Il periodo di relativa
tregua della crisi finanziaria volge al termine dopo circa tre anni. E’
stato poco più lungo del precedente (durato dal tardo 2009 a metà 2011) e
questo ha suggerito l’illusoria convinzione che si fosse avviata una
uscita dalla crisi, pur se lenta e graduale.
La speranza era che l’inondazione di
liquidità delle banche centrali facesse da volano agli investimenti
nell’economia reale, con conseguente aumento dell’occupazione e, quindi,
dei consumi. Così non è stato: i soggetti finanziari hanno continuato
ad usare il denaro per nuovi impieghi finanziari, lesinando i prestiti
ad imprese e famiglie. Per cui, nessuna ripresa dell’economia reale, ma
semplice gonfiatura dell’ennesima bolla finanziaria.
La cosa si è mantenuta in equilibrio
(almeno dal punto di vista finanziario) per un po’, ma adesso le palle
che i giocolieri hanno tenuto in aria cominciano a cadere e ci risiamo
con la crisi finanziaria.
In primo luogo c’è la crisi dei debiti sovrani di Usa, Giappone e, soprattutto Europa,
che appaiono sempre più gonfi ed inesigibili, con interessi pronti ad
impennarsi di nuovo al primo spirare di nuovi venti di crisi.
In Europa sembra molto vicina al crollo la situazione greca, ma anche Portogallo ed Italia potrebbero rapidamente inabissarsi.
Poi ci sono i debiti sovrani di paesi emergenti
come Venezuela, in certa misura il Messico, ma soprattutto Brasile che
minaccia di essere il primo a piegare le ginocchia nel giro di qualche
mese. D’altra parte, è normale che quando cada la domanda aggregata
mondiale, i primi a flettere siano i paesi fornitori di materie prime.
Poi c’è la situazione particolarissima della Russia,
dove le sanzioni economiche e la caduta dei prezzi gas-petroliferi,
rischiano di provocare un crack anche maggiore di quello del 1998.
Politicamente gli Usa avrebbero di che rallegrarsene, ma
finanziariamente potrebbe essere un disastro: quanti investimenti
americani andrebbero in fumo? Non abbiamo cifre precise, ma i titoli
russi, tanto statali quanto delle principali imprese, a cominciare da
Gazprom, sono stati ampiamente sottoscritti anche da hedge fund e banche
d’affari americane. E gli Usa non hanno di che scialare in una
situazione in cui il proprio debito pubblico tende di nuovo a salire.
Ricordiamo che il debito aggregato
americano (stato, imprese, famiglie) è tutt’ora il maggiore del mondo e
la situazione si regge in buona parte sul fatto che il dollaro è moneta
internazionale. Questo semplice fatto, dà agli Usa tre o quattro punti
secchi di Pil all’anno. Però non è cosa su cui si possa fare affidamento
sempre e comunque.
E la ripresa americana (in verità la
ripresina) sembra già essersi bloccata. Peraltro, anche il Giappone non
sta messo benissimo: l’Abenomics non ha affatto funzionato (anche se poi
Abe ha recentemente vinto le elezioni) e la batosta di Fukushima è
tutt’altro che superata.
Poi c’è l’imprevista perturbazione petrolifera,
con i prezzi al ribasso che aggravano la crisi russa e venezuelana,
mandano gambe all’aria centinaia di hege fund ed anche diverse compagnie
che hanno investito nello shale e mettono in fibrillazione le borse
mondiali non meno che le turbolenze greche.
Infine, c’è il mistero dei misteri: la Cina.
Certo: sulla carta il massimo creditore mondiale e con un’economia
manifatturiera solidissima, ma, c’è sempre un ma: il debito pubblico
statale è molto limitato e si aggira sul 20% del Pil (situazione
invidiabilissima); però c’è il debito delle amministrazioni locali, che
fa schizzare il debito pubblico totale a circa il 90%. Ed alcune
amministrazioni sembrano decisamente nei pasticci e non in grado di
onorare gli impegni, soprattutto perché i debiti sono stati fatti per
investimenti nel settore immobiliare che hanno prodotto una bolla
gigantesca che minaccia di esplodere da un momento all’altro. Per di
più, la Cina è entrata nel periodo in cui gli ultrasessantenni iniziano a
diventare più di quanti sono in produzione. Vero è che in Cina un vero e
proprio sistema pensionistico non esiste, però bisognerà pur far
sopravvivere quanti stanno uscendo dalla vita lavorativa. In fondo, si
può fare la politica del “figlio unico”, mentre è molto meno praticabile
la politica del “nonno unico”. Non si possono abbattere gli esseri
umani come fossero bestiame. E quindi occorrerà inevitabilmente
concentrare risorse sul mercato interno, con effetti sulla bilancia
commerciale che non sarà favorevole come nel passato.
Inoltre, come era prevedibile, la Cina è
arrivata all’”atterraggio” della sua parabola di crescita e tutto
lascia pensare che sarà più un hard landing che non un soft landing.
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