Davvero
un buon Natale a tutti. Ero incerto se fare gli auguri visto che
viviamo perennemente dentro un’atmosfera fiabesca, con alberelli finti
pieni di luci intermittenti e un allegro gingle che parla di doni
futuri, dove ognuno ha una sua letterina inviata a un polo nord di
fantasia. Però alla fine delle promesse arriva solo carbone ed è dunque è
giusto un augurio consolatorio.
Quest’anno la fiaba di Natale è agrodolce: dentro un pacco avvolto in
carta lucida e pieno di fiocchetti, mandato dal job act, c’è soltanto
una presa in giro: guarda caso qualche giorno dopo la sua approvazione
salta fuori che i mattoni sui quali è stato costruito nemmeno erano di
argilla, ma solo disegnati alla meno peggio. Si è improvvisamente
scoperto che il costo del lavoro, spacciato come il più alto del
continente e insostenibile, non è il problema dell’Italia visto nel
nostro Paese è inferiore alla media europea: dunque l’aver scassato
diritti e tutele, l’aver puntato sul precariato e premiato le aziende
con gli sconti non è stato un regalo all’Italia, ma solo a
Confindustria.
E fosse solo questo: il dato nella sua cristallina evidenza figurava
da molti anni nelle statistiche Ocse, Istat, Eurostat, veniva anche
regolarmente pubblicato, ma anche immediatamente dimenticato in favore
di vetuste tesi padronali, risalenti addirittura all’epoca del
centrosinistra fanfaniano. Sarà forse perché l’informazione mainstream è
in mano al medesimo padronato? Così per quasi tre decenni il declino
del lavoro è stato giustificato con una tesi falsa, che è stata scoperta
ahimè solo dopo che l’articolo 18 è stato finalmente messo la orgo.
Forse Babbo Natale ci ha fatto davvero un regalo: dentro il pacco c’è un
invito agli italiani a svegliarsi e non farsi prendere il naso.
Però c’è anche un altro dono inestimabile che è stato subito messo
sotto l’albero con grande evidenza: la crescita impetuosa degli Usa che è
stata immediatamente arruolata nell’esercito della salvezza economica.
Purtroppo come dice Paul Craig Roberts, ex assistente al tesoro Usa e
Associate editor del Wall Street Journal, le cifre sul Pil “non hanno
alcun rapporto con la realtà”. E infatti quest’anno d’oro degli Usa,
iniziato con un tonfo nel primo trimestre ( a causa dell’inverno rigido,
si è detto) e conclusosi trionfalmente non trovano riscontro in un
aumento della produzione nella maggior parte dei settori, dei consumi o
salari: tutt’ora le famiglie americane hanno un reddito inferiore
dell’8% a quello del 2007, attestandosi sui valori del 1994, le vendite
al dettaglio rimangano incollate ai livelli del punto più basso della
crisi, il 2009, con la differenza che la logica del subprime si è
spostata dalla casa (che non decolla) all’auto. E’ vero che sono
aumentati rispetto al periodo più nero i posti di lavoro: la quasi
totalità dei posti riguadagnati è tuttavia di “qualità” assai più
modesta rispetto a quella precedente e mediamente prevede salari
inferiori della metà. Insomma la situazione economica si deteriora
strutturalmente, ma miracolosamente il Pil aumenta.
Dunque come si spiega il boom? In parte grazie alla sottostima
dell’inflazione, in altra parte in virtù della manipolazione statistica
che in Occidente è ormai la regola da un ventennio e per il resto con
l’aumento delle transazioni finanziarie, con la sostituzione dell’oro
fisico con quello cartaceo, altra contraffazione di mercato, con
l’utilizzo diffuso del quantitative easing della Fed per
“correggere” artatamente i bilanci, sfruttare il tasso zero dei prestiti
per alterare con operazioni di auto acquisto il valore delle azioni.
Tutto questo si riflette sul Pil che è ormai una misura del tutto
inattendibile delle economie soprattutto se non accompagnato da
correttivi che misurino anche la distribuzione della ricchezza. Infatti
la forbice aumenta spaventosamente e quel 5 per cento, in più, depurato
dai giochi di statistica e dall’auto referenzialità della finanza,
finisce in poche mani.
Ma in tanto c’è un pacco, nel vero senso della parola, bello
grande sotto i festoni e le lucine. Ma potete starne certi: non è per
voi.
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