Vi ricordate la sequenza finale di Tutti gli uomini del Presidente,
quando sullo schermo televisivo scorrono le immagini del secondo
trionfale giuramento di Nixon nel 1972, mentre ticchettano i tasti delle
macchine da scrivere su cui i due indomiti cronisti scrivono le
malefatte del Watergate e infine uno per uno cadono tutti gli esecutori e
il padrino stesso nel 1974 deve arrendersi? Mi veniva in mente al
vedere la fiducia trionfale al Senato del Jobs Act, l’arrogante
esultanza di Renzi e Poletti, le cariche e le manganellate ai
dimostranti sotto la pioggia (unico onore romano di questi giorni) e –
subito dopo – le immagini di Poletti a fraterno colloquio con Buzzi sul
Magazine della cooperativa 29 giugno e a cena con tutto il resto della
banda: Alemanno, Panzironi e Buzzi in testa, l’assessore Ozzimo e l’on.
Marroni del Pd, Sveva Belviso dell’Altra Destra a fianco e un Casamonica
sullo sfondo.
Mi veniva in mente al pensare a quei dirigenti collusi e corrotti
della (tardivamente) disciolta federazione romana del Pd, sostenitori
accesi o guardinghi o per “responsabile” disciplina e tutti o coinvolti
con mazzette o sdegnosamente consapevoli però mafiosamente taciti
davanti al fatto scellerato quanto inaudito che a comandare a Roma non
erano i boss politici (i Bettini, i Morassut, i Cosentino) ma Er Cecato,
ovvero Massimo Carminati con i suoi accoliti Buzzi, Guarany, Odovaine,
Panzironi, Mancini. Carminati, dico, non Mackie Messer. Carminati, dico,
non Al Capone. Carminati il Nero, manco il Libanese o il Dandi,
ma una seconda fila dei Nar e della Magliana, infiltrato e spione.
Eppure, come scandisce Tosca guardando il cadavere del barone Scarpia:
«…avanti a lui tremava tutta Roma!» «Li famo strilla’ come un’aquila
sgozzata», in gergo intercettato.
Quello che sorprende non è l’ignobile trama con cui ha arraffato il
potere economico una combriccola di ex-detenuti, fascisti di varia
osservanza e piddini corrotti, sotto gli occhi di un Marino alquanto
distratto e di un’opposizione più attenta alle infrazioni della Panda
rossa del sindaco che non a maneggi criminali sfacciatamente esibiti.
Cose che capitano.
E che la destra romana in tutte le sfumature stesse
assai ammanicata con truffatori, tangentisti e delinquenti non è una
novità. Perfino la doppia funzione di speculare su zingari e migranti e
allo stesso tempo di aizzare le periferie contro di loro è un classico.
Quando alla testa del corteo popolar-razzista abbiamo visto Alemanno e
Tredicine, il re dei caldarrostari e ombrellari bengalesi, si era capito
subito il gioco.
Lo scandalo vero è un altro e riguarda solo il Pd o PdR che dir si
voglia, il partito della Nazione, di quelli che volevano che Landini
chiedesse scusa per aver dubitato che Renzi avesse il consenso degli
onesti e allo stesso tempo mandavano un bacio grande a Buzzi. Che Renzi
abbia immediatamente sciolto la direzione romana del Pd (peraltro a lui
indigesta), cercando di recuperare l’odiato marziano Marino per evitare
lo scioglimento del Comune per mafia e una nuova elezione che farebbe
impallidire l’astensionismo emiliano, non occulta il fatto che uno dei
gruppi dirigenti fondamentali si presenti non solo corrotto ma complice
di forze criminali e di destra eversiva. Per di più a grande notorietà
mediatica. I ragazzini con i pupazzi del Nero e del Libanese ci giocano:
vogliamo vedere Poletti con la coppola in vendita a S. Gregorio Armeno
il prossimo Natale?
Com’è possibile che, nel pieno dell’offensiva di CasaPound, Borghezio
e Lega contro zingari e rifugiati, solo i centri sociali e le
associazioni di sostegno ai migranti abbiano denunciato la morsa mortale
di pogrom e finte cooperative di sfruttamento, la spirale perversa fra
costi di mantenimento elevati e feroce taglieggiamento degli operatori,
per un verso, degli ospiti dall’altro? Chi si ficcava in tasca quei
soldi? Non servivano forse i pogrom a spostare a rotazione campi rom e
centri di accoglienza da una parte all’altra per ottenere fondi che poi
qualcuno si pappava spudoratamente? Le vicende dei Cara siciliani e
pugliesi e di Castelnuovo di Porto erano state denunciate molto prima
che scoppiassero le insurrezioni “ben guidate” di Corcolle, Tor
Sapienza, Torpignattara, Infernetto ecc.
Il gruppo dirigente romano del Pd conosceva bene in realtà il gioco
della spartizione dei fondi e anche della distribuzione in eccesso dei
profughi nel Lazio. Lo conosceva perché vi partecipava, perché loro
stavano dentro la macchina, ne ricavano stecche di partito e private e
chiudevano un occhio sulla mobilitazione dei penultimi (gli abitanti
delle periferie abbandonate) contro gli ultimi. Aveva un bell’andare
Marino da Alfano chiedendo di spostare altrove i rifugiati, mentre i
suoi assessori si spartivano l’eccesso di Rom, minori non accompagnati e
asilanti contro un discreto bottino tangentizio. Tutti zitti, un bel
regalo al nascente Fronte lepenista nel nostro Paese.
Ma i consiglieri, deputati, funzionari del Pd che andavano in visita
pastorale nelle cooperative (Poletti in prima fila) non potevano
denunciare la demagogia di Alemanno, quando l’hanno visto alla testa dei
pogrom? No che non potevano, proprio perché ci mangiavano insieme (in
senso proprio e figurato) e ci si facevano i selfies. Così che
familiarmente possono essere evocati nell’intercettazione di una
telefonata di Buzzi a Odovaine: «A noi ce manda Goffredo (Bettini) con
una precisa indicazione»…
Il ruolo di Poletti, come ex-presidente di Legacoop, è ancora più
emblematico. Ha un bel commissariare quella regionale laziale (il giorno
dopo la fuga dei maiali dal porcile), ma resta il fatto che
organicamente la sua Lega è la principale utilizzatrice finale del
saccheggio dei fondi europei per trasformare la tragedia dei richiedenti
asilo per guerra in colossale affare. Isis e affini li costringono alla
fuga, gli scafisti li taglieggiano e alla fine ci mangiano sopra le
coop e il terzo settore inquinato. Da al-Baghdadi a Poletti il cerchio
si chiude. La legge mafiosa del sub-appalto, del resto, contrassegna la
filiera migrante come il Jobs Act, è la stessa logica della precarietà e
delle “tutele crescenti”.
Il crimine è la matrice del prelievo biopolitico, non un suo effetto
collaterale. La bolla speculativa dell’accoglienza tossica – come è stata definita in un documento di ResistenzeMeticce
– si fonda sulla spartizione del mercato al 50% fra il gruppo Eriches
29 di Buzzi e l’Arciconfraternita di Zuccoli, emanazione Cei. Con la
benedizione del Comune, sotto le amministrazioni Alemanno e Marino, e
del ministero degli Interni. E con il complemento della protesta
mediatica e teppistica contro il “degrado”, alla cui testa si collocano
proprio quanti ne sono responsabili e fruitori.
A Roma non è purtroppo affare di poche mele marce o, secondo la
metafora del sindaco-trapiantista, di tumori isolati: marciume e
metastasi dilagano nel ceto politico e contaminano l’insofferenza da
crisi. Ma c’è un’altra Roma non mafiosa e solidale, quella che sabato 13
dicembre si ritroverà alle 15 a piazza Vittorio per il diritto alla
città. Un’altra volta, come il 3, per difendere l’onore romano contro la
cosca del Jobs Act, dei centri d’accoglienza e degli sgomberi.
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