Il deficit originario di Karl Marx
1. Ciò che di Marx oggi non è più possibile accettare non è
certamente la critica dell’economia – che invece trova sempre più
conferme – quanto l’antropologia e la filosofia della storia che ne
consegue. In buona parte dell’opera di Marx c’è infatti un deficit profondissimo
di analisi e comprensione della soggettività, che ha avuto conseguenze
assai negative nelle storie dei movimenti operai e delle emancipazioni
sociali che si sono richiamate al marxismo.
Un deficit, la cui presenza è sempre stata espressa, e insieme
dissimulata, proprio dal suo opposto, qual è la teoria
dell’onnipotenza del soggetto che Marx ha posto a base della sua
filosofia della storia e della rivoluzione.
La tesi fondamentale del materialismo storico è, com’è noto, quella
della contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali di
produzione. La storia, secondo questa prospettiva, passa da una
formazione economico-sociale all’altra ogni qual volta lo sviluppo delle
capacità costruttive dell’homo faber (la cui accumulazione
costituisce il filo rosso e il polo positivo di continuità tra le varie
epoche) trova impedimenti non ulteriormente compatibili con la sua
crescita.
Lo sviluppo delle forze produttive, della tecnologia, della scienza, ciò che in una pagina dei Grundrisse
Marx definisce il general intellect, costituisce il fondo permanente
di valore, la sostanza e il soggetto della storia, il fattore
d’integrazione che più propriamente unifica e universalizza il genere
umano. Mentre, di tale progresso ed evoluzione storica, le varie forme e
istituzioni politiche, le varie forme di proprietà e di relazioni tra
classi, costituiscono solo il lato, certamente ineliminabile, ma
variabile e transeunte, pronto ad entrare appunto in una contraddizione
anacronistica con lo sviluppo della vera soggettività.
In tale sorta di gigantismo prometeico e di mito positivistico, ante litteram, del progresso, il soggetto della storia è dunque essenzialmente il lavoro,
visto da un lato come capacità di confronto e di affermazione
inesauribile del genere umano e della sua superiorità sul mondo naturale
e dall’altro come fattore intrinseco di socializzazione e di
universalizzazione degli essere umani. Non c’è bisogno perciò di una
teoria della rivoluzione, e di tutti i problemi che essa comporta ed
apre sul fronte della costruzione di una soggettività politica, dato che
una soggettività collettiva e comunitaria, senza i vizi dell’egoismo
e dell’individualismo, è posta e prodotta nell’atto stesso del
lavorare e del produrre e pronta di lì a riappropiarsi di tutte le
espropriazioni, fino a quello sviluppo incontenibile delle forze
produttive messo in atto dalla modernità che non può non evolvere e
concludersi nel comunismo.
Da tale messa in valore dell’homo faber, dell’uomo della
prassi, nasce lo schematismo riduzionistico del materialismo storico
(con la semplicistica articolazione di struttura e sovrastruttura), e,
in pari tempo, un’antropologia fabbrile fusionale e gruppale, in cui non
v’è spazio alcuno per l’individuo e le sue differenze rispetto alla
superiorità e all’organicità del collettivo.
2. Ora, il paradosso di fondo dell’opera di Marx è che la
medesima disposizione teorica antindividualistica, quando si trasferisce
da una filosofia della storia predestinata a uno sbocco palingenetico
ad uno studio, invece, approfondito e sistematico della modernità
attraverso la maturità della critica dell’economia politica, produca,
non più metafisica antropocentrica e produttivistica, ossia ideologia, bensì conoscenza e, più propriamente, scienza. E tutto ciò essenzialmente perché con il Capitale
Marx scopre che al fondo della società moderna si colloca l’agire di
un soggetto non antropomorfo, qual è quello di una ricchezza astratta,
di natura solo quantitativa, il cui fine unico ed assoluto è quello di
accumulare la propria quantità, asservendo a tale scopo l’intero mondo
dell’esistenza concreta e qualitativa. Ha scoperto cioè, proprio a
muovere dalla matrice antindividualistica del suo pensare, che l’essenza
del capitale consiste in una connessione obbligata di passaggi e
funzioni, di protocolli di comportamento, la cui intima necessità non
dipende dalla scelta e dalla volontà degli esseri umani (quale che sia
l’ambito produttivo e merceologico in cui il singolo capitalista sceglie
di operare), ma appunto dal carattere astratto e impersonale della
ricchezza in questione, la cui natura solo quantitativa non può che
imporre all’intero processo, perché abbia un senso, l’obbligo della
propria crescita: con l’assimilazione di tutto ciò che in tale processo
entra a far parte ad una logica appunto che è, in pari tempo, di
accumulazione quantitativa e di estenuazione qualitativa.
In tal senso non è un caso che nel Capitale i soggetti umani
compaiano come privi di ogni rilievo e autonomia personale, ossia non
come soggetti dotati di libera volontà e capaci con la loro iniziativa
di modificare il corso delle cose, bensì solo come Charaktermasken,
cioè maschere teatrali, che rappresentano solo personificazioni di
ruoli e funzioni economiche. E appunto su tale unificarsi dell’intero
universo socio-economico sul paradosso di una quantità in processo, di
una quantità nel suo processo incontenibile e sempre più ampio di
valorizzazione, si fonda l’oggettività e l’obbligo di quella logica
scientifica che è peculiare del Marx dei Grundrisse e del Capitale.
Logica che è dunque logica di un soggetto peculiarissimo, che, per la
sua natura impersonale, agisce quasi come un soggetto inconscio (ma del
tutto diverso dall’inconscio di Freud e della psicoanalisi), che
obbliga e curva, nel suo agire, contenuti, forme e stili di vita dei
singoli individui.
Tale logica, modificando profondamente l’ottica precedente di Marx ,
non mette più a tema il lavoro nel senso dell’espressione delle virtù
nobili e creatrici dell’essere umano e del “genere” di cui è membro:
bensì intende ora, con una modificazione categoriale fondamentale, per
lavoro l’uso della forza-lavoro. Aprendo così quel dualismo, nel mondo
moderno, tra sfera dell’essenza e sfera dell’apparenza, che,
disconosciuto o rifiutato da tutta la scienza economica, neoclassica,
neoricardiana, keynesiana che sia, costituisce invece la rivendicazione
di verità caratteristica e propria del solo marxismo.
Infatti che il lavoro sia interpretabile solo come sinonimo di uso della forza-lavoro
apre una differenza ontologica tra i due ambiti fondamentali in cui si
articola la sfera dell’economia: ossia tra la sfera del mercato, o
sfera della circolazione, e la sfera della produzione. Mentre la prima
per Marx ha come principio costituzionale quell’ dell’equivalenza, e
dunque quello dello scambio tra liberi ed eguali, la seconda ha come
principio costituzionale quello del comando e del dominio, ossia il
principio della diseguaglianza e dell’oppressione. Mentre l’acquisto e
la vendita di forza-lavoro sono compiuti e scanditi secondo libertà ed
eguaglianza (ed infatti è mediato dal denaro), l’uso
capitalistico della forza-lavoro, cioè l’organizzazione del processo di
lavoro, è usufruito in modo privato e personale dai rappresentanti del
capitale (e infatti non è mediato da denaro).
Così da tale compresenza di piani di realtà retti da princìpi
costituzionali profondamente diversi, anzi opposti, Marx può dedurne una
natura intrinsecamente dialettica della società contemporanea, basata,
a mio avviso, non sulla contraddizione, ma sulla dissimulazione
che intercorre tra essenza ed apparenza: nel senso che l’essenza della
società moderna, che trova il suo principio nell’essere costituita da
un rapporto di classe tra diseguali, appare alla superficie della
medesima società, e dunque al senso comune generalizzato, secondo
l’apparenza di un rapporto sociale tra eguali.
3. Questo passaggio dal marxismo della contraddizione al marxismo della dissimulazione e dell’astrazione,
ovviamente, non è stato mai teorizzato in modo esplicito e
consapevole, dallo stesso Marx. E’ un mio modo di estrarlo dall’opera e
dai testi di Marx, mettendo Marx contro Marx e ponendo a principio
della storia, complessa e travagliatissima, dei marxismi,
l’autofraintendimento scientifico del padre fondatore.
I grandi pensatori, che scoprono territori nuovi, hanno spesso, come
si sa, una coscienza contraddittoria della loro originalità e si
trovano a spiegare il nuovo secondo un linguaggio ancora inadeguato, che
appartiene all’antico. Il caso più celebre è probabilmente quello di
Freud che ha sempre voluto ricondurre e legittimare la sua scoperta
dell’inconscio con i parametri della scienza classica, deterministica e
quantitativa, della natura, mentre la sua opera teorica e clinica
apriva un’ambito dell’esperienza umana, per la natura intrinsecamente dualistica ed ambivalente del movimento pulsionale, per nulla riducibile a canoni quantitativo-deterministici[1].
La stessa cosa, a mio avviso, è accaduta con Marx. Questi con il Capitale ha scoperto l’operare, per la prima volta nella storia dell’umanità, di un soggetto sociale non antropomorfo
costituito da una ricchezza astratta, di natura solo quantitativa, non
può che imporre all’intero processo di riproduzione della vita,
individuale e collettiva, perché abbia un senso, l’obbligo della propria
crescita; con l’assimilazione di tutto ciò che di tale processo entra
a far parte della sua logica di crescita della quantità e di
estenuazione della qualità.
Solo che il Marx della maturità ha sempre frainteso e occultato, in
primo luogo a se stesso, la scoperta di questa paradossale astrazione
reale attraverso il linguaggio umanistico e antropologico della sua
opera giovanile. Si può dire infatti – ma senza cadere nella rigidità di
rotture epistemologiche troppo pesantemente strutturalistiche e
logicistiche alla L. Althusser -, che vi siano essenzialmente due Marx:
il Marx dell’alienazione e della contraddizione e il Marx dell’astrazione reale.
Il primo parte da quella che oggi si chiamerebbe una metafisica del
soggetto, cioè dalla centralità di senso attribuita nell’ambito della
natura e della storia all’uomo produttore, che con la sua prassi
(lavoro) sarebbe potenziale e incondizionato dominatore della natura e
della storia e che invece per divisioni intestine al genere umano
(divisione in classi) aliena la sua produttività in relazioni sociali
che lo espropriano e lo limitano. E’ il Marx cioè che muove dalla bontà
dell’homo faber, presupposto come soggetto così
incondizionatamente ricco e pieno di valore che il suo svuotamento e la
sua repressione (alienazione) non potranno che essere temporanei, non
essendo né tollerabile né concepibile una mortificazione permanente di
un principio così fondamentale di generazione e di produzione di vita. E
da questo Marx è derivato il marxismo che, rinunciando a un’analisi
realmente critica della tecnologia e dei processi di lavoro, ha sempre
valorizzato la dimensione operosa e prometeica del lavoratore: il
marxismo della sostanziale accettazione del modello di produzione e
consumo imposto dallo sviluppo capitalistico, così come della fede negli
automatismi della storia e nel necessario risolversi in positivo, a
partire dalla potenza di quel soggetto presupposto, dei conflitti e
delle contraddizioni.
L’altro Marx è quello delle opere della maturità, il quale, attraverso il Capitale,
rende principio e oggetto del suo indagare, non un soggetto umanistico
e la sua vicenda di alienazione-riappropriazione, ma il costruirsi a
totalità sociale di una ricchezza astratta come quella del capitale e
della sua inesauribile accumulazione: Il Marx cioè che rende tema
prioritario del suo discorso il modo in cui nel tempo moderno una
ricchezza astratta diventa il soggetto della riproduzione sociale
complessiva, subordinando alla logica quantitativa e impersonale della
sua crescita l’intero mondo dei valori d’uso e delle concrete
soggettività umane.
E’ il Marx che, come si è detto, fa categoria centrale della sua analisi non il lavoro ma l’uso della forza-lavoro
e si trova, attraverso il concetto di sussunzione reale e lo studio
delle trasformazioni tecnologiche legate al concetto di plusvalore
relativo, a porre le basi per una teoria della macchina, non come cosa
(di cui basterebbe cambiare l’uso per trovarsi in una nuova forma di
società), bensì quale sistema macchina–forza-lavoro che vede sempre
indissolubilmente connesse tipologia dell’automatismo meccanico e
tipologia dell’erogazione di lavoro vivo. Da questo Marx è derivato il
marxismo che, rinunciando a una visione positivistica e neutrale delle
forze produttive, ha visto la produzione capitalistica svolgersi,
durante le varie tappe della sua storia, secondo la varietà dei sistemi
uomo-macchina e in cui ciò che è in gioco è sempre l’erogazione di
lavoro astratto, cioè di lavoro ad alto grado di regolarità e di
codificazione e come tale sostanza adeguata della ricchezza astratta del
capitale. E’ il marxismo appunto di una sociologia critica che indaga
i sistemi macchine-forza-lavoro non secondo la categoria antropomorfa
di divisione del lavoro – cui molto indulge lo stesso Marx e che torna a
proporre una concezione della tecnologia come progressivo svuotamento e
appropriazione da parte delle macchine di capacità e funzioni del
soggetto umano[2] – bensì secondo i vari salti
nell’organizzazione del processo di lavoro cui il capitale è costretto,
oltre che dalla concorrenza esterna con gli altri capitali, da quella
concorrenza decisiva interna che è il confronto con la forza-lavoro, al
fine di ottenere erogazione di lavoro vivo a bassissima individuazione
soggettivo-concreta e a forte normatività astratta.
Ma quest’ultimo Marx, come si diceva, va estrapolato e sottratto
dalla curvatura umanistica del primo. Soprattutto va esplicitato e
dedotto facendo forza dalla logica oggettiva del suo discorso messo in campo nei Grundrisse e nel Capitale
e non, come si diceva, dalla consapevolezza soggettiva e riflessa che
lo stesso Marx della maturità mostra di continuare possederne, secondo
modalità assai prossime e contigue alle tesi del suo umanesimo
giovanile.
4. Fine della grande fabbrica fordista e della
produzione rigida mediante catena di montaggio, disseminazione sul
territorio e autonomia flessibile dei diversi segmenti produttivi e
soprattutto diffusione delle macchine informatiche con la messa in campo
di un nuovo tipo di lavoro, da alcuni definito cognitivo, hanno
diffuso tra molti da vari anni l’idea della possibile introduzione di
elementi liberatori nel mondo della produzione capitalistica. La
tecnologia informatica, si è detto, estingue tendenzialmente il lavoro
manuale, con la sua rigida codificazione e ripetitività, e implica, per
la natura dei suoi linguaggi e il suo modo di accumulare ed elaborare
informazioni, un lavoro fondato sulla possibilità combinatoria della
mente anziché sui movimenti del corpo e la loro continuità
standardizzata. Con questo trascorrere nei processi di lavoro dal corpo
alla mente giungerebbe a conclusione il moderno e avrebbe avuto inizio
il postmoderno. Si sarebbe conclusa un’antropologia della dipendenza,
connotata dalla fatica e dal confronto con il mondo materiale, per
inaugurare un’antropologia creativa basata sull’uso dell’intelligenza e
della conoscenza e sul confronto con un mondo di dati virtuali.
Ma chi indulge a questi teoremi sul carattere personalizzante e
individualizzante del nuovo lavoro, sulla ripresa d’importanza del
lavoro concreto e della capacità d’operare scelte sulle connessioni e le
interdipendenze di segmenti, di unità produttive e di variazioni
merceologiche che i nuovi sistemi produttivi del just in time mettono
in campo – chi giunge a dire che la produzione è ormai sinonimo di
comunicazione – torna a rimuovere, a mio avviso, una teoria delle
macchine quale “sistema macchine-forza-lavoro” e a cadere nel potente
effetto feticistico che la macchina dell’informazione trascina con sé.
L’informazione in un processo di lavoro capitalisticamente
organizzato non è mai solo descrittiva ma è sempre anche prescrittiva;
implica cioè un codice di senso predeterminato che obbliga la
forza-lavoro in questione a muoversi secondo un contesto di possibilità
già definite e strutturate. La caratteristica fondamentale delle nuove
tecnologie è quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori
del cervello umano. Questa mente artificiale vale come ampliamento di
memoria, a disposizione di un soggetto elaboratore e creativo, solo nel
caso di attività private e ad alto contenuto di professionalità. Nel
caso di processi lavorativi finalizzati alla produzione-circolazione di
merci e di servizi di servizi funziona come mente esterna che
sistema e accumula le informazioni secondo un codice che implica
contemporaneamente schede o disposizioni predeterminate di lavoro, ossia
modalità flessibili ma predeterminate d’intervento e di risposta da
parte della mente del lavoratore non manuale. Certo non è più il corpo e
la segmentazione tayloristica dei suoi movimenti ad essere in
questione ma l’anima, la capacità di scelta, la coscienza del nuovo
lavoratore mentale, la sua intelligenza sia come comprensione
globale-intuitiva che come attitudine logico-discorsiva. Ma proprio
tutto ciò che finora veniva definito come la caratteristica più
personale e non omologabile del soggetto umano entra ora in un campo di
fungibilità interagente ma subalterna con la macchina
dell’informazione. La quale per suo verso, accumulando quantità
d’informazioni alfa-numeriche sulla base del linguaggio binario,
riproduce il mondo reale secondo la riduzione e la semplificazione di
una Gestalt, di una forma che è prevalentemente alfa-numerica: e che
dunque pretende la cooperazione di una soggettività istituita più sulla
valorizzazione astratto-calcolante del proprio essere che non sulla
messa in gioco di tutte le altre componenti del proprio sé.
In questa prospettiva l’economia dell’informazione non va dunque
letta secondo la classica dottrina marxiana del lavoro alienato, quale
progressiva separazione di esecuzione e ideazione e quale
dequalificazione di un lavoro perciò sempre più ridotto ad esecuzione di
un progetto e di un comando altrui. La valorizzazione dei nuovi
macchinari informatici richiede la valorizzazione proprio dell’opposto:
della soggettività, della sua autonomia, di una sua maggiore
qualificazione e ricchezza di conoscenze. Richiede quella flessibilità e
mobilità del lavoratore, quella ricomposizione delle mansioni che
nell’automatismo ininterrotto della fabbrica fordista e nel
disciplinamento oggettivo della forza-lavoro che ne conseguiva era
proprio il nemico costantemente da battere e da escludere.
Valorizzazione della soggettività che peraltro ha potuto prendere anche
la strada del toyotismo e della qualità totale, del lavoro cioè che
giunge a prendere come oggetto se stesso, i suoi metodi, la sua
organizzazione le sue insufficienze, per sortire da questa coscienza di
sé e costante autoriflessività una maggiore intensità della propria
prestazione. Ma dove appunto ciò che viene messo in gioco è un soggetto
solo apparentemente autonomo e concreto, volontario e creativo, perché
la sua pretesa individualità è invece l’esito di un processo di
omologazione a competenze e forme del sapere già fortemente astratte e
codificate o di innovazione-riflessione creativa su un ambito di lavoro
già fortemente stereotipato.
L’effetto feticistico di fondo della nuova organizzazione
capitalistica del lavoro è dunque che un lavoro essenzialmente astratto
assume le parvenze di un lavoro individualizzato e concreto, che la
natura sostanzialmente autoritaria e determinata del processo di lavoro
prenda la forma di un’autorganizzazione, presuntivamente ricca di
variazioni e sperimentabilità.
5. In una condizione non patologica e scissa dell’essere
umano – qual’è certo non quella vissuta dalla forza-lavoro messa in
opera dal capitale – il senso del vivere e dell’agire è dato
fondamentalmente da una relazione, in cui il corporeo-emozionale,
compresente ma irriducibile al mentale, rappresenta la fonte mai
esauribile dell’attività interpretativa ed elaborativa della mente: in
una costituzione verticale del senso che s’integra con quella
orizzontale derivante dal nesso del medesimo individuo con le altre
soggettività[3]. Nel nuovo tipo di lavoro invece il
sistema macchina informatica-forza-lavoro richiede una separazione
radicale, opposta a quella del lavoro taylorista-fordista, della mente
dal corpo: separazione che consegna la mente umana a una semantica
decorporeizzata e anaffettiva. Del resto la sintassi del linguaggio
informatico, costruita sulla logica binaria dell’alternanza tra il sì e
il no, riproduce ed elabora il mondo della vita secondo una forma
astratta, perché priva di contrasti e contraddizioni. L’esclusione cioè
del sì dal no, che sta a basi della sintassi informatica, impedisce
d’esprimere l’ambivalenza che strutturalmente connota l’esperienza
emotiva e proprio per questo può essere principio di un mondo
informatizzato il cui orizzonte è quello della certezza analitica,
anziché quello dialettico e multiverso dell’esperienza concreta.
L’astrazione del nuovo lavoro mentale è perciò quella di una mente la
cui attenzione e cura, astratta dal senso e dal fondamento della
corporeità, è tutta assorbita da un universo di immagini e simboli
alfa-numerici, attraverso la cui apparente neutralità ed oggettività si
dispone il senso e il comando di un’organizzazione del processo
produttivo volto, come sempre, alla valorizzazione.
L’astrazione reale del capitale svuota perciò di senso concreto la
soggettività nel momento stesso che ne fa supposto principio di senso: e
dunque lo svuotamento è, proprio nel suo stesso modo di realizzarsi,
occultamento e dissimulazione di sé. Sulla scena rimangono così solo due
attori: un nuovo lavoratore, la cui mente è predisposta a
interiorizzare il comando eliminando ogni traccia esterna di
costrizione, e una nuova macchina la cui natura linguistica ne farebbe
per definizione un’alterità dialogica e collaborativa.
Del resto, nella più recente storia d’italia, per creare le
condizioni trascendentali di possibilità di tale scenografia non s’è
esitato, prima con la collaborazione poi con la presa in carico diretta
da parte della “sinistra” storica e istituzionale, di procedere
all’opera di una progressiva e sistematica distruzione della scuola
pubblica e di ogni orizzonte storicistico-umanistico della sua attività
formativa. La nuova forza-lavoro mentale ha bisogno infatti di una
formazione culturale di basso livello culturale
storico-letterario-filosofico e di una maggiore esposizione
pragmatico-linguistico-calcolante, come appunto vuole il modello
educativo d’ispirazione anglo-americana.
6. Questo numero di «Consecutio temporum» è dedicato in buona
parte al ripensamento di temi marxiani. La scelta che ha compiuto la
redazione è stata quella di mettere a confronto il paradigma
dell’astrazione reale, che anima la nostra rivista fin dal suo primo
numero, con altri paradigmi interpretativi dell’opera di Marx, che
valessero ad esprimere, ancora una volta, la complessa sedimentazione e
ricchezza di motivi dell’opera marxiana.
Nella sezione «Marxiana» pubblichiamo dei saggi di E. Balibar, L.
Basso, P. Macherey dedicati, rispettivamente, a testi dei
«Deutsch-französische Jahrbücher» e all’antropologia socio-politica di
Marx; mentre al Marx dei Grundrisse e del Capitale sono
dedicati i saggi di R. Bellofiore, G. Sgro’, Z. Rodrigues Viera.
All’althusserismo e all’itinerario di J. Rancière è rivolto il saggio di
G. Campailla. Mentre J. Bidet ragiona sul capitalismo contemporaneo
attraverso una discussione con G. Duménil.
Nella sezione «Storia delle idee», oltre a un saggio di S. Bracaletti
che ha per oggetto il marxismo analitico, pubblichiamo dei saggi di F.
Frosini, V. Morfino, T. Redolfi Riva sul marxismo di Gramsci, su Marx
lettore di Spinoza e sulla connessione Adorno-Backhaus. Completano la
sezione i due saggi di R. Evangelista e di G. Grassadonio
rispettivamente su De Martino e L. Goldmann.
Al di là del riferimento più complessivo all’opera di Marx, il numero
5 di Consecutio temporum, annovera nella sezione «Freudiana» un saggio
di M. Failla sul «Mosè» di Freud, nella sezione «L’anima e le forme»
componimenti poetici di P. Pennesi, nella sezione Storia delle idee un
saggio “teologico” di Cristoph Tuercke.
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