Chi pensa che in una economia globalizzata si possa andare
avanti a forza di “sanzioni” contro i propri nemici geopolitici o è un
pazzo o mente. In entrambi i casi, si dimostra un pessimo apprendista
stregone, che solleva forze incontrollabili.
Le crescenti difficoltà economiche della Russia putiniana sono da
mesi sottolineate con gusto da molti commentatori. Salvo poi accorgersi
che non c'è nulla da ridere, viste le conseguenze globali che un
eventuale crollo di Mosca avrebbe sulla già non pervenuta “crescita”
globale.
E stamattina di paura, nei mercati
finanziari, ne circola molta. Già nei giorni scorsi c'erano state cadute
verticali delle principali borse mondiali, trascinate ufficialmente
dalla frana del prezzo del petrolio. Poi, nella notte, è arrivata la
decisione della banca centrale russa (Bank Rossii) di alzare i tassi di
interesse in una misura mostruosa: dal 10,5 al 17%. La governatrice
dell'istituto, Elvira Nabiullina, ha definito la scelta indispensabile
per «contenere i rischi di deprezzamento del rublo, aumentati
considerevolmente, e i rischi di aumento dell'inflazione».
Con questi tassi base l'economia reale
interna verrà praticamente congelata, bloccando gli investimenti. E
probabilmente non sarà neppure sufficiente a frenare la rovinosa discesa
del rublo.. Ma ha certamente un forte significato geopolitico, che non
mancherà di esser compreso dalle cancellerie occidentali: Mosca è
disposta a tutto.
Il conflitto sotterraneo esploso
definitivamente con l'apertura della crisi ucraina ha di fatto tagliato
via dal mercato mondiale un'economia incentrata fondamentalmente
sull'esportazione di materie prime energetiche (petrolio e gas, ma anche
carbone). E qui da noi molti hanno applaudito le “sanzioni” come arma
capace di far capitolare rapidamente anche il Cremlino. Del resto, negli
ultimi 40 anni, sono innumerevoli i casi di paesi destabilizzati senza
colpo ferire, semplicemente operando sul mercato dei capitali e
pilotandone il flusso da una parte all'altra.
Con la Russia si è pensato di poter fare
lo stesso e soltanto ora qualche commentatore “cortomirante” comincia a
rendersi conto dell'effetto boomerang. Nonché della presenza di un
arsenale nucleare.
Certo, il drastico calo del prezzo del
petrolio pesa soprattutto su “nemici storici” dell'Occidente, come
Russia, Venezuela e Iran. Ma anche amici storici come Nigeria, paesi
arabi del Golfo di vecchia o nuova conquista, vedono drasticamente
calare le entrate petrolifere; riducendo quindi in misura proporzionale
le importazioni di merci occidentali (lusso, tecnologia, macchinari,
ecc) su cui tanto puntano – da questo lato della frontiera – quelli che
spingono per trasformarci tutti in un modello di economia export oriented, a bassi salari, zero diritti e altamente “competitiva”.
Non solo. Tutto il settore dello shale oil & gas statunitense
– su cui Washington ha basato la sua ritrovata indipendenza energetica –
rischia di saltare in aria se il prezzo del greggio resterà a lungo a
questi livelli (le società del settore hanno costi di estrazione anche
molto differenziati, a seconda delle caratteristiche dei "giacimenti"
sfruttati, ma nessuna si può permettere di vedere a lungo il prezzo del
barile sotto i 50 dollari; e stamattina il Wti quota 54,3, quasi la metà
rispetto a giugno).
L'eventuale fallimento di una serie di società shale si
sta già ripercuotendo sui mercati finanziari, visto che proprio da lì
sono arrivati gli ingenti finanziamenti necessari per avviare
esplorazione ed estrazione con la devastante tecnica del fracking.
Nessuno si può insomma permettere a
lungo una situazione del genere: o la Russia cede di schianto e
rapidamente (qualche mese, al massimo), oppure sono guai giganteschi per
tutti. La finestra temporale deve esser chiusa rapidamente. E questo
non agevola le decisioni sensate...
Una Russia che “tiene duro” - che sta
inoltre facendo incetta di oro fisico approfittando del basso prezzo sui
mercato, creando al contempo rapporti solidi con Cina e altri pasi
“emergenti” sulla base di scambi non prezzati in dollari – è l'ultimo
degli eventi desiderabili per il capitalismo mondiale; di cui la Russia è
parte non secondaria dalla caduta del Muro in poi.
Fin qui la “difesa” era stata
sostanzialmente delegata alla politica monetaria, con la Bank Rossii
impegnata nel contrastare la caduta di valore del rublo tramite aumenti
progressivi dei tassi di interesse base e uso delle riserve strategiche.
Ma, dopo aver speso probabilmente tra gli 80 e i 100 miliardi di
dollari in questa difesa, appare chiaro che non può esser questa la
strategia vincente. Il mostruoso aumento dei tassi di stamattina segna
dunque un salto di qualità nella linea di Mosca e diventa un segnale per
tutti.
A questo livello dei prezzi del
petrolio, infatti, l'economia di Mosca segnerà nel 2015 una caduta del
Pil di oltre 4 punti percentuali; una dimensione che – secondo le
speranze occidentali – potrebbe aprire contraddizioni interne, sia di
carattere sociale che politico.
Fin qui, però, Mosca non ha usato l'arma
del divieto di esportazione dei capitali. Si calcola che dall'inizio
delle sanzioni se ne siano andati già quasi 130 miliardi di dollari; e
altri 120 potrebbero far lo stesso l'anno prossimo. Fin qui nessuno ha
parlato esplicitamente di blocco, ma si moltiplicano le voci – c'è anche
una proposta di legge depositata alla Duma - che chiedono di
costringere gli esportatori (società russe o in joint venture) a vendere la propria liquidità in valuta forte (euro o dollari), in modo da sostenere indirettamente la quotazione del rublo.
Sullo sfondo resta il blocco totale,
ovvero l'uscita di Mosca dai circuiti finanziari globalizzati (ma non da
quelli dove incontra la Cina e altri paesi emergenti). Sullo sfondo
resta, per il momento, anche l'incertezza sulla continuità delle
forniture di greggio e gas, problema che riguarda soprattutto l'Unione
Europea. Del resto, non puoi pretendere certezze su questo fronte se
“sanzioni” il tuo principale fornitore...
Ricordate le promesse della "globalizzazione"? Quanti secoli sembrano passati?
Nessun commento:
Posta un commento