La politica espansiva americana, che si gonfia e si sgonfia provocando bolle (finanziarie), contro quella “sparagnina” dell’Europa. Ma l’una e l’altra hanno un tratto in comune: affidarsi solo alla moneta per risolvere i guai dell’economia. Ma se non si torna a un ruolo attivo della politica non se ne esce.
Ma quant’è brava Janet Yellen, nuova governatrice della Federal Reserve statunitense! E quant’è miope la Bundesbank tedesca! E meno male che c’è Mario Draghi (governatore della Banca centrale europea) che condisce in salsa Usa la broda tedesca!
Sono questi i giudizi formulati – in bizzarra sintonia – sia dai “mercati” (al plurale), sia dalla sinistra. Per una volta concordano il portavoce della City, il Financial Times, con i suoi opinionisti Wolfgang Münchau e Martin Wolf (ambedue ferocemente anti Angela Merkel), e la corrente neokeynesiana di Paul Krugman (premio Nobel per l’economia e columnist del New York Times).
Certo, sulla scia del suo predecessore Ben Bernanke, Yellen continua a riversare fiumi di liquidità sull’economia mondiale, mentre la Bundesbank (Buba) fa la sparagnina, soffrendo per ogni euro che dovrebbe uscire dalle sue casse (tranne quando si tratta di salvare le banche tedesche). E certo, le cifre del Prodotto interno lordo (Pil) dicono che negli Usa una ripresa c’è stata, la disoccupazione è diminuita seppur di poco, mentre l’Europa si sta avvitando in una deflazione recessiva (o in una recessione deflattiva).
Ma non è tutto oro quello che brilla. Negli Usa i disoccupati sono sì diminuiti da un massimo del 10% (nel gennaio 2010) al 6,2% di oggi, ma nel frattempo la forza lavoro attiva (cioè che lavora o è in cerca di lavoro) è scesa dal 66 al 63%, ovvero: 7 milioni di americani hanno rinunciato a cercare lavoro (senza contare che le statistiche sulla disoccupazione Usa sono falsate da 2,3 milioni di carcerati).
Per di più il reddito medio del 90% delle famiglie americane è tutt’oggi inferiore a quel che era prima della crisi (il reddito mediano era di 54.000 dollari nel 2007, ora è di 52.000).
Ma come è possibile che il Pil aumenti mentre la gran maggioranza è più povera? Molto semplice: perché la crescita del Pil è dovuta al reddito del 10% più ricco che non solo compensa le perdite del 90% più povero, ma le supera fino a portare il bilancio in attivo. Ciò non è dovuto alla naturale ingordigia dei ricchi (o non solo), ma è un effetto della massiccia immissione di liquidità da parte delle banche centrali, operazione chiamata quantitative easing e che consiste sostanzialmente nell’usare la planche à monnaie, a stampare banconote, anche se con una zecca virtuale.
Si può ricordare che Bernanke veniva affettuosamente chiamato “Helicopter Ben” perché, citando Milton Friedman, aveva detto per superare una recessione, l’unica è salire su un elicottero e cominciare a buttare giù dollari.
Intanto bisogna dare la dimensione del fenomeno: dal 2008 la Federal Reserve (Fed) ha immesso liquidità (a vari titoli) per più di 5 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari, equivalenti al 30% del Pil Usa; la Banca centrale del Giappone ne sta immettendo dall’anno scorso 1,4 trilioni (circa un quarto del Pil nipponico); la Banca centrale inglese ha immesso più di un trilione di dollari (più del 40% del Pil britannico). E poi ci sono gli euro che quatta quatta ha immesso la Bce. Insomma stiamo parlando di una nuvola di 8-10 trilioni di dollari che vaga lassù nel cielo e non sa dove spiovere.
Certo questi dollari non hanno creato né nuove industrie né posti di lavoro nei paesi avanzati; sono finiti nelle banche e nelle istituzioni finanziarie che non sapevano dove investirli. Con una parte hanno comprato azioni (infatti gli indici delle borse mondiali sono ai massimi storici nonostante le economie soggiacenti siano depresse); un’altra parte l’hanno investita in materie prime su cui la speculazione ha giostrato prima degli attuali realizzi; infine un cospicuo flusso si è riversato nei paesi emergenti che assicuravano profitti più appetibili.
Ma le banche non possono continuare in eterno a stampare moneta che non corrisponde a nessuna economia reale soggiacente. Se non smettono, si crea un’altra bolla speculativa destinata a scoppiare, con nuovi fallimenti azionari e con il ciclo dei salvataggi che riparte. Se però, al contrario, cessano d’inondare i “mercati” di liquidità, la bolla delle materie prime si sgonfia (come sta già avvenendo), i corsi azionari calano e soprattutto fanno plof i paesi emergenti la cui crescita si era basata sull’afflusso di capitali a buon mercato: una volta iniziato il riflusso, la risacca lascia i Bric come relitti sul bagnasciuga: era successo per le “tigri asiatiche”, poi per quelle “celtiche”, poi per la Spagna, ora lo stesso destino si profila per Turchia, India e altri emergenti paventano di essere ri-sommersi: per parafrasare Marcello De Cecco, “Come nella Commedia dell’Arte, questo copione ammette varianti, ma il canovaccio resta sempre lo stesso.”
Insomma, la tanto osannata strategia dei Bernanke e della Yellen si rivela, come si dice in inglese, the more of the same, non una soluzione dei problemi, ma un ripetizione dello stesso ciclo a ritmo sempre più ravvicinato.
Non ci vuole un Einstein per capire che il problema non sta nelle strategie di Bernanke,Yellen, Draghi o Jens Weidman, che in realtà fanno il loro mestiere e usano le sole armi di cui dispongono e cioè agire sui tassi d’interesse e/o stampare moneta o bruciarla. Basterebbe riconoscere che la crisi non è risolvibile se non ricostituendo il potere di acquisto della grande maggioranza dei consumatori, mentre l’economia globale ha creato una situazione in cui chi produce (Cina e in parte Germania) non consuma (o consuma poco), mentre chi consuma non produce.
L’economia reale non riparte se non si espande una domanda solvibile, che però resta al palo se non crescono i redditi, il che può avvenire solo per due vie: o accrescere la massa dei salariati, o aumentare i salari (anche offrendo lavori meglio retribuiti) non solo in termini monetari, ma di benefits, assistenza sanitaria, sussidi scolastici, abitativi. Con il vantaggio che così si allargherebbe la base imponibile e si potrebbe alleviare la crisi fiscale degli stati.
Ma per fare questo bisognerebbe uscire dal paradigma monetarista in cui siamo immersi fino al collo e che, come dice il termine stesso, consiste nel credere che l’unica azione possibile (e auspicabile) da parte degli stati sia quella di agire sulla moneta. Ma questo vorrebbe dire restituire l’economia alla politica e salutare per sempre Milton Friedman. Un passo che nessuno sembra pronto a compiere. Il problema è che la Commedia dell’Arte faceva ridere, questa nuova versione lascia lutti e rovine.
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