mercoledì 26 febbraio 2014

Il presidente della porta accanto —Michele Prospero, Il Manifesto


Con la sua sur­reale mon­ta­gna di parole, Renzi ha par­to­rito il piso­lino. E i segni incon­te­ni­bili della noia si avver­ti­vano anche tra i suoi sena­tori, incre­duli dinanzi a tanta vuo­tag­gine. L’attenzione alla postura delle mascelle, il sor­riso stam­pato in fac­cia non sono bastati per un discorso all’altezza del ruolo di governo che si accinge a rico­prire e in sin­to­nia con il luogo isti­tu­zio­nale che l’ospitava. Ha citato subito la Cin­quetti (al Qui­ri­nale il poli­tico pop aveva evo­cato Celen­tano), il «ragazzo» pre­si­dente che gioca molto sull’età.
Ma, alla fine della sua disa­dorna espo­si­zione, rim­bal­zano piut­to­sto le note amare di Bat­tiato, quelle un po’ stra­zianti sulla povera patria. A Palazzo Madama, dopo la scialba prova ora­to­ria, resta scol­pita l’impressione fer­rea del nulla, del pesante nulla però che si inse­dia al potere in un tempo di crisi che non lascia alcuno scampo.
Non basta mostrarsi scat­tante in bici­cletta, sgom­mare in Smart nei vicoli di Roma, muo­versi a piedi alla ricerca di un ago­gnato bagno di folla per il poli­tico che non ha nep­pure biso­gno di scorta, per rap­pre­sen­tare dav­vero il nuovo. Il mito futu­ri­stico della velo­cità, la trita reto­rica del sin­daco con­creto per­ché estra­neo ai palazzi romani, si con­ver­tono nel fia­sco ora­to­rio del ragazzo pre­si­dente. L’argomentare povero di Renzi stride visi­bil­mente con la riven­di­ca­zione del ruolo della lea­der­ship.
Un discorso privo di un ele­vato senso poli­tico, il suo, carente anche di con­nes­sione logica, a digiuno di svi­luppi ana­li­tici, di indizi di auto­re­vo­lezza. Degno della povertà cul­tu­rale di un tempo di grande deca­denza, il suo elo­quio privo di guizzi e senza pathos (non evo­cano una con­nes­sione sen­ti­men­tale il richiamo alle sven­ture del povero Lorenzo o la tele­fo­nata all’amico disoc­cu­pato) rivela la fol­lia pro­fonda di un paese che mescola comico e tra­gico, leg­ge­rezza e senso della caduta alla ricerca di un capo cari­sma­tico riso­lu­tore.
Un raro momento di verità si tocca in aula quando Renzi ricorda che dome­nica andando alla messa una par­roc­chiana lo ha avvi­ci­nato e gli ha detto «se lo fai tu, tutti dav­vero pos­sono diven­tare pre­si­denti del con­si­glio». Ecco, nell’episodio rac­con­tato, si trova tutta la sub­dola forza ma anche la debo­lezza della stra­te­gia reto­rica pre­scelta dal nuovo segre­ta­rio fio­ren­tino. Egli punta sul facile mec­ca­ni­smo della iden­ti­fi­ca­zione imme­diata di un capo con il pub­blico (da qui anche la demo­niz­za­zione della buro­cra­zia, la bur­le­sca raf­fi­gu­ra­zione della mac­china statale).
E, per accor­ciare visi­bil­mente la distanza del capo con la folla, evoca la verità che si disvela pie­na­mente non tra le élite e gli odiati poteri costi­tuiti ma nei bei «mer­cati rio­nali». Così ottiene un con­senso pas­sivo di un pub­blico disar­mato con­qui­stato alla causa per l’accantonamento delle soglie di vigi­lanza cri­tica. Chi ascolta è coin­volto ad arte nell’illusione che dal lea­der nuovo nulla ha da temere. Lui non è un potente estra­neo (quelli sono stati già rot­ta­mati) ma è un amico del popolo, un gio­va­notto alla mano da cui è vano difen­dersi con stra­te­gie cogni­tive vigili, non è un poli­tico sepa­rato ma un corpo che si muove e sente le cose pro­prio come uno di noi.
Que­sta pene­tra­zione negli umori della folla con­fi­dando nei mec­ca­ni­smi misti­fi­canti della iden­ti­fi­ca­zione asso­luta, è il cor­redo tipico del reper­to­rio comu­ni­ca­tivo del lea­der popu­li­sta. Il quale però, una volta gio­cata la carta della sua vici­nanza orga­nica con la gente, ha biso­gno pure di mostrare i segnali della sua supe­rio­rità di capo rispetto agli altri. Senza ren­dere per­ce­pi­bile la sua spic­cata dif­fe­renza, cioè senza mostrare quelle doti poli­ti­che uni­che che sole giu­sti­fi­cano una dif­fusa cre­denza cari­sma­tica circa le sue attri­bu­zioni di pote­stà, la comu­ni­ca­zione non fun­ziona. Nes­suno è rico­no­sciuto come lea­der da col­lo­care al comando solo per­ché è un ragazzo che bal­betta come gli altri, e tutti chia­mano Matteo.
Ecco, il guaio del poco lusin­ghiero pas­sag­gio par­la­men­tare di Renzi risiede nel fatto che a lui rie­sce age­vole con le meta­fore, con i sim­boli, con le imma­gini discen­dere rapi­da­mente al livello pigro dell’uditorio post-ideologico odierno. Ma, pur­troppo, non ha in dote le risorse poli­ti­che neces­sa­rie per farsi apprez­zare come uno sta­ti­sta auten­tico che è capace di pen­sare qual­cosa di più pro­fondo che la bel­lezza del «ram­men­dare le periferie».
La prima regola della reto­rica ari­sto­te­lica clas­sica è quella di modu­lare le corde del discorso a seconda dei carat­teri del desti­na­ta­rio. E poi­ché il senato della Repub­blica non è ancora la Leo­polda, il chiac­chie­ric­cio di un discorso sopo­ri­fero e non strut­tu­rato non si addice a un pub­blico di poli­tici esperti che non si lascia certo cat­tu­rare dall’annuncio che ogni mer­co­ledì farà visita a una sco­la­re­sca.
Die­tro il cla­mo­roso fia­sco del discorso di Renzi, da una parte si nasconde l’esaltazione ingiu­sti­fi­cata delle pro­prie doti nell’improvvisazione bril­lante rite­nuta di per sé in grado di scon­fig­gere ogni osta­colo. E, dall’altra, si occulta il dispre­gio per la qua­lità della sede isti­tu­zio­nale che ospi­tava l’evento e che si atten­deva un discorso dalla rigo­rosa strut­tura for­male, dallo sforzo inter­pre­ta­tivo ele­gante, come si con­viene in un pas­sag­gio isti­tu­zio­nale fina­liz­zato alla fidu­cia del governo.
Salito al potere senza aver mai par­lato in una assise di par­tito o in un’aula par­la­men­tare, insomma al cospetto di un pub­blico che sa di poli­tica, il dise­gno reto­rico di Renzi nau­fraga nel giorno più impor­tante. Forse le sue ina­de­guate parole mostrano già quello che Hei­deg­ger chia­mava il carat­tere evo­ca­tivo dell’inizio.

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