domenica 24 maggio 2015

Marx: Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner di Enrico Galavotti

Dai brevi appunti1  di Marx, che evidentemente quando si accingeva a leggere un testo di economia politica la prima cosa che andava a vedere erano le considerazioni sulla legge del valore, si evince immediatamente come A. Wagner, nel suo Manuale di economia politica, non avesse capito il nocciolo fondamentale del I libro del Capitale, ch'era lo sfruttamento del lavoro altrui intrinseco a tutte le leggi del capitalismo. Stesso giudizio negativo Marx lo esprime anche nei confronti di J. K. Rodbertus e di A. E. F. Schäffle, tedeschi come Wagner.
Ciò che differenziava gli economisti inglesi da Marx era la loro superficialità, ma ciò che differenziava gli economisti tedeschi da lui era la loro astrattezza. E infatti Marx più volte lo dice nelle Glosse: il valore, il valore di scambio, il valore d'uso non sono "soggetti"; l'unico vero soggetto è la "merce". Marx non voleva fare il "filosofo dell'economia in generale" ma il "fenomenologo critico dell'economia politica borghese e del capitalismo in particolare". Ecco perché, scrivendo il Capitale, era partito con la descrizione della merce.
Se si parta dalla merce si arriva a capire che, nel capitalismo, tutto è anzitutto "merce", non anzitutto "denaro", anche se ovviamente non può esserci merce senza denaro (senza denaro c'è solo "valore d'uso", "autoconsumo"). È importante ribadire il primato della merce, in quanto nella storia le civiltà fondate sugli antagonismi sociali conoscevano il primato del "denaro", senza però conoscere quello della "merce", che invece è tipico del capitalismo, dove infatti anche chi lavora, la sua stessa forza-lavoro, è mercificata.
I tre elementi del tutto nuovi del Capitale Marx li spiega a Engels in una lettera dell'8 gennaio 1868:
  1. a differenza di ogni economia del passato, la quale considera come dati a priori i frammenti particolari del plusvalore con le loro forme fisse di rendita, profitto, interesse, nel mio libro viene trattata per prima cosa la forma generale del plusvalore, in cui tutto questo si trova ancora indistinto, per così dire in una soluzione [cioè il plusvalore viene trattato indipendentemente dalle sue forme particolari: profitto, interesse e rendita, proprio perché lo sfruttamento gli è intrinseco];
  2. a tutti gli economisti senza eccezione è sfuggita la cosa semplice che, essendo la merce un che di duplice di valore d'uso e di valore di scambio, anche il lavoro rappresentato nella merce deve avere carattere duplice [concreto e astratto, ed è proprio in quello "astratto" che si cela lo sfruttamento tipico del capitale];
  3. il salario è rappresentato per la prima volta come forma fenomenica irrazionale di un rapporto che si cela dietro a questa forma (sia nel salario a tempo che in quello a cottimo)... [in quanto non può mai essere dato un salario corrispondente al lavoro, anche se formalmente il capitale pretende di farlo].
E in quella lettera Marx indicava anche una possibile soluzione per uscire da queste contraddizioni fondamentali del capitalismo: "realmente, nessuna forma sociale può impedire che, in un modo o nell'altro, sia il tempo di lavoro disponibile della società a regolare la produzione. Ma finché questa regolazione non si attua mediante il controllo diretto, consapevole, del tempo di lavoro da parte della società - il che è possibile solo con la proprietà comune -, bensì mediante il movimento dei prezzi delle merci...", le cose non cambieranno mai.
Dunque se "merce" vuol dire "scambio di equivalenti" (merce contro denaro), essa vuol dire anche che in questo scambio i contraenti sono entrambi liberi, giuridicamente e quindi formalmente liberi. Se Marx fosse partito dal denaro, non sarebbe stata chiara questa realtà di schiavitù sociale mascherata da una libertà giuridica.
Nel capitalismo lo scambio non serve anzitutto per mantenere la schiavitù sociale (anche per questo, benché la "schiavitù fisica o personale" sia formalmente abolita), quanto piuttosto per accrescere il capitale, cioè per valorizzare il denaro. Lo scambio, nella società borghese, non avviene perché c'è "schiavitù" (come in quella greco-romana), ma perché c'è la "libertà", una libertà fittizia, in quanto serve soltanto, in definitiva, a valorizzare il capitale investito, grazie allo sfruttamento della forza-lavoro, che dà alle merci un surplus di valore non pagato, estorto in forza della proprietà privata dei mezzi produttivi.
Sotto questo aspetto il "valore" di una merce non può stare anzitutto nel fatto d'essere "scambievole", anche se certamente una merce, essendo prodotta per essere venduta, finché non entra in un mercato ha un valore non riconosciuto (gli economisti borghesi direbbero che il suo prezzo è nullo).
Marx aveva perfettamente ragione quando sosteneva che il valore di scambio è solo "la forma fenomenica del valore", essendo la sua sostanza frutto di un'estorsione. Quando la merce entra nel mercato, gronda già di sangue e sudore - quello del lavoratore -, ed è questo il suo valore economico, che è anche e anzitutto sociale. Nella società borghese, una merce non è anzitutto "valore d'uso" per chi l'acquista né "valore di scambio" per chi la vende, ma è "valore", cioè lavoro non pagato.
Il prezzo della merce è indipendente dal suo valore, come il valore è indipendente dal modo come viene gestito, tant'è che - si potrebbe aggiungere alla tesi marxiana - nel cosiddetto "socialismo reale" il plusvalore non era estorto da capitalisti privati ma dallo Stato sociale, che non aveva neppure bisogno di un mercato. Anche in quel socialismo i lavoratori erano giuridicamente liberi, ma socialmente restavano schiavi di uno Stato poliziesco che li imboniva sul piano ideologico, facendo loro credere di costruire un sistema alternativo al capitalismo. Mentre cioè nei paesi capitalisti l'illusione della piena libertà è data dal potere d'acquisto della moneta, nei paesi socialisti autoritari era data dall'ideologia.
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Il prezzo di una merce è dato da fattori più economici che sociali o, se si preferisce, più finanziari che economici. Nelle Glosse Marx fa l'esempio del grano: "se per un cattivo raccolto sale il prezzo del grano, sale dapprima il suo valore, poiché una data quantità di lavoro si è realizzata in un prodotto minore; poi sale ancor più il suo prezzo di vendita. Quanto più il grano viene venduto al disopra del suo valore, tanto più altre merci, nella forma naturale o nella forme di denaro, vengono vendute al disotto del loro valore, e questo anche se non scende il loro prezzo in denaro [questa differenza, posta da Marx, tra valore e prezzo è impossibile capirla se non si capisce la differenza tra lavoro concreto e lavoro astratto]. La somma di valore rimane la stessa [proprio perché esiste una media del valore data dal lavoro astratto], quand'anche fosse aumentata l'espressione in denaro di questa somma complessiva di valore".
Marx in sostanza si era annotato che se si guardano solo i prezzi (come in genere fanno gli economisti borghesi, che non a caso non vedono il plusvalore ma solo il profitto), non si capisce la natura dello sfruttamento intrinseco al capitale: al massimo si può costatare la speculazione (che in effetti si verifica quando una merce molto richiesta scarseggia sul mercato). E aggiunge, molto giustamente, prevedendo quasi i limiti di quello che nel secondo dopoguerra verrà chiamato dai keynesiani il Welfare State, con cui si doveva porre rimedio ai disastri delle guerre mondiali frutto della logica del laissez faire, e con cui si volle trovare un'alternativa al cosiddetto "Stato socialista di tutto il popolo", che se anche esistesse uno "Stato sociale" (espressione usata da Schäffle in Capitalismo e socialismo, del 1870, e attribuita erroneamente a Marx), in caso di cattivo raccolto del grano, non sarebbe assicurata sin dall'inizio sia la produzione che la distribuzione dello stesso, sottraendola agli "usurai", proprio perché la definizione di "Stato sociale" è una contraddizione in termini, in quanto nessuno Stato capitalistico è in grado di opporsi alla legge del valore (neppure se mettesse delle "tariffe sociali" sui beni di prima necessità).
Insomma mentre nella definizione di "prezzo" entrano in gioco molte componenti, in quella di "valore" la principale è una sola: lo sfruttamento della forza-lavoro (ovvero l'intensità e la durata di questo sfruttamento), cosa che nessun economista aveva capito prima di Marx, anche se molti avevano capito la natura dello sfruttamento del lavoro come forma di arricchimento per il capitalista.
In particolare quello che non si era capito era che nello sfruttamento il valore di una merce non può mai essere un equivalente del lavoro impiegato per produrla. La merce contiene un plusvalore, cioè un valore supplementare che non viene pagato, proprio perché il salario è stabilito prima della produzione, sulla base di un certo tempo del lavoro. Finché c'è salario c'è sfruttamento del lavoro. È vero che il salario si può contrattare, ma fino a un certo punto, poiché l'eccedenza di forza-lavoro (dovuta alla mancanza di proprietà privata), gioca a favore del capitalista, che può imporre un salario minimo di sopravvivenza (quel salario - si può aggiungere - che andrà oltre la soglia della sopravvivenza in seguito allo sfruttamento imperialistico della periferia coloniale dei paesi occidentali).
"Il capitalista - scrive Marx - appena ha pagato all'operaio l'effettivo valore della sua forza-lavoro [qui Marx vuol dire "quello stabilito per contratto"], si appropria del plusvalore con pieno diritto... Nel valore, non 'costituito' dal lavoro del capitalista, c'è una parte di cui egli può appropriarsi 'legalmente', cioè senza violare il diritto corrispondente allo scambio delle merci".
Per quale motivo nei rapporti schiavili del mondo greco-romano non ci poteva essere "plusvalore" nella forma borghese? Proprio perché non c'era salario, che presuppone l'esistenza di due persone libere sul mercato del lavoro, di cui una proprietaria e l'altra nullatenente. Là dove il lavoratore è socialmente e giuridicamente schiavo, lo schiavista non ha interessi particolari a sviluppare tecnologia e macchinari per contenere il costo del lavoro, per supplire alle rivendicazioni salariali, per intensificare lo sfruttamento senza aver bisogno di ricorrere alla coercizione fisica.
Essendo diventato il lavoratore un soggetto giuridicamente libero (e ha potuto diventarlo liberandosi prima dello schiavismo poi del servaggio feudale), il capitalista ha necessità di porre fra sé e il salariato dei mezzi macchinari per realizzare lo sfruttamento del lavoro (che in tal caso non è proprio sfruttamento della "persona" quanto piuttosto della sua "forza-lavoro"). Questo significa che il capitalismo è basato sullo sdoppiamento tra realtà di fatto (la non proprietà dei mezzi produttivi da parte del lavoratore) e un'astrazione formale (la libertà giuridica universalmente riconosciuta, indipendentemente dalla propria origine sociale).
Responsabile di tale dicotomia non è il capitalista in sé ma la cultura borghese ch'egli rappresenta, la quale, a sua volta, per come è venuta formandosi, è figlia prima della teologia cattolica, poi di quella protestante. Cosa che Marx qui non dice e che nel Capitale si limitò a brevissimi cenni, lasciando però capire che su questa strada si dovessero fare ancora molti studi. E se si fossero fatti (evitando che il loro sviluppo fosse patrimonio dei soli intellettuali "borghesi" come p.es. M. Weber e W. Sombart), avremmo sicuramente saputo accogliere con maggiore intelligenza questi lasciti marxiani. Soprattutto si sarebbe capita l'importanza di questa sua affermazione, che racchiude la vera alternativa al capitalismo: "Nelle comunità primitive, dove ad es. i mezzi di sussistenza vengono prodotti e ripartiti in comune tra i componenti della comunità, e il prodotto comune soddisfa direttamente i bisogni vitali di ciascun membro della comunità, di ciascun produttore - il carattere sociale del prodotto, del valore d'uso, sta nel suo carattere comunitario" (e non - si potrebbe aggiungere - nel fatto che diventa "valore di scambio" sul mercato).
In un'altra lettera scritta a Engels il 25 marzo 1868, Marx considerava "straordinariamente importanti" i libri di G. L. Maurer, poiché in essi trovava conferma una sua tesi secondo cui in Europa, originariamente, vi era stata una proprietà comune, sociale, di derivazione asiatico-indiana, e non la proprietà privata di ogni singolo coltivatore. Prima di espropriare questi contadini liberi era stato distrutto il comunismo primitivo. "Cose evidenti non sono esaminate neanche dalle menti più notevoli - dice Marx facendo anche autocritica - a motivo di certa cecità dovuta a pregiudizio (judicial blindness)". Si resta "sorpresi di trovare nelle cose più antiche le cose più recenti".
Insomma, e per concludere, quando Wagner, Rodbertus e Schäffle dicono che la merce ha un valore d'uso sociale o che esistono "beni statali" (come la salute, l'istruzione ecc.) che non possono essere qualificati come "merci", non si rendono conto che nello Stato capitalistico tutto è mercificato, ivi incluse le loro lezioni accademiche.


1 Le Glosse si trovano in un quaderno di estratti degli anni 1881-82, che porta il titolo di Oekonomisches en general (X). La traduzione si trova in Marx, Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti, Roma 1963. Probabilmente è l'ulti­ mo suo scritto di carattere economico.

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