità è sempre relativa, circostanziale, parziale, rivedibile,
addirittura opportunista; e qualsiasi fermo posizionamento a favore di
una verità che si impone su di noi, viene considerato come totalitario.
Di qui, la mentalità postmoderna, imbevuta di un'incertezza fondamentale
che permette ogni cinismo - fino al punto che si potrebbe pensare che è
proprio questo l'obiettivo". Effettivamente, l'indebolimento del
Super-io, di Edipo e dell'ordine simbolico tradizionale, che dovevano
essere tutti vettori di emancipazione, alla fine hanno avuto conseguenze
abbastanza inattese per il progetto di emancipazione.
Ho appena menzionato il concetto di emancipazione. Questo concetto ha
sostituito, in effetti, quasi dovunque, la vecchia idea di rivoluzione.
E' vero che l'emancipazione è un termine così vago che ciascuno può
trovarci quello che vuole. Cosa ne è stato, dunque, nell'epoca della
desustanzializzazione, della rivoluzione nel senso forte, della rottura
violenta dell'ordine esistente, presente dalla Grande Rivoluzione
francese fino alla rivoluzione iraniana del 1979? Attribuire la sua
assenza unicamente al "tradimento degli intellettuali" sarebbe un
spiegazione troppo banale. La rivoluzione moderna è sempre stata
concepita come una rivoluzione di lavoratori, come una liberazione del
lavoro dai suoi sfruttatori. Quelle rivoluzioni non erano contro il
capitalismo, ma lo aiutavano, sovente contro la volontà dei suoi attori,
ad installarsi e ad evolversi nelle diverse regioni del mondo.
L'obiettivo principale del movimento operaio era quello di far lavorare
tutti. Adesso, il lavoro è un elemento secondario dentro l'apparato
produttivo mondiale, ed il suo mantenimento come legame sociale incontra
sempre più difficoltà. "La società del lavoro non lavora più" diceva
Hannah Arendt già nel 1958. Da allora, le possibilità di accedere in
maniera autonoma al mercato mondiale - che era l'obiettivo nascosto
delle rivoluzioni nei paesi arretrati - si è definitivamente dissipato.
Oggi, una rivoluzione in nome del lavoro non è più possibile. Ma,
chiamiamola come più desideriamo, la necessità di una rottura con un
mondo mancante di verità e di sostanza, non è scomparsa. Anche se va
intesa come quel "freno di emergenza" di cui parlava Walter Benjamin.
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