Queste
sono forse le righe più difficili che abbia mai scritto. Le scrivo dopo
due lunghi giorni di silenzio, ma riflessioni che durano da settimane, o
forse mesi. E che mi portano ad una scelta soffertissima.
L’altro giorno è uscito il nuovo album dei Mumford&Sons.
E in molti, me compresa, sono rimasti un po’ delusi, perché è
senz’altro un buon disco, ma non è il loro sound. Non si riconoscono
quasi. E, interrogandomi sui motivi per cui avessero scelto di fare una
cosa così diversa da loro, per la prima volta mi sono sentita calcolata.
Ho pensato che probabilmente secondo le leggi del marketing questo
sound è in grado di rivolgersi a un pubblico molto più ampio, e che
quindi avranno tenuto in conto che una parte dei più affezionati si
sarebbe sentita tradita e disorientata, ma che ciononostante avrebbero
venduto di più. E quando ti senti calcolato, per istinto umano diventi
imprevedibile, alla Jim Carrey in The Truman Show, e ti spingi fino al
limite per trovare la porta che ti rimette in libertà.
Forse anche noi, siamo stati calcolati. E le forzature costanti dell’ultimo anno, le continue violenze verbali, l’indifferenza e l’irrisione
verso ciascuna delle tante proposte, e le umiliazioni verso le
minoranze sono state fatte per rivolgersi a un pubblico più vasto,
quello del centro che abbiamo risucchiato e fagocitato, e della destra
che stiamo imbarcando su tanti territori, con una disinvoltura
inquietante e una voracità da indigestione. E magari si calcolava pure che dopo tanto chiasso saremmo comunque rimasti dentro, a coprire a sinistra,
convinti come al solito che, anche quando non si è d’accordo, la
battaglia si faccia da dentro. Beh, amici e compagni, questa convinzione
mi ha guidato sin qui con l’ostinazione e la passione che sapete.
Ma oggi, come Pippo, non ci credo più. E per carattere non riesco
proprio a fare cose in cui non credo. Non ci credo perché per fare le
battaglie da dentro bisogna almeno giocare su un campo comune, e invece qui ci hanno portato via la scacchiera e ci siam trovati a sorpresa col doppio dei pezzi neri.
In quest’anno abbiamo visto stracciare diritti dei lavoratori nel nome della libertà di licenziare
e nell’illusione, culturalmente così distante dalla nostra storia, che
questo aiuti a creare maggiore e migliore occupazione. Abbiamo visto
scegliere con forza un modello energetico che non ha nulla di nuovo, è
vecchio e superato dai tempi, frutto di un’incapacità di visione e
lungimiranza su che tipo di suolo, di ambiente vogliamo lasciare a chi
verrà dopo di noi. Abbiamo assistito a forzature costituzionali insopportabili,
in continuità col pericoloso esautoramento del Parlamento in atto da
anni (ma che prima contestavamo), e che ha avuto il suo grave culmine
con la fiducia su una materia di squisita competenza parlamentare. E più
giro i territori più assisto a scissioni silenziose e sofferte di tanti
militanti ed elettori davanti all’ingresso nel partito di figure che
abbiamo sempre combattuto, ex fascisti, ex berlusconiani, affaristi e a
sentir Saviano pure di peggio.
La verità è che vale la pena di lottare dentro al Partito finché c’è il partito,
ma io temo che questo partito non esista già più, e si sia trasformato
in un’altra cosa, molto diversa da quella cui avevamo entusiasticamente
aderito e da ciò che era nato per essere, perno della sinistra moderna e
di governo che vogliamo.
Me ne vado anche io, insieme a Pippo Civati. Nel suo
volto di ieri sera dalla Gruber ho rivisto dopo mesi difficilissimi
quell’amico e maestro che ha avuto lo straordinario merito di
riavvicinare alla politica tantissimi ragazzi come me, che eran rimasti
delusi e si erano allontanati. Molti dei quali, lungo quest’anno di
riforme calate dall’alto e fuori da ogni programma, se ne sono andati di
nuovo. Chiedevamo “un partito all’altezza della sua base”, che desse
ascolto a militanti ed elettori e li coinvolgesse nelle scelte più
importanti, ma in questo l’era Renzi non ha portato nulla di nuovo. Me ne vado con il dolore infinito di lasciare tanti amici e compagni di intense battaglie,
ma con la speranza che un giorno ci ritroveremo. Con il tormento
interiore di sapere che deluderò alcuni di coloro che mi avevano
sostenuto, e che ci credono ancora. Li rispetto, abbiamo nutrito di
tutte le nostre energie questa convinzione che ha alimentato
l’entusiasmo e la grinta con cui abbiamo portato giorno dopo giorno il
nostro contributo al PD, ed è un travaglio anche personale
quello che porta all’amara convinzione che la mutazione genetica del
partito sia ormai irreversibile. Ma se la raggiungi, questa
consapevolezza, per onestà intellettuale e per coerenza devi chiederti
se quel che fai è abbastanza, per il Paese. O se è quanto basta per
salvare la tua coscienza. Devi chiederti, cioè, se dopo un anno di
trasformazioni profonde, di calci in faccia e di riforme che non
condividi vuoi offrire al Paese solo il tuo dissenso, perennemente
irriso e calpestato, oppure una prospettiva. Ed io scelgo la seconda.
Esco anche io dal Partito Democratico, e continuerò con coerenza e
con la stessa passione a fare le battaglie di sempre, su cui mi sono
impegnata anzitutto con chi ha scritto il mio nome sulla scheda. Lo
faccio con un fortissimo groppo in gola pensando ai compagni che oggi
fanno una scelta diversa, e ai tanti amici e colleghi che stimo, che in
ottima fede si impegnano ogni giorno a tutti i livelli per dare un senso
a quest’appartenenza. Lo faccio guardando in faccia la paura
che fa una scelta così, sapendo che è un all-in, e che potrebbe essere
la fine o un nuovo inizio. Ma lo faccio perché a volte devi
fare ciò che ritieni giusto, e trovare il coraggio nelle tue
convinzioni. Perché c’è un limite umano alle forzature che si possono
sopportare, e il mio l’abbiamo già superato da un po’. È troppo tempo
che non mi riconosco più in nulla di quello che sta facendo il governo,
che vivo male la contraddizione sempre più insanabile tra il mio impegno
quotidiano e quel che facciamo a livello nazionale, e che faccio fatica
a rispondere ai tanti che mi chiedono cosa facciamo qui dentro.
Tanti di noi si sono messi in gioco nel momento in cui non si
sentivano più rappresentati, convinti che se non ci mettiamo in prima
persona a cambiare le cose, nessuno lo farà per noi. Ricordo
bene quando occupammo le sedi del partito contro le larghe intese,
convinti che la strada giusta fosse cambiare il PD per cambiare il Paese.
Il problema è che il PD oggi è radicalmente cambiato, ma sono le larghe
intese che stanno occupando noi. Che dettano le scelte di governo, che
dettano le più impensabili delle alleanze sui territori, e portano a
trasformismi di ogni tipo. Il problema non è essere una minoranza, lo
eravamo anche prima. Il problema è come fare a portare avanti con
coerenza le proprie battaglie sull’immigrazione, con un governo che non
chiede di estendere il mandato di Triton, come fare a portare avanti le
battaglie sulla legalità, con un governo che diluisce ogni norma
anticorruzione, come fare a portare avanti le proprie battaglie sui
diritti civili, con un ministro che chiede di cancellarli dai registri, e
come fare a portare avanti le proprie battaglie per un futuro
sostenibile, con chi sceglie di nuovo cemento e trivelle?
È proprio per uscire da questa dolorosa contraddizione
che, dopo tanti mesi a tentare di segnalare un disagio profondo, che
non è soltanto mio o di Pippo ma di moltissimi elettori che abbiamo
perso per strada e ritroviamo nelle piazze, che sento di non poter più
tenere questa tessera in tasca. Col dolore di chi in essa e nei suoi
colori aveva trovato un’appartenenza a lungo cercata, ma ora tradita
dalla foga iconoclasta con cui si passa sopra alcuni di quelli che erano
i nostri principi fondanti, e dalla prepotenza di chi non tollera una
voce diversa.
A chi deluderò dico che mi dispiace davvero. A chi ci guida dico che
se si cerca un nemico al giorno, si allontanano anche gli amici, quelli
che sfuggono alla rigida dicotomia “o vuoi innovare come diciamo noi o
sei un conservatore”. Perché le cose possono cambiare in meglio o in
peggio, e io vorrei le cambiassimo in meglio. A chi dei nostri sostenitori da tempo ci aspettava fuori dico che mi abbracci forte, perché è un giorno difficile.
E a me stessa, per una volta, dedico quella citazione di Terzani che mi
sta tanto a cuore: “Quando sei a un bivio e trovi una strada che va in
su e una che va in giù, piglia quella che va in su. È più facile andare
in discesa, ma alla fine ti trovi in un buco. A salire c’è più speranza.
È difficile, è un altro modo di vedere le cose, è una sfida, ti tiene
all’erta.”
Vi abbraccio tutti, col cuore in mano.
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