Quel
che sarà il parlamento italiano dopo che il disegno renziano sarà
giunto in porto è ampiamente noto. La Camera dei nominati e della
maggioranza governativa a priori funzionerà senza intoppi come
cassa di risonanza e ratifica; il Senato dei gerarchi e dei podestà
perfezionerà l’accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo. Il
tutto per la legittimazione «democratica» delle decisioni di
palazzo Chigi. A quel punto l’Italia sarà un caso unico di Repubblica
monocratica dominata da un capo di governo plenipotenziario,
eletto da una minoranza di cittadini e posto in condizione di
controllare le autorità di garanzia e tutti i poteri dello Stato,
eccezion fatta (fino a quando?) per la magistratura.
Tra poco — probabilmente tra un
annetto — questo programma comincerà a realizzarsi
organicamente. Ma non dobbiamo aspettare nemmeno pochi mesi per
assaporarne i primi frutti avvelenati. Quanto sta accadendo con la
«riforma» della scuola è un’anticipazione molto istruttiva di ciò che
ci attende. Un indizio e una prova tecnica, somministrata per
testare il paese e per assuefarlo al nuovo che avanza.
Raramente, forse mai prima d’ora, si
era assistito alla scena di un ramo del parlamento italiano che vota
in tranquillità a favore di un provvedimento di indiscutibile
rilevanza (che modifica in profondità strutture e modo di operare
di un settore vitale della società, e le condizioni materiali di
lavoro e di vita di milioni di cittadini) mentre l’intero comparto
investito da quel provvedimento esprime la propria assoluta
contrarietà. Lo sciopero del 5 maggio e la manifestazione contro
le prove Invalsi possono essere giudicati come si vuole, ma su una
cosa non sarebbe serio eccepire. Entrambi attestano l’unanime
avversione del complesso mondo della scuola — insegnanti, studenti,
personale tecnico e amministrativo — a un modello che non per caso
ruota intorno a due cardini della costituzione neoliberale: la
sedicente meritocrazia (foglia di fico propagandistica
a copertura del ritorno a logiche censitarie, autoritarie
e oligarchiche) e la privatizzazione della sfera pubblica.
C’è tutto sommato di che stupirsi per
la prontezza e precisione della diagnosi che insegnanti e studenti
hanno fatto della «buona scuola» renziana. Evidentemente
l’ideologia mercatista non ha ancora totalmente invaso l’anima del
paese. O forse la realtà della scuola italiana è talmente evidente
nelle sue contraddizioni e miserie da non permettere quelle
operazioni di cosmesi — di camouflage, direbbe qualcuno — che
funzionano altrove. Studenti, operatori della scuola e tanti
genitori sanno troppo bene che cosa in realtà si nasconde dietro la
vergognosa retorica dell’«eccellenza» e dell’«autonomia», della
«selezione» e della logica premiale del «merito». E dietro il ricatto
della stabilizzazione della metà dei precari in cambio
dell’accettazione dell’intera «riforma».
In un paese che figura stabilmente
all’ultimo posto della classifica Ocse per la percentuale di Pil
investita nella formazione dei giovani le chiacchiere restano
a zero. A chiarire come stanno le cose provvedono gli edifici
fatiscenti e i tanti soldi come sempre regalati alle private. Le
collette per comprare la carta igienica e il toner delle stampanti.
E i bassi salari degli insegnanti di ogni ordine e grado,
responsabili anche del poco rispetto che taluni genitori mostrano nei
riguardi di chi si impegna per istruire i loro venerati rampolli.
Sta di fatto che contro la «riforma»
renziana la scuola ha messo in campo una protesta pressoché
universale, benché anni di divisioni tra le organizzazioni
sindacali e un’eccessiva timidezza nelle iniziative di lotta
rischino di vanificare le mobilitazioni. Non solo la scuola si
è fermata in occasione delle agitazioni, ma è in fermento da
settimane e manifesta senza reticenze un consapevole
e argomentato dissenso. Peccato che tutto questo al parlamento
non interessi né poco né punto. Quel che si mostra allo sguardo degli
osservatori è uno sconcertante parallelismo, quasi che «paese
legale» e «paese reale» non fossero distinti ma dialetticamente
connessi, bensì proprio dislocati su pianeti diversi. Per cui quanto
accade nell’uno — le agitazioni, le preoccupazioni, il disagio,
la protesta — non turba l’impermeabile autoreferenzialità
dell’altro, ormai (di già) assorbito nella recezione e promozione
della volontà del reuccio che si balocca alla lavagna col suo
approssimativo idioma burocratico.
Certo, non è la prima volta che si
assiste a un fenomeno del genere. Qualcosa di simile è già accaduto
col Jobs act, varato mentre le fabbriche erano in subbuglio per la
cancellazione dell’articolo 18. Ma si sa che le questioni di lavoro
e in particolare di lavoro operaio dividono il paese (e gli stessi
sindacati) e offrono ai governi ampi varchi per operare forzature.
Il caso della scuola è diverso per la sua connotazione
essenzialmente interclassista e per questa ragione prefigura
plasticamente il quadro al quale dovremo abituarci nel prossimo
futuro. Protesti pure il paese, scendano pure in piazza
i cittadini, si mobiliti quel che resta dell’opinione pubblica. La
cittadella della politica non si degna nemmeno di verificare la
pertinenza delle doglianze, tanto basta a se stessa e può fare da sé,
in una miserabile riedizione dell’autocrazia di antico regime. Può
darsi che questa non sia che un’illusione e che un programma
incentrato sull’autonomia del politico si riveli, oltre che
indecente, impraticabile in virtù della reattività del corpo
sociale. Ma di certo risulta evidente a quale poverissima cosa si
saranno ridotti, in tale scenario, parlamentari e partiti. Mentre
la politica avrà negato se stessa con l’essersi anche formalmente
ridotta a mera funzione di dominio di una casta sulla cittadinanza
costretta a obbedire.
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