Sapere come vedono le cose i finanzieri, in un mondo
finanziarizzato, ha la sua dannata importanza. Questa ricostruzione
della recente "guerra del prezzo del petrolio", dell'intreccio tra
ambizioni statunitensi, resistenza russa, mosse saudite è decisamente
fuori tono rispetto alla propaganda dei quotidiani mainstream, ormai
ridotti al ruolo di "fabbricanti di nemici".
Non sorprendentemente, secondo noi, nella visione del mondo dei
finanzieri non ci sono "demoni", "mali assoluti" e mostri d'ogni tipo.
Ma solo agenti economico-politici con interessi razionali, consapevoli
dei reciproci rapporti di forza e delle finestre di opportunità che ogni
piccola crisi - all'interno di quella generale del modo di produzione
capitalistico, per cui non hanno nessuna ricetta vera - inevitabilmente
apre.
Interessante quindi anche per chi, a sinistra, non ne può più di
ragionare per "complotti" e sente il bisogno di fondare le proprie
personali considerazioni su basi un po' più realistiche.
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Mercati: la geopolitica ritorna prepotente sulla scena
di Alessandro Fugnoli, Il Rosso e il Nero, Settimanale di strategia (Kairos Partner)
È andata così, forse. Il petrolio era da
tempo strutturalmente debole. Stava a 100 dollari perché il mercato
spot, quello delle transazioni fisiche per consegna immediata, era
ancora in equilibrio. Non c’erano, e non ci sono nemmeno adesso,
quantità rilevanti di offerta invenduta. Non c’era, cioè, un accumulo
abnorme di greggio nei magazzini di Singapore, Rotterdam o Houston.
Quello che c’era, e ora c’è un po’ meno, era una quantità
eccezionalmente elevata di petrolio che si preannunciava in arrivo per i
prossimi mesi e anni. Lo shale oil americano e canadese in continua
accelerazione, il Kurdistan diventato padrone delle sue risorse, la
Libia che riprende a produrre, l’Iraq che galleggia sul greggio
(nonostante l’Isis, che in ogni caso si finanzia con il petrolio delle
zone che controlla e quindi produce più che può). Di poco più distanti,
il petrolio e il gas delle acque profonde del Golfo di Guinea e al largo
del Brasile e della costa orientale africana, una produzione potenziale
molto ampia. E poi il Messico che riapre ai privati ed è pronto ad
aumentare la sua produzione. E l’Argentina. E l’Iran a un passo dalla
revoca delle sanzioni. E, sullo sfondo, l’Artico russo e la Groenlandia.
E in più la concorrenza crescente del carbone, talmente abbondante che
molti paesi, l’America tra questi, ne boicottano in tutti i modi la
crescita. Quella del gas naturale, sempre più disponibile non solo negli
Stati Uniti ma anche in Russia e in Australia. Quella delle
rinnovabili, passate di moda ideologicamente ma comunque in espansione. E
perfino quella del nucleare dalle nove vite, in via di clamoroso
rilancio in Giappone e in forte espansione in Cina, in India e nella
stessa Arabia Saudita. I teorici del Peak Oil, che ebbero il loro ultimo
momento di gloria nel 2008, non avevano sbagliato anno nella loro
previsione di una crisi energetica incombente e fatale per la nostra
civiltà. Avevano probabilmente sbagliato secolo.
Per non parlare della domanda. Sempre in
crescita nei paesi emergenti, certo, ma stabilizzata e in strutturale
declino in Europa e in America.
Meglio agire subito, deve avere pensato
l’Arabia Saudita. Meglio buttare giù violentemente il prezzo adesso,
prima che sia troppo tardi. Meglio convincere tutti che buona parte
degli investimenti programmati nell’energia per i prossimi anni si
riveleranno fallimentari o comunque antieconomici. Tagliate i vostri
programmi finché siete in tempo. Liquidate le vostre società che
estraggono gas o petrolio, restituite il capitale agli azionisti o
dedicatevi ad altre attività. Questo shock, accolto all’inizio con
incredulità e sufficienza da molti produttori, ha dovuto essere violento
e dovrà essere prolungato per risultare convincente. Finché ci sarà,
come c’è ancora, l’idea che i prezzi del greggio si riprenderanno
presto, nessuno cancellerà i suoi progetti (e la ripresa dei prezzi sarà
solo temporanea).
Ad accelerare la decisione saudita ci
sono state anche considerazioni strategiche di natura geopolitica. La
casa di Saud è consapevole della sua fragilità e vive nel costante
terrore di essere estromessa dal potere da un militare nasserista,
qaidista o legato alla Fratellanza Musulmana o all’Isis. Teme anche
rivolte fomentate dall’Iran dei suoi cittadini sciiti. Il caos yemenita è
del resto un monito costante per Riyadh. L’idea di un’America troppo
autosufficiente nell’energia e quindi sempre più indifferente ai destini
del Medio Oriente (e sempre più vicina all’Iran) proprio nel momento in
cui l’Isis consolida il suo potere e pianifica di espanderlo verso sud è
ancora più preoccupante della debolezza strutturale del greggio. Visti
dalla Casa Bianca, il panico saudita e il crollo del greggio sono stati
vissuti come un’opportunità da sfruttare. Da una parte la possibilità di
infliggere un colpo durissimo alla Russia, di tenersi definitivamente
l’Ucraina, di eliminare il chavismo dal Venezuela e dall’America Latina,
di ammorbidire ulteriormente l’Iran, di confermarsi iperpotenza, di
chiudere la presidenza Obama con la benzina a metà prezzo e una ripresa
dei consumi e della fiducia. Dall’altra, come prezzo da pagare, un
rallentamento dell’espansione nell’estrazione di gas e petrolio non
convenzionali (e un altro colpo al carbone) negli Stati Uniti.
Rallentamento che va a colpire solo stati repubblicani e avvantaggia,
con il gasolio da riscaldamento a basso prezzo, soprattutto stati
democratici. Rallentamento che comunque non compromette l’espansione
inarrestabile del settore energetico americano.
La Russia è la grande vittima di quello
che sta accadendo. L’America, nei giorni scorsi, ha accarezzato l’idea
di fare saltare Putin e di fare tornare la Russia ai tempi di Eltsin,
quando era inoffensiva e in bancarotta. Putin ha agito in modo
razionale, arretrando significativamente ma tracciando una linea da non
superare. Senza troppo clamore ha congelato la situazione militare in
Ucraina e fatto arretrare le forze filorusse. Sul piano più importante,
quello politico, ha cercato di presentare la Russia non come un
antagonista dell’Occidente ma come un mediatore. Non vogliamo, ha detto
Lavrov a Kerry, essere per forza un alleato della Siria, dell’Iran, di
Hizbullah e del Venezuela, vogliamo solo essere un mediatore tra questi e
gli Stati Uniti. Anche sull’Ucraina ci proponiamo in questo ruolo e,
dopo la Crimea, non vogliamo annettere più niente. Chiediamo solo che la
Nato non entri nel paese e un po’ di autonomia per i russofoni.
D’incanto la pressione occidentale si è
arrestata. La campagna sul default russo imminente e sulla disperata e
controproducente difesa del rublo è cessata. Putin si lecca le ferite ma
è ancora in piedi. Spingere la Russia nel precipizio, per l’Occidente,
avrebbe significato un’onda d’urto di ritorno fatta di vero default
russo e recessione europea. Ancora peggio, al posto di Putin sarebbe
potuto arrivare un nazionalista o un militare pronto a sfoggiare, nella
disperazione, il suo arsenale nucleare. Natale tranquillo, dunque, con
l’ulteriore conforto, per i mercati, di un buffo e aggrovigliato
comunicato del Fomc che si sforza di non dire nulla di nuovo ma lo fa
con un tono gentile e premuroso. Terremo le mani libere, è il senso, ma
sappiate che siamo sempre con voi. Ci si stava cominciando a preoccupare
per la Grecia, ma l’arrivo della crisi russa ha ridimensionato, agli
occhi dei mercati, il previsto flop di Samaras nella prima votazione per
il presidente della repubblica.
Per ora si fa festa. Il 29 dicembre, il
giorno dell’ultima e decisiva votazione greca, appare lontano. L’Europa
sta scendendo in campo con grande pesantezza per spaventare gli elettori
greci. Non vi faremo nessuno sconto, lasceremo fallire le vostre
banche, perderete i vostri depositi come è successo a Cipro. E sarete
anche isolati, nessuno piangerà per voi, Italia e Francia non faranno
asse con Tsipras. L’Europa ha rinunciato a farsi amare e punta al farsi
temere, cosa che spesso funziona di più.
Sul Qe europeo, l’opposizione di
Weidmann si fa sempre più stizzita e sfiora l’isteria. Non va presa alla
lettera, ma rende più probabile, in gennaio, un Qe composto da
corporate bond che rinvii a marzo la parte sui governativi. Il 2015 si
preannuncia movimentato, ma non così tanto da rovinare ulteriormente
l’atmosfera di fine anno.
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