Il catastrofico esordio di Matteo Renzi al Senato
pone un inquietante interrogativo. È frutto solo di supponenza e
inesperienza? O c’è dell’altro? Di certo, nell’aula di Palazzo Madama,
si è celebrato un divorzio.
Prima per il modo deludente, sconclusionato, dilettantesco dell’attesissimo discorso (“senza capo né coda” è stato definito).
Poi per l’aggressività della replica. Lucia Annunziata ha parlato addirittura di uno “scontro violento pericolosamente avvicinatosi a una rottura non formale”. E si è chiesta: “Può
il Senato fischiare un premier, e può un premier accusare una camera di
eletti di non rappresentare i cittadini che li hanno eletti?”.
Se un “lieto fine” (si fa per dire) c’è stato – se la
fiducia è stata votata come da copione – lo si deve, secondo la
direttrice di Huffington, solo all’opportunismo incrociato dei Senatori
(che hanno votato contro coscienza) e del Presidente del Consiglio (che
ha accettato quel voto nonostante il disgusto).
Ma la domanda (inquietante) rimane: che cosa sta succedendo nel cuore del nostro assetto istituzionale?
Perché lunedì qualcosa è successo. Un colpo – un colpetto – non di stato ma dentro lo Stato.
Come definire, altrimenti, quel discorso pronunciato
dentro l’aula di Palazzo Madama, ma in realtà rivolto al di fuori di
essa, non ai Senatori ma a quella che egli considera la “gente”?
Quello era l’intento (consapevole o meno) di Renzi. Il senso della mano in tasca.
Del parlare a braccio. Persino del basso profilo e della genericità del
discorso: bypassare la cerchia dei rappresentanti per rivolgersi alla
platea generica che considera il “suo” popolo. Persino umiliare i primi,
per dare soddisfazione ai secondi. Strizzare l’occhio alla platea
generica che l’ha proclamato (extra moenia) a danno dei 315 che ne
stanno dentro, declassati a “casta”. A zavorra ostile da rottamare. E
infatti le quasi unanimi critiche e la freddezza degli “addetti ai
lavori” (i professionisti della politica e dell’informazione)
contrapposte ai più ampi consensi nei post inviati in rete nei siti dei
principali quotidiani e dello stesso Huffington, sembrerebbero dargli
ragione. E aumentare l’inquietudine.
Un Capo dell’Esecutivo che si rivolge direttamente al
popolo contro un ramo del Legislativo che egli stesso si prepara a
licenziare, non si era mai visto.
È come se Grillo si fosse insediato a
Palazzo Chigi e di lì si preparasse a mobilitare la “sua rete” per
“mandarli tutti a casa”. Con una differenza: che Grillo, nonostante
teorizzi il “non partito”, un suo partito ce l’ha, o quantomeno un gruppo parlamentare (sia pur gestito a modo suo), un corpo collettivo che sia pure a denti stretti in maggioranza lo segue.
Renzi no.
Nonostante le conversioni tardive e diffuse al suo
credo (paragonabili per repentinità ed estensione a quelle dei
parlamentari di Kiev dopo la rivolta), non può contare sulla fedeltà dei
suoi gruppi parlamentari. E dello stesso corpo organizzato del PD. La
sua legittimazione l’ha avuta proprio “contro” quel corpo organizzato,
quella pletora di “nominati” e di funzionari che ora dichiarano di
volerlo servire. Contro quell’assetto del partito che, grazie al
Porcellum, aveva scelto i parlamentari a propria immagine e somiglianza.
Deve – e dovrà – la sua popolarità alla sua capacità di distinguersi da loro. E di umiliarli (come appunto ha fatto al Senato).
Cosicché, invece del capitano coraggioso sul ponte di comando esposto alle intemperie dovrà, penetrato nel sancta sanctorum del sistema, limitarsi
al duro lavoro della talpa famelica che scava nel tessuto marcio della
rappresentanza, strizzando l’occhio al pubblico di spettatori che
l’osserva dall’esterno.
Un uomo solo al comando, comunque.
Un Capo, e il suo popolo. È la forma inedita che il populismo
va assumendo in Italia: un “populismo istituzionale”, fondato sul
transfert leader-massa, sulla magia del linguaggio e sul mito
dell’energia. Che rappresenta plasticamente il modo con cui la crisi
del partito politico (dell’unico partito formalmente rimasto sulla
piazza, il Partito Democratico) penetra nel cuore dello Stato attraverso
il veicolo del suo Segretario.
Sembrerebbe, ad occhio e croce, una mission
impossibile. Chiedere a trecento e passa senatori di firmare il proprio
licenziamento senza batter ciglio (avendoglielo brutalmente annunciato
in pubblico). Chiedere ai morti e ai feriti che ha lasciato a terra
lungo la via della sua ascesa di balzare in piedi come un sol uomo a
combattere per lui. Controllare la doppia maggioranza che si è creato,
una sull’asse con Berlusconi l’altra su quello di Alfano, sapendo che
ognuno dei due vorrebbe distruggere l’altro ma che in caso di sua caduta
potrebbero allearsi tra loro. Aspettare l’eutanasia della casta, senza che questa trascini con sé, come Sansone, anche tutti i filistei (che nel sue entourage abbondano). Impensabile.
A meno che sull’altro piatto della bilancia non ci
sia un patto occulto con tutto ciò che conta fuori e contro il
Parlamento (e c’è molto, e assai invelenito, e attrezzato). In questo
caso potrebbe anche farcela a passare il guado.
Ma sull’altra sponda del Rubicone non ci sarebbe più
la Roma repubblicana di prima. E neppure lo straccio di democrazia che
ancora ci è rimasta, bensì un goliardico plebiscitarismo da messo
comunale, esposto al vento di una crisi che non ha smesso di infuriare.
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