Il capitale nel XXI
secolo di Thomas Piketty è un libro che a sinistra fa tendenza citare,
ma non è detto che chi lo fa lo abbia anche letto, visto che la versione
italiana consta di ben 928 pagine e richiede molta pazienza per
addentrarsi nella notevole quantità di grafici e tabelle sulla
distribuzione del reddito di cui è infarcito. Il reale valore del
volume. Su Scenari ne ha già parlato con appropriate
argomentazioni Andrea Zhok, il quale non mette però in discussione
l’impianto analitico del testo, ed è questo aspetto che può per qualche
verso giustificare questo mio contributo sul tema.
Piketty propone un’analisi – nei metodi, nei contenuti, nelle
conseguenze e, in parte, nelle ricette – simile a quella avanzata negli
anni ’70 da John K. Galbraith e ora da suo figlio James K. Galbraith, da
Amartya Sen in La diseguaglianza (1992) e da Joseph Stiglitz in Il prezzo della diseguaglianza.Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro
(2012), tanto che poco più che alla metà del volume l’economista
francese fa un’affermazione che evoca persino il sottotitolo di
quest’ultimo testo: «l’imprenditore tende inevitabilmente a diventare un
rentier sempre più dominante su coloro che non posseggono altro che il
proprio lavoro, il capitale si riproduce più velocemente dell’aumento
della produzione e il passato divora il futuro» (p. 571).
Per tutti questi economisti la questione è la dismisura del capitale,
cioè quando il capitale si fa rendita, non il capitale in quanto
relazione sociale e le conseguenze che da questa relazione derivano per i
soggetti che lo istanziano e per la struttura sociale nel suo
complesso. L’eguaglianza diventa così il parametro morale a cui fare
riferimento e il suo contrario la disfunzione a cui porre rimedio, e
viene denunciato il dato che le diseguaglianze economiche aumentano fino
a poter risultare «incompatibili con i valori meritocratici e i
principi di giustizia sociale su cui si fondano le moderne società
democratiche» (p. 26). Per Piketty il “capitale” è uno strumento a
disposizione degli esseri umani, ai quali compete unicamente la
responsabilità del suo cattivo o buono utilizzo.
Il successo commerciale di questo libro, rispetto alle precedenti
elaborazioni sulla diseguaglianza, si deve unicamente al titolo
evocativo del Capitale di Marx e alla trappola mediatica che da questo fatto si è innescata.
Piketty ha concentrato il suo lungo lavoro, durato più o meno
quindici anni, su una sola delle disfunzioni del sistema capitalistico e
sulle medicine per correggerla; non affronta da nessun punto di vista
la natura di questo peculiare sistema di produzione e sulla correità fra
le molteplici disfunzioni e il sistema stesso.
È indubbio che le iniquità nella distribuzione del reddito e della
ricchezza siano insieme una delle cause e uno degli effetti della
profonda crisi che da alcuni anni attraversiamo. Ma se ci si riferisce a
Marx questo non è il punto.
Marx non focalizza mai la sua attenzione sull’eguaglianza dei
redditi, poiché ciò che è intrinseco al sistema sono i para¬me¬tri, il
ritmo e la defi¬ni¬zione del lavoro, di ciò che di esso è van¬tag¬gioso e
di ciò che non lo è. Il miglioramento delle condizioni, se avvengono,
sono funzionali al sistema, anche se possono modificare la percezione
dello sfruttamento, allentandola o intensificandola, ma non modificarla,
rendendo comunque sempre più pervasivo e senza limiti il potente
processo di alienazione.
La sperequazione dei redditi è empiricamente rilevabile, ed è una
tendenza storica, tale per cui il tasso di ritorno del capitale è
generalmente superiore al tasso di crescita dell’economia, e dunque al
ritorno dei redditi da lavoro. Un processo che vede una sola grande
eccezione storica (1945-1975), quella del trentennio successivo alle due
Guerre Mondiali e nelle sole aree coinvolte nella ricostruzione. Si
tratta di dati a cui anche la teoria mainstream – quella alla
quale Piketty vorrebbe opporsi – attinge per dimostrare la spontanea
capacità del mercato di ridistribuire ricchezza. Una tesi che la mainstream estende a ogni epoca, mentre Piketty dimostra che questo fenomeno è circoscrivibile unicamente al periodo storico post bellico.
In riferimento a due categorie centrali di Marx, l’alienazione e il
feticismo, è significativo che la fase espansiva dei redditi abbia
prodotto soprattutto riflessioni concentrate sul “feticismo delle merci”
e generato una certa marginalizzazione del pensiero intorno
all’alienazione, in qualche modo a dimostrazione che una più equa
redistribuzione dei redditi modifica la percezione dello sfruttamento,
della sua natura e pervasività.
Secondo Marx più i rapporti di produzione si strutturano e inglobano
le varie dimensioni della vita, più il fascino del feticismo dei beni si
rafforza, non tanto per ragioni di natura psicologica, come il
desiderio ossessivo di possedere merci, quanto per l’inammissibilità di
avere accesso all’oggetto senza transitare per il suo valore, che è
artificiale, perché nel feticismo comunicare non sono le cose, ma il
sistema di simboli che tutte le esprime, il denaro. E’ l’alienazione che
genera il feticismo e non viceversa. Cosicché possiamo affermare che la
“dimensione monetaria” rappresenta il punto di partenza e il punto di
arrivo dell’intera riflessione teorica di Marx, cioè il denaro nella sua
forma monetaria.
L’analisi del denaro consente così di svelare quali siano i rapporti
sociali che si celano dietro quei «rapporti cosali tra gli individui».
Il denaro, nella funzione di capitale, mostra la sua vera natura di deus ex machina
dei rapporti sociali, sia in quanto simbolo reale e ideale di relazioni
di potere, sia come strumento necessario per la genesi e il fine dei
rapporti di produzione che stanno a fondamento di tali relazioni.
Un aspetto significativo del libro di Piketty è indirizzato alle
rendite e viene sottolineato il fatto che dopo le due guerre mondiali, e
in particolare quando l’Unione Sovietica viene individuata come il competitor rispetto al modello capitalismo, la gran parte dei Paesi europei introduce politiche economiche di welfare
e favorisce la redistribuzione della ricchezza, il che conduce a una
contrazione delle rendite (nota la proposta del 1974 di Claudio
Napoleoni di un’alleanza fra capitale e lavoro per ridurre le rendite,
quelle che vennero definite come le “riforme grano”). Per Piketty una
volta scomparsa per implosione politica l’Unione Sovietica – qui
l’economista francese si dimostra meno marxiano di molti osservatori
conservatori che riconoscono che l’implosione politica è stata
determinata da cause principalmente economiche – la rendita ritorna a
trionfare e così il libro denuncia l’esagerata disparità di rendimento
fra i singoli capitali, il che avrebbe dato vita ai “super-ricchi”, alle
differenze di salario per i singoli lavori generando i “super-manager” e
infine avrebbe agevolato il meccanismo di successione ereditaria che
trasferisce le “grandi fortune” da chi le ha accumulate, alle volte con
genialità e fatica, a discendenti, molto spesso, “senza qualità”. Una
tesi che ricalca quella avanzata dal filosofo politico liberal
Ronald Dworkin. Per Piketty il tutto porta verso una «società
ereditaria», che è l’opposto di una società meritocratica (p. 351).
L’economista francese si concentra sulla distribuzione, Marx sulla
natura del processo produttivo, tanto che per Marx è un’utopia quella
proposta da Proudhon, di voler riformare il processo di circolazione
conservando inalterato il processo di produzione capitalistico, dato che
la forma del primo dipende dalla natura del secondo. Marx destina gran
parte della sua riflessione al carattere necessariamente contraddittorio
dello sviluppo capitalistico, lo stesso fenomeno è, nelle
diverse fasi del ciclo economico, sia causa di sviluppo che causa di
crisi, per poi riconvertirsi nel suo contrario, infatti per lui la
stessa crisi mostra i limiti dell’accumulazione capitalistica ma ne è
anche il tipico «processo di risanamento».
Anche la rendita si inquadra in questa ottica marxiana: senza questa
non avremmo avuto sviluppo e occupazione. Un’argomentazione che vale
anche per la rendita finanziaria, che proprio in questa crisi ha
mostrato il suo ruolo cruciale nel rendere disponibile reddito
spendibile, ed è infatti grazie alla iperbolica inflazione di prodotti
legati sia la mercato mobiliare che al mercato immobiliare che è stato
possibile alimentare i consumi privati e pubblici in molti paesi, a
fronte di una perdita significativa del potere d’acquisto dei salari.
A dimostrazione che la crisi attuale è sostanzialmente culturale – si
intrecciano infatti crisi politica, economica e filosofica – sta il
fatto che la sinistra sembra ignorare totalmente il dibattito che ha
visto, sin dai primi anni dell’Ottocento, confrontarsi su questioni
molto simili a quelle che abbiamo ora di fronte. I protagonisti erano,
da un lato, i socialisti utopisti, gli anarchici socialisteggianti e gli
economisti classici, e dall’altro Marx. Il nocciolo della critica di
Marx verso tutti costoro consisteva nel fatto che il rapporto
capitalistico, il capitale, veniva assunto come un dato e non come una
questione da indagare.
Il testo di Piketty vorrebbe collocarsi non solo nella tradizione di
David Ricardo ma anche in quella di Adam Smith e di Marx, ma in realtà
si riferisce unicamente al primo, infatti viene marginalizzata la
dimensione storica, in quanto la forma del capitale per lui sarebbe
sempre esistita (p. 327) e il processo capitalistico non entra come
dimensione storica nei corpi degli individui, non si fa bios praktikos, bios theoretikos, bios politikos e non istanzia il zo’on politikon, in quanto potere ideologico, psicologico, economico e politico.
Per Piketty scompare magicamente la sostanza che conferisce ai mezzi
di produzione, al lavoro, alle merci e al denaro la loro esistenza in
qualità di capitale: il rapporto sociale capitalistico non appartiene ed
è inesistente per Piketty. Del resto ha lui stesso ammesso di non averlo letto
ed è per questo che nella sua riflessione è ininfluente e fa
affermazioni che rivelano la sua totale ignoranza sulle argomentazioni
del pensatore di Treviri, come quella dove afferma che: «Come gli autori
a lui precedenti, Marx ha del tutto trascurato l’eventualità di un
progresso tecnico durevole e di un costante aumento della produttività»
(p. 24). I soli concetti marxiani di plusvalore relativo, di
composizione organica del capitale e il suo Frammento sulle macchine testimoniano il contrario.
Piketty con il suo libro dà man forte a coloro che hanno indicato
nella sperequazione nella distribuzione del reddito la causa sovrana di
questa lunga e prolungata crisi – tesi che si è alternata a quella che
sostiene che sul banco degli imputati c’è la finanza e la produzione di
denaro tramite denaro -, ma avendo a disposizione per analizzarla
strumenti molto modesti ancor più modeste sono le misure che vengono
indicate per farvi fronte. Le medicine identificate sono funzionali
all’aumento dell’efficienza del mercato e alla riduzione delle rendite:
si tratta di aumentare le regole e di favorire un keynesismo privato,
cioè attuare misure che spingano gli investimenti privati e/o
l’introduzione di un salario minimo in modo da incoraggiare la domanda
interna.
Onde evitare che anche in futuro ci attendano gravi scompensi nel
sistema economico poiché «la prossima crisi o la prossima guerra …
sarebbero veramente globali» (p. 471), Piketty chiede d’intervenire
consapevolmente sulla propensione al risparmio riducendola mediante una
«imposta progressiva mondiale sul capitale accompagnata dalla massima
trasparenza finanziaria internazionale» (p. 515). Questo viene
presentato come lo strumento fiscale più adatto «per rispondere alle
sfide del XXI secolo rispetto alla tassazione progressiva del reddito
ch’è stata propria del XX secolo» (p. 473). Si tratta, a suo avviso, «di
fermare prima di tutto la crescita indefinita della diseguaglianza
della ricchezza e poi d’imporre una regolazione effettiva del sistema
finanziario e bancario che ne eviti le crisi» (p. 518). Consapevole del
carattere utopico della sua proposta consiglia di tentarne almeno una
introduzione a livello locale, «in particolare in Europa a partire dai
paesi meglio disposti ad adottarla» (p. 471).
Ma perché mai, resta da domandarsi, dovrebbe esserci convenienza
capitalistica a una riduzione del rapporto capitale/reddito che andrebbe
anche a danno dei rentier? Esso è infatti l’inverso del
“saggio massimo del profitto”, da intendersi come quel saggio di
rendimento capitalistico che si avrebbe «se i lavoratori vivessero
d’aria» e che nessun altro saggio di rendimento può superare perché ai
lavoratori viene in realtà pagato qualcosa. È questa la tematica
introdotta da Piero Sraffa in Produzione di merci a mezzo di merci (1960).
Piketty è convinto della sostanziale primazia del politico sull’economico e questo gesto “radicale” è il gesto più antimarxiano che si possa compiere. Propone un capitalismo dal volto umano, una Glasnost’ a cui deve seguire una perestrojka, che, come questa, si deve porre l’obiettivo della trasparenza, della lotta ai privilegi e alla corruzione in modo da riequilibrare la ripartizione dei beni. Le misure proposte sono tutti provvedimenti normativi e fiscali imposti dall’alto e infatti dalle 928 pagine emerge un totale disinteresse, e direi una sostanziale indifferenza, verso i movimenti sociali. Affiora piuttosto l’assillo per l’incapacità delle istituzioni di ridurre privilegi e diseguaglianze, che l’assillo per le diseguaglianze propriamente dette.
Piketty è convinto della sostanziale primazia del politico sull’economico e questo gesto “radicale” è il gesto più antimarxiano che si possa compiere. Propone un capitalismo dal volto umano, una Glasnost’ a cui deve seguire una perestrojka, che, come questa, si deve porre l’obiettivo della trasparenza, della lotta ai privilegi e alla corruzione in modo da riequilibrare la ripartizione dei beni. Le misure proposte sono tutti provvedimenti normativi e fiscali imposti dall’alto e infatti dalle 928 pagine emerge un totale disinteresse, e direi una sostanziale indifferenza, verso i movimenti sociali. Affiora piuttosto l’assillo per l’incapacità delle istituzioni di ridurre privilegi e diseguaglianze, che l’assillo per le diseguaglianze propriamente dette.
Marx, al contrario, si pone sul terreno delle merci, del lavoro e
dell’alienazione: vuole abolire queste relazioni e trasformare la
società. Del resto Walter Benjamin constatava che: «Quando Marx si
accinse all’analisi del modo capitalistico di produzione, questo modo di
produzione era ai suoi inizi. Marx orientò le sue ricerche in modo tale
che esse vennero ad assumere un valore di prognosi. Egli risalì ai
rapporti fondamentali della produzione capitalistica e li espose in modo
che da essi risultava che cosa ci si potesse aspettare in futuro dal
capitalismo» (Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1955, p. 19).
Per uscire da questa crisi – che non ha precedenti e si manifesta con aspetti e volti del tutto nuovi ma già indicati ne Il Capitale
– si tratta di capovolgere la logica e cominciare ad avere un pensiero
dal respiro lungo. Si tratta di far fronte alla crisi sul piano
culturale, in modo che vengano messi in campo argomenti che conducano
alla messa in comune degli investimenti, cioè a una creazione di valori
d’uso immediatamente sociali e a una socializzazione dell’occupazione;
argomenti che abbiano al centro il lavoro e la sua fuoriuscita dalla
dimensione individuale e che si prendano in carico il suo farsi
immediatamente dimensione sociale non alienata.
La questione davanti ai nostri occhi è quindi quella di immaginare, sia come bios theoretikos che come bios praktikos,
una forma sociale oltre il capitalismo; si tratta di iniziare a
immaginare le forme del conflitto e i soggetti incarnino la
rappresentazione di un possibile nuovo modo di vivere.
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