In Giappone vota la metà degli
elettori, in Turchia arrestano i giornalisti, in Spagna si vogliono
impedire le proteste di piazza, in Italia procede la governance autoritaria su ogni aspetto. Cosa significa?
Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha vinto le elezioni anticipate da lui stesso convocate per cogliere il residuo quantum
di popolarità sul viale del tramonto. È riuscito nella rischiosa
operazione e ora si appresta – dall'alto dei due terzi della Camera
bassa che costituisce la sua nuova maggioranza – a modificare la
Costituzione, sviluppare gli armamenti e a rivoltare il paese con
“riforme strutturali”, a partire dal mercato del lavoro e dal welfare.
Qualcosa di già sentito, vero? Così
come la clamorosa disaffezione al voto che ha colpito il solitamente
partecipe elettorato nipponico, presentatosi alle urne con solo metà
degli effettivi (il 53%, per la precisione). Anche lì, nell'arcipelago
del Sol Levante, non ci sono alternative credibili all'unico partito al
potere, sedicente liberale. Non lo sono i socialisti, non lo sono i
democratici e altri minori. Crescono – in percentuale e seggi – i
comunisti, che superano per la prima volta la decina e ottengono
21deputati, nonostante la Camera Bassa ne preveda ora molti meno di
prima (anche la “riduzione dei costi della politica” è merce comune a
Tokyo).
In Turchia il governo – non staremo
certo qui a discutere di “indipendenza della magistratura” locale – fa
arrestare decine di giornalisti dei media dell'opposizione. Accusati
nientepopodimeno che di “terrorismo”, mentre da Unione Europea e Stati
Uniti arrivano flebili voci ufficiali di critica e non tutti i giornali
italiani “importanti” - si veda il Corriere della Sera –
ritengono questa una notizia da prima pagina. Anche la “libertà di
informazione” vale meno, sembra di intuire, quando riguarda un'altra
redazione.
In Spagna stanno varando una durissima
Legge antiproteste e si arrestano i militari che denunciano
l'addestramento a fini di ordine pubblico interno, contro normali
manifestanti.
In Italia sappiamo bene come
sta andando, tra controriforma del diritto del lavoro, svuotamento
rapido della Costituzione e del Parlamento, proposte di legge elettorale
che non lascino spazio a nessuna opposizione reale, ecc; ma continuiamo
a guardare agli eventi come se non ci riguardassero davvero, a metà
strada tra il disincantato e lo stupefatto, o il “voglio proprio vedere
dove vogliono arrivare”.
Il punto d'arrivo è secondo noi chiarissimo. E planetario.
Ovunque si mette mano a
“riforme costituzionali” di segno ultra-autoritario, svuotando i
“contrappesi” e concentrando nel potere esecutivo anche quello
legislativo.
Ovunque si “riforma” il mercato del lavoro, azzerando diritti conquistati a forza di licenziamenti, arresti, morti.
Ovunque si demoliscono istituti e
strutture del welfare in nome della necessità di tagliare la spesa
pubblica e raggungere il pareggio di bilancio.
Ovunque si cerca di azzerare i “corpi
intermedi” - partiti, sindacati, associazionismo – in grado di
concentrare (anche solo potenzialmente) interessi sociali diffusi in
domanda politica organizzata.
Ovunque si limita la libertà di informazione. Sul piano economico, in primo luogo; reprimendo direttamente, se non basta. Ovunque
si potenziano le forze di polizia concentrandone i compiti nella
repressione del dissenso interno, fin dagli stadi iniziali.
Ovunque si mette mano alla
riduzione della libera circolazione delle persone – dei migranti
“poveri”, in primo luogo – mentre si pretende l'assoluta libertà di
circolazione di capitali e merci.
È significativo – oltre che
singolare – che tutti questi fenomeni si mostrino quando la
conflittualità “sistemica”, anticapitalista, è globalmente ridotta la
punto più basso della storia. Mai come in questi anni i “nemici di
comodo” (Al Qaeda prima, l'Isis adesso, passando per i Saddam e i
Gheddafi) sono stati moltiplicati per creare incertezza generale e
giustificare misure illiberali palesemente tali (tortura compresa).
L'assenza di un avversario
all'altezza, di un antagonista “minaccioso”, insomma, non ha portato il
potere capitalistico sulla via della “maggiore libertà per tutti”, ma in
direzione diametralmente opposta.
Impossibile non vedere, al di sotto di questa dinamica, l'avanzare incontrollato di una crisi davvero epocale,
che fa data ormai dagli anni '70 del secolo scorso. È da allora,
infatti, che nei think tank più spregiudicati del capitalismo
multinazionale - una tra tutti la Commissione Trilaterale - è stata
formalizzata la consapevolezza che la democrazia liberale era diventata fondamentalmente incompatibile con la governabilità del sistema nel suo complesso. A prescindere dall'esistenza o meno di una alternativa radicale (che, pure, allora esisteva).
Non esiste un “complotto mondiale” per liquidare la democrazia. È semplicemente l'esigenza di governance –
nel senso imprenditoriale del termine, come “gestione amministrativa”
di una macchina produttiva – a premere continuamente in questa
direzione. Non per caso, notava oltre un anno fa una testa sveglia come
Guido Rossi, “il connubio tra mercato e democrazia, con buona pace di tanti arroganti sacerdoti del neoliberismo, è storicamente tramontato”.
È pensabile affrontare un “tramonto
storico” con la strumentazione concettuale - "politica" compresa - nata
per accompagnarne l'alba? Cambiare passo e mentalità è sempre difficile,
ma è il minimo sindacale che dobbiamo fare...
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