Il termine populismo può indicare tante cose e non sempre, nel
linguaggio della politica, se ne fa un uso corretto. Ma in questa sede,
per ovvie ragioni, non possiamo permetterci digressioni sul suo
significato storico-politologico. Dobbiamo parlare di Matteo Renzi, mica
dei massimi sistemi.
Non c'è dubbio che c'è una versione semantica della parola populismo
che si addice molto al profilo del sindaco di Firenze, ed è quella della
vulgata: populista è colui che dice ciò che il popolo vuole sentirsi
dire.
Grande maestro di questa scuola politica è stato negli ultimi
vent'anni Silvio Berlusconi, il cui successo, per niente offuscato dalle
vicissitudini giudiziarie, non è misurabile con i risultati (pari a
zero) della sua azione di governo, ma col numero di discepoli che ha
messo al mondo. Una pletora, ormai, di leader e leaderini, che hanno
dimostrato una destrezza invidiabile nel metabolizzarne la lezione.
Facciamo qualche esempio per capirci. C'è qualcosa che accomuna
l'allegoria berlusconiana del "teatrino della politica" e la
"rottamazione" di Renzi? E queste due figure retoriche hanno qualcosa in
comune con il "tutti a casa" di Beppe Grillo? Si, evidentemente. Tutte
e tre le espressioni rimandano ad un unico concetto: c'è la casta e c'è
il popolo, da un lato il privilegio, l'inconcludenza e il carrierismo,
dall'altro il duro lavoro, il fare, spesso la precarietà, la sofferenza,
la normalità. Che poi, nel caso di Renzi, stiamo parlando di un
"ragazzo" di 38 anni che nelle istituzioni c'è da quando ne aveva 28,
poco importa. E poco importa che da sindaco di una grande città dedichi
gran parte del suo tempo alla "politica" invece che ai problemi dei suoi
concittadini (Una volta eletto segretario si dimetterà da sindaco di
Firenze?). D'altronde la casta per antonomasia sta a Roma. Lo diceva
anche Bossi, che in quanto a vena populista era un campione pure lui.
E così, se Berlusconi vent'anni fa esordiva con il memorabile "per un
nuovo miracolo italiano", Renzi oggi rilancia con la "rivoluzione della
semplicità". Ieri il "non metteremo le mani nelle tasche dei
cittadini", oggi il "non si metta mano ai soldi delle vecchiette". Ecco,
il cittadino e la vecchietta da un lato, lo Stato predatore dall'altro.
Una dicotomia collaudata, almeno dai tempi del Pasquino. O forse da
molto più tempo ancora, se pensiamo solamente alla genialità di un
Aristofane.
I populisti sovente cambiano idea. Devono cambiare idea, sovente. Per
stare al passo coi pensieri del popolo, spesso per esigenze tattiche
ovvero per necessità di ricollocazione. Berlusconi è stato un campione
in tale arte. Renzi non è da meno. Prendiamo proprio il suo cavallo di
battaglia, la "rottamazione". Pensavamo tutti di averne inteso il
significato. Peraltro lui era stato molto chiaro: rottamazione
significava mandare in pensione tutta la nomenclatura del partito che
"stava lì da 20-30 anni". Oggi che tanti dei rottamandi sono saliti sul
suo carro, dalle periferie fino a Roma, il sindaco ci ha tenuto a
precisare: "Ho un unico rammarico: non aver spiegato a sufficienza che
la rottamazione non è solo il sacrosanto ricambio generazionale. Quello
di cui l'Italia ha bisogno non è cambiare tutto ma cambiare tutti".
Capito? La rottamazione non è quella di prima, o quello che si era
capito prima, ma "cambiare" tutti dentro, intimamente. Dalla ramazza
alla catarsi dell'anima, insomma.
In compenso il Renzi nazionale ha tirato fuori un'altra metafora che
ben sostituisce quella della rottamazione: quella del caterpillar. Il
caterpillar evoca la forza, il coraggio, il fare tabula rasa di
ingiustizie e cose che non vanno. È una macchina "rivoluzionaria" , mica
un arnese "riformista" o "moderato", butta giù tutto, senza mediazioni
di sorta. Perché l'Italia "ha bisogno di una rivoluzione", di
cambiamenti epocali, non di mezze misure.
Le cose si complicano però quando dalla metafora si passa alla
realtà. In cosa consisterebbe questa rivoluzione? Quali i suoi punti
cardine? A sentirlo parlare, ma soprattutto leggendo il suo programma,
più che idee incendiarie si raccolgono solo banalità e concetti già
sfruttati da altri in questi anni, a cominciare proprio da Berlusconi.
Meno tasse (La riduzione del cuneo fiscale di Letta vale 5 miliardi?
Facciamo 20, abbondiamo!), meno stato, più lavoro per i giovani,
contratti più flessibili, qualche contributo di solidarietà da parte di
chi è più fortunato, ecc. ecc. In tutto il documento congressuale, poi,
non è mai citata la parola "precarietà", men che meno si parla di
discriminazioni su base sessuale e di genere, del dramma dei migranti,
della povertà dilagante.
La chicca più forte, dentro questo documento, è data invece dal modo
in cui viene affrontato il tema dell'Europa e dell'austerità. Prima si
usano parole dure contro il rigore, contro il "ce lo chiede l'Europa",
poi si dice che l'Italia ha il dovere di rimettere a posto i conti ("Non
perché ce lo chiede l'Europa, ma per i nostri figli"), indicando in ciò
una priorità. E così, da un lato si afferma che "i conti non sono un
fine in sé", dall'altro che il risanamento è un priorità "sacrosanta";
che il rigore serve, ma servono anche gli investimenti per la crescita.
Un colpo al cerchio ed uno alla botte, insomma. Come quando, ad esempio,
si parla del ruolo del sindacato: "La funzione insostituibile del
sindacato va difesa dagli eccessi". Grandioso, un capolavoro di
cerchiobottismo!
E il partito? Come lo vuole il partito Renzi? "Il Pd deve essere un
luogo bello per la formazione politica", c'è scritto nel documento. Si
avete letto bene: "un luogo bello". Dopo il partito di massa
novecentesco e quello di plastica di questi anni arriverà finalmente il
momento del "partito-luogo bello". Cos'è? Un partito "che ti dà del
tu". Non ci crederete, ma anche questo c'è scritto. E non è finita. Il
partito che sogna Renzi è per il bipolarismo, quello "gentile" però, ci
tiene a precisarlo. E per la legge elettorale dice di preferirne una che
"faccia sapere subito chi ha vinto e chi ha perso" anziché una che non
garantisce risultati elettorali chiari. Ricordate il mitico Massimo
Catalano? Uguale: "È molto meglio essere giovani, belli, ricchi e in
buona salute, piuttosto che essere vecchi, brutti, poveri e malati".
Ci sarebbe da ridere, insomma. Ma la questione è seria per due
motivi: perché dal berlusconismo si rischia di uscire (sic!) per il
tramite di una nuova scorciatoia populista; perché battendo la strada
della banalità, del cosiddetto buon senso, soprattutto per quanto
riguarda i temi sociali, si finisce sempre per sbucare a destra. È
storia, c'è poco da fare. Renzi, peraltro, ne è così consapevole da
averlo perfino rivendicato, con tanto di sottigliezza retorica: "La
sinistra che non cambia è di destra". Domanda: e quella che cambia per
acchiappare i voti della destra, secondo lo schema che lui ha in testa,
cosa diventa?
Mala tempora currunt...
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