Lo scontro politico interno a un giornale politico
in difficoltà è sempre doloroso, e sempre "mascherato" dalla necessità
per ognuno di interpretare al meglio "la continuità".
Lo scontro in genere verte sull'eredità, per captare il più
possibile del "lettorato" in una nuova impresa. La "maschera" vela
dunque le prese di posizione. Questo intervento, invece, pur tra molti
inevitabili "non detto", ci sembra faccia capire qualcosa di più. Sul
merito dello scontro e anche sulla necessità di aprire una nuova pagina
nell'"informazione di sinistra".
«COSA» SAREMO PRECEDE «DI CHI» SARÀ IL GIORNALE
Leggendo alcuni degli interventi pubblicati nei
giorni scorsi sul manifesto a proposito della nostra crisi viene da
chiedersi da dove chi li ha scritti abbia attinto le proprie
informazioni. I bersagli delle polemiche sono Rossana Rossanda e
Valentino Parlato, accusati di voler fare di questo giornale un bunker,
un organo di partito etc. Dove e quando i suddetti lo avrebbero
enunciato? La lettura degli ultimi loro articoli non ne trova traccia.
Rossanda delinea un vasto territorio da dissodare e pone questioni che
pesano come macigni scrivendo chiaramente che i parametri con i quali si
dovrebbe analizzare il presente non sono gli stessi di 30 anni or sono.
Parlato afferma che il manifesto ha perso la fisionomia che aveva in
tempi migliori e senza invocare né linee né partiti chiede che il
giornale si interroghi sulle origini della propria crisi e discuta del
che fare per uscirne in modo da continuare a vivere e non più
sopravvivere.
Tuttavia Rossanda e Parlato non sono soli. I loro interrogativi sono posti da tempo anche da altri che sono oggi dipendenti del manifesto o collaborano alla sua fattura dopo averci lavorato a tempo pieno per decenni. Nell'ultimo anno, ma anche prima della liquidazione, ogni tentativo di aprire la discussione sul presente e il futuro del giornale, considerata la situazione di rischio e fragilità in cui ci poneva uno stato di crisi ormai continuo, è caduto nel vuoto o, peggio, è stato accolto con insofferenza e talvolta con sospetto. Tanto che si è arrivati a rifiutare la pubblicazione di lettere che ponevano apertamente la questione. Gli stessi Circoli del manifesto possono dare testimonianza di questa sordità.
Ma questa straordinaria «forma della politica», come una volta ci piaceva definire il giornale, da tempo è in drammatico calo di vendite. In un momento storico di ulteriore mutazione globale, in cui l'Italia si trova di nuovo ad affrontare una transizione che ne cambierà i connotati, ha quasi raggiunto un minimo storico, una posizione marginale nel fare opinione che la sua storia non merita. È vero, i giornali di tutto il mondo annaspano in un tracollo senza precedenti, ma ciò non dovrebbe indurre ad accettare passivamente l'esistente o peggio a farsene un alibi. Se siamo arrivati a questo punto le responsabilità sono di tutti e non sono solo della attuale direzione e redazione. Parlarne poteva solo giovarci. Alla direzione però va addebitato il rifiuto di gestire la grave fase aperta dalla liquidazione coatta con la chiarezza e l'apertura necessarie ad affrontare una congiuntura che si preannunciava tragica. La crisi avrebbe potuto essere colta nel suo aspetto di opportunità ad aprire finalmente un confronto, anche con l'esterno, per capire gli errori, ripartire con forza e costruire la possibilità di un futuro diverso e migliore. Saremmo stati certo meno soli. Soprattutto, non era inevitabile lasciarsi dietro una scia di macerie, soprattutto umane. Come di fatto è avvenuto.
Le difficoltà, la cassa integrazione sono diventati alibi per impedire, magari inconsciamente e adducendo a motivo la tempesta che impazza, la formazione di una volontà collettiva. Dentro il processo di sterilizzazione dell'originale democrazia che sempre aveva regolato le relazioni tra di noi, a un certo punto è esplosa una sorta di caccia alle streghe nei confronti delle compagne e dei compagni che, potendo usufruire degli ammortizzatori garantiti dagli ultimi stati di crisi, avevano accettato di andare in pensione o in prepensionamento per ridurre il costo del lavoro. Pensavamo che l'isteria della rottamazione potesse essere lasciata fuori dalla porta del manifesto, ma non è andata così, non ci siamo risparmiati nulla. È difficile, per molti di noi, continuare la normale vita in un collettivo che ti rifiuta e arriva a dire che qualora un «pensionato» (mai avremmo pensato che al manifesto si arrivasse a identificare qualcuno così) venisse trovato davanti a un computer del giornale la federazione della stampa sarebbe stata informata che i non più dipendenti stavano togliendo lavoro ai dipendenti. Questo è già desolante, ma ancor più inaccettabile è che negli ultimi tempi coloro che si definiscono «quelli che fanno il giornale» si siano rifiutati di decidere democraticamente e in modo condiviso persino le modalità di costituzione della nuova, futura cooperativa.
Anche a causa di questa degenerazione, che ha mutato il senso profondo dell'esistenza del giornale al proprio interno, chiedersi oggi «che cos'è il manifesto?» rischia di trasformarsi in uno scontro indecoroso, fasullo, indegno di questa causa e reminiscente dei tempi peggiori delle liti a sinistra. Eppure la questione va finalmente posta e consegnata anche al fuori di noi, ai sostenitori, dei Circoli e non, ai collaboratori, ai lettori. Solo una risposta chiara a questa domanda porterà con sé anche la soluzione di un'altra questione fondamentale: «di chi» sarà il prossimo manifesto, quale potrà essere la forma proprietaria che meglio lo rappresenterà.
Noi pensiamo che il manifesto non potrà essere quello che è oggi. Limitarsi a rappresentare la sinistra plurale condanna alla frammentazione e alla marginalità dalle quali la medesima è afflitta. In discussione non è la prospettiva larga, che nessuno nega. Ma il punto di vista sì. Necessariamente forte e contro corrente. La difficile alfabetizzazione politica dei giovani è più che necessaria, ma richiede ben altra chiarezza riguardo al nostro ruolo, altri linguaggi, altri strumenti sui quali non ci siamo mai neppure interrogati. I nostri migliori collaboratori ci forniscono spunti straordinari di inchiesta che nella fattura del giornale non vengono raccolti. Ci diciamo tutti anti liberisti, ma non prendiamo di petto e non facciamo materia di indagine il problema centrale: perché, se le degenerazioni dell'economia e della finanza mondiale stanno dando ragione alle nostre analisi e previsioni, questa ragione non si è trasformata in una leva di cambiamento politico radicale, a livello istituzionale, nonostante l'azione dei movimenti? Dei partiti purtroppo sappiamo. Invece le soluzioni che si profilano puntano tutte a destra, con diverse ambigue coloriture. Intanto sprofondiamo nella più grave crisi della democrazia che si sia mai vista dopo la guerra mentre l'orologio della storia batte all'indietro e distrugge ogni salvaguardia di quello che Rossanda chiama il «fattore umano».
Siamo divisi e costretti, infine, a presentarci per quello che siamo. Ma non tutto è perduto se almeno si riconosce che l'esistente non è il migliore dei mondi possibile e si avvia un confronto. Quanto allo scopo di questo giornale, nel quale abbiamo vissuto e crediamo ancora, si riassume nell'ultima riga dell'ultimo editoriale di Luigi Pintor «Reinventare la vita, in un'era che ce ne sta privando in forme mai viste». Niente di più e niente di meno.
Angela Pascucci, Loris Campetti, Maurizio Matteuzzi, Guido Ambrosino, Riccardo Chiari, Marco Cinque, Astrit Dakli, Tiziana Ferri, Marina Forti, Galapagos (Roberto Tesi), Francesco Piccioni, Doriana Ricci, Roberto Silvestri
Tuttavia Rossanda e Parlato non sono soli. I loro interrogativi sono posti da tempo anche da altri che sono oggi dipendenti del manifesto o collaborano alla sua fattura dopo averci lavorato a tempo pieno per decenni. Nell'ultimo anno, ma anche prima della liquidazione, ogni tentativo di aprire la discussione sul presente e il futuro del giornale, considerata la situazione di rischio e fragilità in cui ci poneva uno stato di crisi ormai continuo, è caduto nel vuoto o, peggio, è stato accolto con insofferenza e talvolta con sospetto. Tanto che si è arrivati a rifiutare la pubblicazione di lettere che ponevano apertamente la questione. Gli stessi Circoli del manifesto possono dare testimonianza di questa sordità.
Ma questa straordinaria «forma della politica», come una volta ci piaceva definire il giornale, da tempo è in drammatico calo di vendite. In un momento storico di ulteriore mutazione globale, in cui l'Italia si trova di nuovo ad affrontare una transizione che ne cambierà i connotati, ha quasi raggiunto un minimo storico, una posizione marginale nel fare opinione che la sua storia non merita. È vero, i giornali di tutto il mondo annaspano in un tracollo senza precedenti, ma ciò non dovrebbe indurre ad accettare passivamente l'esistente o peggio a farsene un alibi. Se siamo arrivati a questo punto le responsabilità sono di tutti e non sono solo della attuale direzione e redazione. Parlarne poteva solo giovarci. Alla direzione però va addebitato il rifiuto di gestire la grave fase aperta dalla liquidazione coatta con la chiarezza e l'apertura necessarie ad affrontare una congiuntura che si preannunciava tragica. La crisi avrebbe potuto essere colta nel suo aspetto di opportunità ad aprire finalmente un confronto, anche con l'esterno, per capire gli errori, ripartire con forza e costruire la possibilità di un futuro diverso e migliore. Saremmo stati certo meno soli. Soprattutto, non era inevitabile lasciarsi dietro una scia di macerie, soprattutto umane. Come di fatto è avvenuto.
Le difficoltà, la cassa integrazione sono diventati alibi per impedire, magari inconsciamente e adducendo a motivo la tempesta che impazza, la formazione di una volontà collettiva. Dentro il processo di sterilizzazione dell'originale democrazia che sempre aveva regolato le relazioni tra di noi, a un certo punto è esplosa una sorta di caccia alle streghe nei confronti delle compagne e dei compagni che, potendo usufruire degli ammortizzatori garantiti dagli ultimi stati di crisi, avevano accettato di andare in pensione o in prepensionamento per ridurre il costo del lavoro. Pensavamo che l'isteria della rottamazione potesse essere lasciata fuori dalla porta del manifesto, ma non è andata così, non ci siamo risparmiati nulla. È difficile, per molti di noi, continuare la normale vita in un collettivo che ti rifiuta e arriva a dire che qualora un «pensionato» (mai avremmo pensato che al manifesto si arrivasse a identificare qualcuno così) venisse trovato davanti a un computer del giornale la federazione della stampa sarebbe stata informata che i non più dipendenti stavano togliendo lavoro ai dipendenti. Questo è già desolante, ma ancor più inaccettabile è che negli ultimi tempi coloro che si definiscono «quelli che fanno il giornale» si siano rifiutati di decidere democraticamente e in modo condiviso persino le modalità di costituzione della nuova, futura cooperativa.
Anche a causa di questa degenerazione, che ha mutato il senso profondo dell'esistenza del giornale al proprio interno, chiedersi oggi «che cos'è il manifesto?» rischia di trasformarsi in uno scontro indecoroso, fasullo, indegno di questa causa e reminiscente dei tempi peggiori delle liti a sinistra. Eppure la questione va finalmente posta e consegnata anche al fuori di noi, ai sostenitori, dei Circoli e non, ai collaboratori, ai lettori. Solo una risposta chiara a questa domanda porterà con sé anche la soluzione di un'altra questione fondamentale: «di chi» sarà il prossimo manifesto, quale potrà essere la forma proprietaria che meglio lo rappresenterà.
Noi pensiamo che il manifesto non potrà essere quello che è oggi. Limitarsi a rappresentare la sinistra plurale condanna alla frammentazione e alla marginalità dalle quali la medesima è afflitta. In discussione non è la prospettiva larga, che nessuno nega. Ma il punto di vista sì. Necessariamente forte e contro corrente. La difficile alfabetizzazione politica dei giovani è più che necessaria, ma richiede ben altra chiarezza riguardo al nostro ruolo, altri linguaggi, altri strumenti sui quali non ci siamo mai neppure interrogati. I nostri migliori collaboratori ci forniscono spunti straordinari di inchiesta che nella fattura del giornale non vengono raccolti. Ci diciamo tutti anti liberisti, ma non prendiamo di petto e non facciamo materia di indagine il problema centrale: perché, se le degenerazioni dell'economia e della finanza mondiale stanno dando ragione alle nostre analisi e previsioni, questa ragione non si è trasformata in una leva di cambiamento politico radicale, a livello istituzionale, nonostante l'azione dei movimenti? Dei partiti purtroppo sappiamo. Invece le soluzioni che si profilano puntano tutte a destra, con diverse ambigue coloriture. Intanto sprofondiamo nella più grave crisi della democrazia che si sia mai vista dopo la guerra mentre l'orologio della storia batte all'indietro e distrugge ogni salvaguardia di quello che Rossanda chiama il «fattore umano».
Siamo divisi e costretti, infine, a presentarci per quello che siamo. Ma non tutto è perduto se almeno si riconosce che l'esistente non è il migliore dei mondi possibile e si avvia un confronto. Quanto allo scopo di questo giornale, nel quale abbiamo vissuto e crediamo ancora, si riassume nell'ultima riga dell'ultimo editoriale di Luigi Pintor «Reinventare la vita, in un'era che ce ne sta privando in forme mai viste». Niente di più e niente di meno.
Angela Pascucci, Loris Campetti, Maurizio Matteuzzi, Guido Ambrosino, Riccardo Chiari, Marco Cinque, Astrit Dakli, Tiziana Ferri, Marina Forti, Galapagos (Roberto Tesi), Francesco Piccioni, Doriana Ricci, Roberto Silvestri
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