L’intervento che pubblichiamo, tratto dal sito Gli Asini che
ringraziamo, è la sbobinatura (curata da Giacomo Pontremoli) del
discorso tenuto da Pino Ferraris alla presentazione del suo libro Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, avvenuta a Roma il 30 settembre 2011, alla ”Festa della parola”.
L’impegno della storiografia per me ha un significato prima di tutto politico.
Mi considero un politico in esilio da trent’anni. Ma nonostante questo
la maggior parte della mia vita è stata occupata dalla militanza
politica. Sono un animale politico e non lo nascondo. E una delle prime
considerazioni che faccio e che mi ossessiona è che la perdita della
memoria, l’annientamento del passato, significa anche annientamento del
futuro. Non c’è possibilità di costruire futuro se non si spreme la
memoria, se non la si elabora. L’amnesia, come in parte la nostalgia,
afferma la dittatura del presente. Oggi viviamo a tutti gli effetti
nella dittatura del presente…
Ieri e domani è la versione, più efficace, che Goffredo Fofi ha dato al titolo che io avevo pensato per il libro: Passato e futuro. Passato e futuro era in origine la proposta che io avevo fatto per il titolo di Parole chiave, la rivista tutt’ora esistente sui “problemi del socialismo”.
L’ispirazione mi venne in opposizione polemica alla rivista di storia contemporanea Passato e presente,
dove traspare un elemento di filosofia della storia in cui il presente
sembra già contenuto nel passato, mentre il problema mio e credo nostro è
quello di affermare la libertà nella storia: libertà condizionata,
libertà che può sfuggirci di mano… però il principio di fondo è la
libertà nella storia, non un determinismo storico che ci annienta.
Una volta, ricordo di aver utilizzato in una lettera a
Claudio Pavone una citazione di Nietzsche: bisogna essere figli
inattuali del proprio tempo, bisogna tenere la testa fuori dal presente
che ti ingloba, che ti soffoca, che è come una vischiosa palude di
persistenza. E per fare questo bisogna attivare due facoltà essenziali:
la memoria e l’immaginazione. Con la memoria e l’immaginazione, è
possibile uscire dal presente e prenderlo a calci. In caso contrario il
presente ti ingloba. Essere inglobati dal presente significa essere
bloccati nell’esistente e quindi ogni idea di emancipazione e di
liberazione viene persa. Questo è il nesso tra passato e futuro, tra ieri e domani.
Quando Fukuyama ha proclamato la fine della storia,
che se ne sia reso conto o meno, ha proclamato la fine del futuro. “È
finita, dovete stare qui, accettare questo capitalismo per l’eternità.
Democrazia più capitalismo, tutto qua. È finita la storia”.
È soprattutto per questo che io non accetto la liquidazione della
storia di duecento anni di socialismo, con tutti i suoi errori, tutte le
sue tragedie… Non avremmo l’Europa che abbiamo, con tutti i limiti che
ha, se non ci fossero stati quei duecento anni. Non lo accetto, non si può accettare.
Il mio non è un richiamo nostalgico, perché io
ritorno a quel periodo storico con spinte diverse dalla nostalgia.
Quello non fu il periodo delle utopie individualistiche come certe
“narrazioni” lasciano pensare. Fu il momento della “costruzione
democratica di massa”. Il fuoco della mia ricerca è sempre stato
riuscire a capire in che modo in una delle più importanti e massicce
fasi di trasformazione storica, la rivoluzione industriale, che ha
cambiato ogni aspetto dell’esistenza, è nato un enorme ed efficace
movimento istituente, capace cioè di reagire, resistere e,
quando necessario, inventare delle cose. Quella gente, dentro quel
cambiamento, non ha solo subito l’innovazione travolgente, ma ha
inventato un mucchio di cose: il mutuo soccorso, le leghe di resistenza,
le camere del lavoro, le case del popolo, i fasci siciliani. Ha
inventato un modo nuovo di associare uomini e donne intorno alle istanze
basilari dell’esistenza.
Noi oggi, anche se non ce ne rendiamo del tutto
conto, stiamo vivendo una trasformazione storica come forse non c’è mai
stata. E non siamo in grado di inventare niente? La capacità istituente
di creare qualcosa, di associarsi, di inventare nuove strutture
solidali, nuove istituzioni… non siamo in grado di fare niente di tutto
ciò. Quelle generazioni sono state capaci di inventare il partito
politico di massa, il sindacato, il mutuo soccorso…. un fiorire
incredibile di controsocietà. Ecco prima che un problema di
occupare lo stato o di crearne uno nuovo, per loro si trattava di
inventare controsocietà! Mentre veniva travolta la vecchia società si
tendeva a costruirne di nuove. La suggestione è proprio questa, la
domanda, il messaggio più forte per il presente che quella storia ci
restituisce è proprio questo.
Nella fase travolgente che stiamo attraversando in
cui si succedono crisi, sovvertimenti economici, mutamenti (e drammi)
sociali, crisi di sistemi politici e istituzionali, com’è possibile che
dal basso non ci siano nuove invenzioni, nuovi istituti, nuovi strumenti
di lotta, nuove forme associative? I movimenti sono importanti ma la
questione rimane quella di come far diventare quei movimenti fatti
permanenti, fatti che contano, che hanno un’efficacia sociale. Che
diventano al limite elementi di controsocietà.
La valorizzazione del movimento operaio belga di fine
‘800 che ho tentato di restituire nel libro, ad esempio, nasce proprio
da qui. Le tappe politiche del socialismo statalista che dall’inizio del
‘900 si è affermato più o meno dappertutto, prevedevano di costruire un
partito “anti-stato”, speculare cioè e contrario (per forza,
organizzazione, efficienza, burocrazia e gerarchizzazione) necessario a
conquistare lo stato. Dopo di che, mediante lo stato e solo dopo
la sua conquista, si sarebbe cambiata la società. Per il movimento
operaio belga, così come per molte delle figure e delle esperienze che
ho ricostruito nel libro, la questione in realtà era: cambiamo subito la società, facciamo un’altra
società e nello stesso tempo mutiamo i rapporti di potere con lo stato,
trasformiamo la democrazia in democrazia progressiva, in democrazia
allargata, distribuita. Il potere è un male probabilmente necessario. Il
problema è come distribuirlo, come modificarlo. E come controllarlo dal
basso e dalla società civile.
Il ‘900 è il secolo di Weber, delle gabbie d’acciaio,
delle burocrazie, dei grandi apparati centralizzati, che hanno
coinvolto gli stati come gli anti-stati, i partiti politici come i
sindacati. Oggi non c’è più il dominio degli apparati, ma il dominio
della rete, l’impresa è rete piatta, cioè rete con pochi livelli
gerarchici. Oggi è la rete a essere dominante, non più lo scontro tra
apparati. La partita si gioca intorno a un suo diverso uso. La rete non
ci darà la “democrazia elettronica”. È una visione critica dell’uso
delle tecniche di rete, un uso alternativo quello di cui abbiamo
bisogno, per creare quella che oggi è l’esigenza politica fondamentale:
unificare i diversi. Non omologare tutti. La diversità è l’elemento
fondante della complessità sociale attuale. E come tenere insieme i
diversi se non confederandosi? Confederarsi, ce l’hanno insegnato
proprio alcune delle esperienze che ho descritto nel libro, significa
mettere insieme le cose che ti uniscono, e mantenere distinte le cose
che sono tue proprie. La confederazione è l’opposto dell’omologazione
centralizzante. Ecco l’elemento di implicito rinvio a quella pagina di
storia: l’esperienza “federalista” del movimento operaio belga, rivela
il volto di un socialismo pluralistico, che puntava al confederare, più che al centralizzare e omologare. E in questo c’è un messaggio fortissimo per il futuro.
Oggi non c’è più il grande partito di massa
centralizzato e burocratizzato che deve contrastare coi suoi apparati,
quasi militarizzati, lo stato monolitico. Oggi è cambiato il paradigma
del far politica e del fare associazione. Dobbiamo lavorare su questo, e
per orientare e trovare finalmente forme nuove a questo paradigma
possiamo trarre dall’altro ieri qualche suggestione. Non delle
soluzioni, solo qualche suggestione. Come gli operai belgi appunto, che
in quegli anni hanno saputo costruire e vivere in una rete mutualistica
efficace e ricca. Una rete che aveva la forma della confederazione. La
Prima Internazionale si chiamava “Ufficio di corrispondenza” e non era
uno stato maggiore, ma una specie di internet del proletariato. Questi
salti tra passato e futuro mi pare si colleghino anche alla possibilità
di sfruttare le nuove tecnologie per confederarci e non per ricostruire
apparati e culture simili a quelli del passato.
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