Questione morale . Un ruolo-chiave, in questo disastro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie
Nel venticinquesimo della morte ci
si ricorda finalmente di Leonardo Sciascia. Anche Sciascia lanciò
l’allarme. «La palma va a nord», scrisse: marcia alla conquista del
paese. Alludeva al modello siciliano d’impasto tra politica e mafia.
Un impasto nel quale dapprincipio la
mafia intimidisce e corrompe, poi penetra le istituzioni e si fa
Stato. Ripetutamente Sciascia mise in guardia dal rischio che
questo modello si generalizzasse. Oggi fingiamo di scoprire che
mafia e ‘ndrangheta si sono stabilite a Milano e controllano vasti
settori dell’economia nazionale. E guardiamo atterriti al nuovo
romanzo criminale della mafia romana, edizione aggiornata di
quell’universo orrendo che ruotava intorno alla banda della Magliana,
coinvolgendo anche allora mafia, politica e terrorismo
neofascista.
In questi trenta-quarant’anni non solo
non si è fatto argine contro il malaffare. Lo si è assecondato, lo
si è favorito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di craxiana
memoria. Della Milano da bere e del patto scellerato tra Stato
e capitale privato che aprì le voragini del debito pubblico
e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la politica usata
(con la complicità di gran parte della «sinistra») per salvare le
aziende di famiglia; la legalizzazione dei reati finanziari;
l’esplosione delle ineguaglianze. E vennero le «riforme
istituzionali» che, proprio per iniziativa della sinistra
post-comunista, diedero avvio allo stravolgimento
maggioritario-presidenzialistico della forma di governo disegnata in
Costituzione.
Il presidenzialismo negli enti
locali ha reso le istituzioni più fragili e permeabili ai clan
anche per effetto di un apparente paradosso. L’accentramento
monocratico del comando è andato di pari passo con la
disarticolazione dei partiti politici, culminata nella farsa
delle primarie aperte. Questo processo ha da un lato azzerato la
dimensione partecipativa e la funzione di orientamento
culturale svolta in precedenza dai partiti di massa; dall’altro ha
promosso una selezione perversa del ceto politico-amministrativo,
premiando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così
i partiti – soprattutto i maggiori – si sono ritrovati sempre più
spesso alla mercé delle consorterie e delle cupole, secondo un
meccanismo analogo a quello che in altri tempi permise a Cosa
nostra di comandare nella Palermo di Lima, Ciancimino e Gioia.
Ma un ruolo-chiave, in questo
disastro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedicente
liquidazione delle ideologie: l’avvento di una politica che si
pretende post-ideologica, che ha significato in realtà il congedo di
gran parte della sinistra italiana dalle lotte del lavoro e da una
prospettiva critica nei confronti degli spiriti animali del
capitalismo. Non è necessario, certo, essere comunisti per
comprendere che moralità e buona politica sono strettamente
connesse tra loro nel segno del primato della giustizia e del bene
comune. Né in linea di principio aderire senza riserve alle ragioni
del capitalismo impedisce di riconoscere l’importanza della
questione morale e di essere «onesti», per riprendere un lemma sul
quale si è ancora di recente dibattuto. Ma se della moralità
e dell’onestà non si ha una concezione povera e astratta, allora si
comprende facilmente che entrambe coinvolgono direttamente il modo
in cui si giudicano l’ingiustizia sociale e il persistere dei
privilegi. Non è un caso che, riflettendo sulla questione morale,
Berlinguer in quella stessa intervista parli proprio di questo.
Della necessità di difendere «i poveri, gli emarginati, gli
svantaggiati» e di metterli davvero in condizione di riscattarsi.
Non è un caso che rivendichi le lotte del movimento operaio e dei
comunisti, non soltanto contro il fascismo e con gli operai, ma
anche al fianco dei disoccupati e dei sottoproletari, delle donne
e dei giovani. Né è casuale che insista sulle gravi distorsioni, gli
immensi costi sociali, le disparità e gli enormi sprechi generati dal
«tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico». Per
concluderne che esso – «causa non solo dell’attuale crisi economica,
ma di fenomeni di barbarie» – deve essere superato, pena il
verificarsi di una catastrofe sociale «di proporzioni impensabili».
Oggi come allora la questione morale
investe frontalmente la politica anche per questa via: è una
faccia della sua complessiva degenerazione. Non si tratta
soltanto di illegalità, ma anche di irresponsabilità di fronte
alla devastazione sociale provocata da trenta e passa anni di
dominio del mercato, del capitale privato, dell’interesse
particolare. Questione morale e irresponsabilità sociale della
politica non sono, qui e ora, fenomeni indipendenti tra loro, bensì
manifestazioni della stessa patologia.
Alberto Burgio - il manifesto
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