Della
crisi della sinistra italiana abbiamo discusso in decine e decine di
articoli, tanto che non credo valga ancora la pena rivangare critiche ed
autocritiche abbiamo inanellato via via che si faceva più evidente la
solidità delle larghe intese davanti alla crisi capitalistica che
investe anche l’Italia e che reclama quindi un governo capace di gestire
gli interessi dei ricchissimi e dei potenti finanzieri che controllano
un po’ tutto e tutti.
Quello che credo vada ancora discusso è l’approccio organizzativo e, quindi, tutto politico di una lotta che interessa sempre meno comunisti, sempre meno persone che si dicono ancora comuniste e comunisti, sempre meno chi anche si definisce latamente di sinistra.
Non mi sembra che siano interessanti le etichettature, ma lo divengono nel momento in cui ogni bussola scompare, ogni riferimento svanisce e l’indistinguibilità voluta o subita viene prepotentemente avanti e si divora ogni differenziazione utile alla comprensione tanto di una geografia della politica italiana, quanto dello schema che dovrebbe essere invece chiaro circa la variegata galassia di una parte progressista del Paese che oggi si fa fatica ad individuare e conoscere.
La conoscenza di sé stessi è, prima di tutto, l’elemento primario per poter comprendere gli altri e, nella distinzione, continuare ad avere sempre maggiore consapevolezza di chi si é e di cosa si vuole.
In questo senso, il continuo avvicinamento al Partito democratico di forze politiche che si dichiarano di sinistra ha permesso l’allargamento delle maglie della cognizione e ha disperso i confini naturali della sinistra stessa, confondendola con un centrosinistra che è sempre più centro e sempre meno sinistra.
Per essere attivi e fattivi nel concreto quotidiano in cui viviamo, per calare le nostre idee e proposte politiche e sociali dobbiamo prima di tutto renderle visibili nella loro essenza, rendere comprensibilmente elementare la lapalissiana differenza che esiste tra i comunisti e tutte le altre forze politiche che accettano un punto di vista non critico verso il sistema socio-economico in cui si vive.
Ma per fare questo, oggi, il binomio “autonomia e unità” rischia di sgretolarsi se messo, ad esempio, a confronto con la necessità di una alleanza col Partito democratico.
Come è possibile avere autonomia da un soggetto politico come il PD con cui non si ha in comune se non la difesa di alcuni princìpi costituzionali di garanzia legislativa e con il quale non si resce nemmeno a condividere la stessa piazza proprio in nome della difesa dell’insieme della Carta Costituzionale?
Se una forza di sinistra fa alleanza con il PD è destinata o a perdere la propria autonomia in nome dell’accettazione di un programma che ne snatura quasi a priori la sua identità e pratica di sinistra oppure a perdere la propria unità e allora ecco che si assiste, ad esempio, alle candidature nelle liste del PD da parte dei socialisti o dei radicali.
Puoi reclamare la tua giusta autonomia politica se le forze con cui ti schieri fanno parte almeno – come elementare minima condizione – alla tua stessa area programmatica: i progressisti con i progressisti, i conservatori con i conservatori, tanto per semplificare un concetto semplicissimo.
Un tempo si sarebbe detto: “I comunisti con i comunisti, i socialisti con i socialisti”. Se esistessero ancora socialisti degni dell’etimologia di questo nome, allora sì che si potrebbe tessere una tela in comune e provare anche a ricamarvi sopra un disegno programmatico per una alternativa di società, e quindi per una alternativa a tutte le altre proposte politiche in campo.
Ricostruire la Sinistra in Italia vuol dire ricominciare a definire i confini della politica, a cominciare dal lessico, dal linguaggio e dal significato che si dà alle parole.
Sappiamo tutti che per uno come Silvio Berlusconi, abile manipolatore di intelligenze e di coscienze a tutto tondo, definire di sinistra il PD vuol dire darne solo una definizione spregiativa, visto che per Berlusconi la sinistra è e deve essergli giustamente avversaria frontale.
Ma da questo far risalire una attribuzione di caratteristiche di sinistra al Partito democratico non solo ce ne passa, ma si tratterebbe di un falso attuale, oltre che storicamente dato per i pochi anni di vita che il PD porta con sè.
Chiarezza, dunque. Occorre vincere il timore che l’identità sia isolamento. Questa equivalenza è una distorsione consapevole di chi vorrebbe che anche nell’equivoco di alleanze spurie si potesse giocare un ruolo preponderante altrimenti invisibile se non mascherato dietro un velo di candida ipocrisia.
Si può appunto riportare in auge il binomio “autonomia e unità” solamente se si prova a ricostruire a sinistra un polo di forze che, partendo dalle rispettive culture, faccia sintesi programmatica e organizzativa senza spauracchi di leggi elettorali, e battendosi proprio per un ritorno della unica modalità di delega più onesta che possa esservi: una testa corrisponde ad un voto. E nessun voto è più uguale o ha più valore di altri. Non deve esistere una valenza maggiore per il voto dato alla forza potenzialmente più grande e una penalizzazione conseguente per chi ottiene, invece, consensi minori.
E allora, bisogna essere chiari per l’appunto e netti nella stesura di un PROGRAMMA MINIMO DELLA SINISTRA ITALIANA che dica ad esempio che è impossibile per una forza di sinistra essere “bipolarista” o “maggioritarista”.
Una forza di sinistra, una forza oltremodo comunista, non può non battersi per il sistema elettorale proporzionale puro.
Così non può non schierarsi senza se e senza ma contro ogni guerra, contro ogni aumento delle spese militari.
Così non può non essere contro i trattati monetaristi di questa Europa che deve diventare altro da sè se non vuole disgregarsi in tanti piccoli pezzi e cancellare oltre cinquant’anni di lenta costruzione.
Così, inoltre, non può una forza di sinistra non avere dubbi sul campo sociale in cui schierarsi: il lavoro deve essere al centro della proposta di programma e deve essere l’asse portante della sintesi.
Così, anche, una forza di sinistra non può fare la scaletta dei diritti e classificarli in base alla loro aderenza o meno al neo-operaismo che tanti proclamano e pochi praticano: tutti i diritti sono importanti e ogni diritto, civile o sociale, conquistato è un avanzamento per la società che vogliamo costruire.
Senza ambiguità, va detto che un comunista non può lottare per l’emancipazione dell’essere umano dalla schiavitù del lavoro salariato e del profitto e considerare inferirore, ad esempio, la lotta di emancipazione femminile che non è affatto terminata e che subisce pericolosi arretramenti ogni volta che si ascoltano le notizie e le statistiche sulle donne uccise dagli uomini in ogni parte del mondo…
E va detto senza altra ambiguità, cancellando decenni di subdolo revisionismo storico iniziato con la dichiarazione di Luciano Violante sui “ragazzi di Salò”, che l’antifascismo non concede nulla sul piano storico e su quello politico alle “culture” che si innestano sull’ideologia fascista. Essere antifascisti vuol dire schierarsi apertamente, senza alcuna reticenza contro ogni apertura di credito ad una “pacificazione” che è sempre e solo stata argomento di una destra che si sentiva scomoda in una Repubblica con una Costituzione dichiaratamente “partigiana”.
La ricostruzione della Sinistra in Italia significa scegliere e battersi. La scelta è di campo, la lotta è il contrario della rassegnazione.
Rileggiamoci le difficoltà dei comunisti negli anni di affermazione del fascismo. E’ in quel contesto che Gramsci, in carcere, si convince che tutto può essere ricostruito. Perché le forze per poterlo fare ci sono. Serve solo una presa di coscienza data dalla dura realtà della crisi economica unita ad una volontà politica. La prima parte di composizione di questa coscienza deve essere frutto di ciascuno di noi singolarmente, un parto spontaneo e non indotto, una acquisizione di una realtà non percepita prima come ostile o come controvertibile; la seconda parte invece tocca ad un partito comunista farla. Quindi ci tocca. Sottrarsi a questo compito sarebbe più che ingiusto, immorale, quasi innaturale.
Quello che credo vada ancora discusso è l’approccio organizzativo e, quindi, tutto politico di una lotta che interessa sempre meno comunisti, sempre meno persone che si dicono ancora comuniste e comunisti, sempre meno chi anche si definisce latamente di sinistra.
Non mi sembra che siano interessanti le etichettature, ma lo divengono nel momento in cui ogni bussola scompare, ogni riferimento svanisce e l’indistinguibilità voluta o subita viene prepotentemente avanti e si divora ogni differenziazione utile alla comprensione tanto di una geografia della politica italiana, quanto dello schema che dovrebbe essere invece chiaro circa la variegata galassia di una parte progressista del Paese che oggi si fa fatica ad individuare e conoscere.
La conoscenza di sé stessi è, prima di tutto, l’elemento primario per poter comprendere gli altri e, nella distinzione, continuare ad avere sempre maggiore consapevolezza di chi si é e di cosa si vuole.
In questo senso, il continuo avvicinamento al Partito democratico di forze politiche che si dichiarano di sinistra ha permesso l’allargamento delle maglie della cognizione e ha disperso i confini naturali della sinistra stessa, confondendola con un centrosinistra che è sempre più centro e sempre meno sinistra.
Per essere attivi e fattivi nel concreto quotidiano in cui viviamo, per calare le nostre idee e proposte politiche e sociali dobbiamo prima di tutto renderle visibili nella loro essenza, rendere comprensibilmente elementare la lapalissiana differenza che esiste tra i comunisti e tutte le altre forze politiche che accettano un punto di vista non critico verso il sistema socio-economico in cui si vive.
Ma per fare questo, oggi, il binomio “autonomia e unità” rischia di sgretolarsi se messo, ad esempio, a confronto con la necessità di una alleanza col Partito democratico.
Come è possibile avere autonomia da un soggetto politico come il PD con cui non si ha in comune se non la difesa di alcuni princìpi costituzionali di garanzia legislativa e con il quale non si resce nemmeno a condividere la stessa piazza proprio in nome della difesa dell’insieme della Carta Costituzionale?
Se una forza di sinistra fa alleanza con il PD è destinata o a perdere la propria autonomia in nome dell’accettazione di un programma che ne snatura quasi a priori la sua identità e pratica di sinistra oppure a perdere la propria unità e allora ecco che si assiste, ad esempio, alle candidature nelle liste del PD da parte dei socialisti o dei radicali.
Puoi reclamare la tua giusta autonomia politica se le forze con cui ti schieri fanno parte almeno – come elementare minima condizione – alla tua stessa area programmatica: i progressisti con i progressisti, i conservatori con i conservatori, tanto per semplificare un concetto semplicissimo.
Un tempo si sarebbe detto: “I comunisti con i comunisti, i socialisti con i socialisti”. Se esistessero ancora socialisti degni dell’etimologia di questo nome, allora sì che si potrebbe tessere una tela in comune e provare anche a ricamarvi sopra un disegno programmatico per una alternativa di società, e quindi per una alternativa a tutte le altre proposte politiche in campo.
Ricostruire la Sinistra in Italia vuol dire ricominciare a definire i confini della politica, a cominciare dal lessico, dal linguaggio e dal significato che si dà alle parole.
Sappiamo tutti che per uno come Silvio Berlusconi, abile manipolatore di intelligenze e di coscienze a tutto tondo, definire di sinistra il PD vuol dire darne solo una definizione spregiativa, visto che per Berlusconi la sinistra è e deve essergli giustamente avversaria frontale.
Ma da questo far risalire una attribuzione di caratteristiche di sinistra al Partito democratico non solo ce ne passa, ma si tratterebbe di un falso attuale, oltre che storicamente dato per i pochi anni di vita che il PD porta con sè.
Chiarezza, dunque. Occorre vincere il timore che l’identità sia isolamento. Questa equivalenza è una distorsione consapevole di chi vorrebbe che anche nell’equivoco di alleanze spurie si potesse giocare un ruolo preponderante altrimenti invisibile se non mascherato dietro un velo di candida ipocrisia.
Si può appunto riportare in auge il binomio “autonomia e unità” solamente se si prova a ricostruire a sinistra un polo di forze che, partendo dalle rispettive culture, faccia sintesi programmatica e organizzativa senza spauracchi di leggi elettorali, e battendosi proprio per un ritorno della unica modalità di delega più onesta che possa esservi: una testa corrisponde ad un voto. E nessun voto è più uguale o ha più valore di altri. Non deve esistere una valenza maggiore per il voto dato alla forza potenzialmente più grande e una penalizzazione conseguente per chi ottiene, invece, consensi minori.
E allora, bisogna essere chiari per l’appunto e netti nella stesura di un PROGRAMMA MINIMO DELLA SINISTRA ITALIANA che dica ad esempio che è impossibile per una forza di sinistra essere “bipolarista” o “maggioritarista”.
Una forza di sinistra, una forza oltremodo comunista, non può non battersi per il sistema elettorale proporzionale puro.
Così non può non schierarsi senza se e senza ma contro ogni guerra, contro ogni aumento delle spese militari.
Così non può non essere contro i trattati monetaristi di questa Europa che deve diventare altro da sè se non vuole disgregarsi in tanti piccoli pezzi e cancellare oltre cinquant’anni di lenta costruzione.
Così, inoltre, non può una forza di sinistra non avere dubbi sul campo sociale in cui schierarsi: il lavoro deve essere al centro della proposta di programma e deve essere l’asse portante della sintesi.
Così, anche, una forza di sinistra non può fare la scaletta dei diritti e classificarli in base alla loro aderenza o meno al neo-operaismo che tanti proclamano e pochi praticano: tutti i diritti sono importanti e ogni diritto, civile o sociale, conquistato è un avanzamento per la società che vogliamo costruire.
Senza ambiguità, va detto che un comunista non può lottare per l’emancipazione dell’essere umano dalla schiavitù del lavoro salariato e del profitto e considerare inferirore, ad esempio, la lotta di emancipazione femminile che non è affatto terminata e che subisce pericolosi arretramenti ogni volta che si ascoltano le notizie e le statistiche sulle donne uccise dagli uomini in ogni parte del mondo…
E va detto senza altra ambiguità, cancellando decenni di subdolo revisionismo storico iniziato con la dichiarazione di Luciano Violante sui “ragazzi di Salò”, che l’antifascismo non concede nulla sul piano storico e su quello politico alle “culture” che si innestano sull’ideologia fascista. Essere antifascisti vuol dire schierarsi apertamente, senza alcuna reticenza contro ogni apertura di credito ad una “pacificazione” che è sempre e solo stata argomento di una destra che si sentiva scomoda in una Repubblica con una Costituzione dichiaratamente “partigiana”.
La ricostruzione della Sinistra in Italia significa scegliere e battersi. La scelta è di campo, la lotta è il contrario della rassegnazione.
Rileggiamoci le difficoltà dei comunisti negli anni di affermazione del fascismo. E’ in quel contesto che Gramsci, in carcere, si convince che tutto può essere ricostruito. Perché le forze per poterlo fare ci sono. Serve solo una presa di coscienza data dalla dura realtà della crisi economica unita ad una volontà politica. La prima parte di composizione di questa coscienza deve essere frutto di ciascuno di noi singolarmente, un parto spontaneo e non indotto, una acquisizione di una realtà non percepita prima come ostile o come controvertibile; la seconda parte invece tocca ad un partito comunista farla. Quindi ci tocca. Sottrarsi a questo compito sarebbe più che ingiusto, immorale, quasi innaturale.
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