Dopo l’exploit ossessivo-compulsivo del prode Ser Brunetto, notoriamente nullatenente, la questione s’è tramutata in refrain: quanto guadagna tizio, quanto guadagna caio. Non mancavano peraltro precognizioni esilaranti, tipo Floris interpellato da La Cosa
il quale, all’intervistatore che l’incalza ‒ quanti sono: “500.000 €
l’anno? ‒ risponde: “Sì, la cifra secondo me è quella”. Non ne è sicuro
nemmeno lui. Sarà mica che son troppi? Pure Fazio nicchia, accampando il fatto che ‒ dura lex, sed lex ‒ si tratta di dati non divulgabili per contratto.
Ma
il punto è un altro, ed accomuna le risposte di tutti. Se gli si chiede
conto dei loro guadagni comunque esorbitanti tanto Fazio che Floris, o
perfino Crozza, la mettono sempre sullo stesso piano: è vero,
guadagniamo molto, ma gli introiti che procuriamo alla nostra azienda tramite la pubblicità sono di gran lunga superiori alle spese, dunque: siamo un ottimo investimento.
Crozza (vedi l’ultimo pezzo su Brunetta) la butta addirittura in gastronomia: “Il maiale è un investimento. Cioè sul maiale il macellaio ha un progetto: ci fa i salami, li vende e ci guadagna. No? Lo dico perché io, forse… forse… avrei potuto essere il maiale di Rai 1. Lo dico così… Da me potevano tirarci fuori anche due salami, una coppa, un culatello! No, ditemelo, perché se non è così, mi crolla il mondo dell’economia suina!”
Crozza (vedi l’ultimo pezzo su Brunetta) la butta addirittura in gastronomia: “Il maiale è un investimento. Cioè sul maiale il macellaio ha un progetto: ci fa i salami, li vende e ci guadagna. No? Lo dico perché io, forse… forse… avrei potuto essere il maiale di Rai 1. Lo dico così… Da me potevano tirarci fuori anche due salami, una coppa, un culatello! No, ditemelo, perché se non è così, mi crolla il mondo dell’economia suina!”
Sarà…
A me pare un concetto di economia piuttosto rozzo e molto discutibile,
basato sull’assioma per cui in una società capitalistica, quale è la
nostra, non dev’essere posto alcun tetto all’accumulo di ricchezza. In buona sostanza: i limiti li pone il mercato, ciascuno ha diritto a guadagnare quanto il mercato è disposto ad offrirgli.
Bene,
forse per una masochistica forma di inattualità, ma la penso
esattamente all’opposto: sono cioè persuaso che, oltre una data soglia, l’accumulo di ricchezza sia un autentico crimine sociale e ritengo che non vi sia ne vi possa essere alcun progresso senza un’effettiva ridistribuzione del reddito.
Ho
più che qualche perplessità ad identificare col benessere un sistema
sociale dove Floris prende mezzo milione di euro l’anno e una larga fetta della popolazione
‒ peraltro in continuo incremento (secondo i dati ISTAT per il 2012 la
povertà relativa coinvolge il 12,7% delle famiglie e la povertà assoluta il 6,8%, ma altri la stimano all’8% o più) ‒ non riesce nemmeno a sopperire a bisogni primari quali le spese sanitarie, l’alimentazione o l’alloggio.
Il nocciolo della questione non è se a pagare sia lo Stato ‒ in questo caso la Rai
‒ oppure un privato (sul compenso di Crozza Urbano Cairo, patron di
La7, ha detto chiaramente “noi non abbiamo la Commissione di Vigilanza,
non abbiamo Brunetta che imperversa e ci chiede ‘quanto costa? quanto
costa? quanto guadagna?’ e quindi possiamo anche permetterci di non… di
non dirlo. È comunque un fatto, diciamo… è un tema riservato che ci
teniamo per noi’”). Ma la vera questione è tutt’altra, e cioè: lo Stato,
in quanto istituzione, non serve a garantire soltanto la prosperità di
alcuni, bensì una vita dignitosa per tutti.
È dunque assolutamente doveroso che sia appunto lo Stato ad intervenire operando a tutti i livelli affinché la sperequazione economica
che ammala l’economia italiana venga drasticamente ridotta. Come?
Nessuno sta inneggiando al socialismo reale, non si fraintenda né si
semplifichi. Esistono, anche su base storica, diversi esempi alternativi
a riguardo. Uno su tutti? La politica fiscale adottata negli Stati
Uniti dopo la Grande depressione del ’29. Se infatti, prima della crisi,
l’aliquota fiscale
era del 25% per cento per redditi superiori a 100.000 $ (equivalenti ad
1 milione nel 2011), il progressivo risanamento dell’economia negli
anni dell’amministrazione Roosevelt fu condotto aumentando
progressivamente la quota parte
(63% nel ’32, 79% nel ’36, 81% nel ’41) fino a toccare il picco del 94%
nel 1944 (per i redditi oltre i 200.000 $, corrispondenti a 2,75
milioni nel 2011).
Si dirà che c’era la guerra.
Ebbene, a parte il fatto che ciò è vero solo per gli anni dal ’41 al
’45, ciò non toglie che anche dopo ‒ in piena Guerra fredda e persino
durante il Maccartismo ‒ l’aliquota rimase comunque elevatissima. Prima
che Regan la portasse al 50% (fino a toccare, a fine
anni Ottanta, il minimo del 28%), nel 1981 era ancora al 70% per redditi
superiori a 212.000 $ (532.000 nel 2011). Se ne traggono almeno due
conseguenze lampanti: in primis che la più grande crisi economica della modernità fu senz’altro correlata, tra i molti fattori, ad una tassazione decisamente troppo bassa;
secondariamente: gli Stati Uniti, che certo non sono ‒ né sono mai
stati ‒ un paese socialista, hanno conosciuto un cinquantennio di
florido sviluppo mentre era in vigore un regime fiscale dove la
ricchezza, sopra un certa soglia (per la verità nemmeno così elevata),
era soggetta ad una pressione fiscale assai cospicua.
Ora, i Fazio o i Floris non sono che un esempio, mediaticamente sovraesposto, di tutti quelli che ‒ e sono parecchi
‒ in Italia guadagnano cifre da capogiro. C’è chi s’intasca un milione
di euro? Benissimo: sopra i 200.000 € verserà allo Stato il 90% di
tasse, che verranno ridistribuite alla collettività sotto forma di
sussidi o servizi. Oppure c’è qualcuno che, di fronte alla gente che non
arriva a fine mese, se la sente di dire che 280.000 € l’anno ancora non
sono abbastanza?
Toc toc… non è che a sinistra di Crozza per caso c’è ancora qualcuno?
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