Sulla vicenda delle pensioni - sollevata con la sentenza
della Corte Costituzionale - si sta esercitando ora la pressione dei
"concreti", ossia degli ideologi che devono far passare questa semplice
idea: se c'è un vincolo di bilancio pubblico, e i soldi non ci sono, non
ci sono neanche diritti da tutelare. O comunque la misura in cui
debbono essere riconosciuti dipende dal bilancio.
Il discorso appare sensato solo se si accetta un assioma mai
esplicitato: l'oggettività, la cornice entro cui ci si può muovere per
erogare risorse necessarie a far vivere dignitosamente la popolazione, è
un confine invalicabile di cui quanti parlano di "diritti acquisiti"
non vogliono tenere conto. E in effetti la dimensione della "torta" da
dividere, su qualsiasi tavola, determina la porzione che tocca a
ciascuno.
Sarebbe tutto giusto se la "torta" fosse effettivamente il totale
delle risorse prodotte, ovvero della ricchezza complessiva. Nessuno, in
quel caso, pretenderebbe di avere quel che non è possibile generare dal
nulla.
Ma è così? Naturalmente no. Le risorse da destinare al welfare son
una frazione di quella ricchezza. Per la precisione, sono una frazione
del bilancio pubblico, che è a sua volta soltanto una parte della
ricchiezza totale prodotta.
Quelle risorse sono insomma "ciò che rimane"
una volta sottratte le quote che vanno al profitto delle imprese, alla
manomorta dei mazzettari, alla rendita finanziaria e immobiliare, e
infine a tutte le spese dello Stato considerate prioritarie rispetto al
welfare. Se un governo deve decidere se sono più importanti le spese
militari o quelle sanitarie, non c'è dubbio che metterà al primo posto
la necessità di mantenere forze armate efficienti. Poi, se avanza
qualcosa, ci si potrà fare altro.
L'"oggettività dei limiti" è insomma spostata dal totale a un resto, per di più in continua restrizione ("c'è la crisi...").
Ma c'è di più, e proponiamo qui di seguito l'editoriale di Fabrizio Forquet, su IlSole24Ore
di oggi, come esempio di questa ideologia "realista" che nasconde la
realtà dietro un limite determinato socialmente e politicamente.
Oltre a questo confine ben poco "oggettivo", infatti, vengono
evidenziate due altre tendenze altrettanto presuntamente "oggettive": i
vincoli imposti dai trattati costitutivi dell'Unione Europea e la
diversa dinamica generazionale rispetto all'immediato dopoguerra.
Quei vincoli sono scelte politiche, spesso fondate su presunzioni
destituite di ogni fondamento scientifico (come, per esempio, i due
limiti di Maastricht più conosciuti: il 3% nel rapporto deficit/Pil e il
60% del debito pubblico rispetto al Pil), che producono risultati
opposti rispetto a quelli promessi (chiedere ai greci per avere
conferma).
La diversa dinamica generazionale, invece, è il risultato di una
modificazione degli stili di vita conseguente al "benessere" raggiunto
in una determinata congiuntura di sviluppo economico. L'individualismo
consumistico, che è stato imposto come modello culturale obbligato, ha
ridotto il numero dei figli per famiglia, la moltiplicazione dei single di entrambi i sessi, ecc. E' dunque "oggettiva", ma come "risultato".
La convergenza di questi tre limiti oggettivi, nel discorso
ideologico mirante a "rinominare" la sfera dei diritti in termini di
"trattamenti possibili soltanto se le risorse ad essi destinate sono
adeguate", dovrebbe contribuire a definire i contorni di una
trituratrice destinata a spogliarci di ogni pretesa.
Per comodità espositiva, seguiamo il ragionamento di Forquet, intervallandolo con le nostre osservazioni:
La Consulta e l’illusione di «diritti» senza fine
di Fabrizio Forquet
Le
sentenze della Corte costituzionale vanno accolte sempre con grande
rispetto. E l’ultima pronuncia che boccia la tassa sul fumo elettronico
ha molte ragioni al suo arco. Ma è difficile non condividere le
perplessità arrivate da più parti sulla sentenza spacca-conti che ha
spazzato via lo stop all’indicizzazione delle pensioni. Se in
quell’occasione gli stessi giudici si sono divisi sei a sei sulla
decisione, evidentemente non c’era un diritto così assoluto da tutelare.
E le ragioni che imponevano alla Corte la bocciatura di una norma che
vale tra i 13 e i 19 miliardi non dovevano essere così inderogabili da
mettere a rischio la tenuta del bilancio pubblico, come ancora ieri
hanno osservato gli analisti di Standard & Poor’s.
Sembra
quasi che una parte dei giudici costituzionali viva in mondo tutto suo,
a prescindere dalla realtà, dai vincoli europei in cui è inserita
l’Italia, dai cambiamenti strutturali che nell’ultimo decennio sta
affrontando il Paese. Un problema che non riguarda certo solo la Corte
costituzionale, ma anche le élite politiche e sindacali, e i tanti che
difendono rendite di posizione anacronistiche.
Contropiano.
Il rispetto è durato molto poco. Cinque righe dopo già si bolla la
maggioranza della Consulta come gente "fuori dal mondo reale", ovvero da
quello disegnato dalla crisi, dall'Unione Europea e dai conseguenti
"cambiamenti strutturali". Nello stesso calderone degli illusi vengono
infilati sindacati (quelli "complici", che hanno accettato fin qui
qualsiasi taglio!), alcuni partiti o frange di essi (palese il
riferimento alla "sinistra del Pd"), chiunque ritenga che determinati
diritti sanciti dalle leggi dello Stato siano per ciò stesso
"esigibili".
In
Italia troppe tutele vengono equiparate a diritti assoluti, troppe
garanzie sono difese come diritti intangibili. Andrebbero invece
trattate semplicemente per quello che sono: tutele e garanzie che sono
utili, vanno benissimo, ma solo fino a quando c’è una compatibilità
economica che le renda possibili.
C.
Difficile essere più espliciti. Non esistono diritti, ma solo
prestazioni che dipendono dalla "compatibilità economica". Il come si
creano le "compatibilità" non è però argomento affrontato: è,
evidentemente, un "dato oggettivo" che non va indagato. Altrimenti si
potrebbe scoprire che tanto oggettivo non è...
Quello
delle pensioni è il caso più eclatante. Diritti “acquisiti” si dice. Ma
in che epoca? Quando con il babyboom la popolazione passava dai 45
milioni del dopoguerra ai 57 milioni del 2000? Quando gli occupati
crescevano a tempo indeterminato e con loro aumentava progressivamente
il monte contributivo? Quando la speranza di vita si fermava a 69 anni
(nel ’71) e non a 82 come oggi? Quelle cifre rendevano “sostenibile” un
sistema pensionistico che oggi non è più sostenibile e rendevano
“sostenibili” trattamenti che oggi non sono più sostenibili.
Trattamenti, tutele, appunto, non diritti.
Trattamenti
da rivedere e aggiornare continuamente al cambio del contesto
economico. Altrimenti i diritti presunti di alcuni diventano la
disperazione di altri, condannati a non trovare lavoro e a non avere
alcuna pensione.
C. Le
pensioni, dunque, non possono più essere pensate come un trattamento
stabile una volta finita la vita lavorativa; sono un qualcosa che "viene
aggiornato continuamente col cambiare del contesto economico". Un anno
prendi tot, l'anno dopo di meno, poi magari un giorno ci sarà anche un
aumento giustificato da un avanzo di bilancio. In più c'è solo la solita
menzogna per cui sarebbero le pensioni pagate oggi a chi lavorava prima
a causare la miseria delle pensioni che saranno versate un giorno a chi
sta lavorando oggi. Menzogna, e anche piutttosto spudorata, perché
questa diversa dinamica contributiva è stata anch'essa una scelta
politica - niente affatto "oggettiva", con conseguenze reali - che ha
creato precarietà assoluta, salari miserabili, versamenti contributivi
altrettanto miserabili e quindi l'aspettativa di un'anzianità
angosciosa.
Ma
non è certo solo un problema di pensioni. Dopo anni di Pil in continua
ascesa, l’Italia negli anni 70 si è potuta dare il servizio sanitario
pubblico più universale dell’Occidente. Un fiore all’occhiello (per
molti versi, non tutti) del nostro welfare. Ma non più sostenibile nella
sua universalità con il saldo di entrate e uscite che il settore
pubblico oggi si ritrova. A meno di non affossare definitivamente il
sistema produttivo con un livello di tassazione inaccettabile. Il nuovo
contesto economico, evidentemente, impone anche qui di superare la
teoria dei diritti intoccabili e di avviare una serena discussione sulla
riduzione del perimetro dello Stato, aprendo a forme di copertura
assicurativa per le fasce di reddito più elevate.
C.
Ecco qui il secondo "diritto" da cancellare. La salute non va più
tutelata a prescindere. Anch'essa deve "variare con il contesto
economico". Se c'è crisi, non puoi pretendere d'essere curato. Se c'è
recessione duratura, devi morire. Non è una questione personale, è solo
una questione di affari (come diceva "Il padrino").
Anche
il dibattito sulla scuola, a ben vedere, ha a che fare con tutto
questo. Perché davanti alle nuove domande cui dovrebbe rispondere il
mondo dell’istruzione, si pretende di difendere un vecchio modo di
lavorare, senza valutazione e riconoscimento del merito, facendosi scudo
di presunti diritti, diritti di alcuni (la parte più sindacalizzata
degli insegnanti) a discapito di altri (gli studenti). Dimenticando,
peraltro, completamente i doveri, come quello di non fissare uno
sciopero nel giorno dei test di valutazione Invalsi o di non bloccare
gli scrutini.
C.
E tre. Non poteva mancare l'istruzione, terzo pilastro - insieme a
pensioni e sanità - del miglioramento delle "aspettative di vita" nel
secondo dopoguerra. Con, anche qui, il vergognoso tentativo di mettere
insegnanti (quelli "più sindacalizzati", ci mancherebbe...) contro gli
studenti. O meglio, i secondi contro i primi.
È
un problema culturale che va ben oltre una sentenza, sbagliata, della
Corte costituzionale. Ha a che fare con l’illusione italiana delle
aspettative crescenti, con l’equivoco dell’espansione continua e
illimitata di quelle tutele che erroneamente chiamiamo diritti o,
peggio, diritti acquisiti. Una vera e propria ideologia cresciuta quando
l’Italia, Paese nato povero, si è progressivamente arricchita negli
anni del dopoguerra. Sembrava un’espansione senza fine, alla quale era
giusto associare un’espansione senza limiti delle tutele e dei
trattamenti economici.
C. "L'illusione
delle aspettative crescenti", "l'espansione continua e illimitata", è
l'anima del modo di produzione capitalistico. Strano che Forquet,
editorialista per conto di Confindustria, se lo sia improvvisamete
dimenticato. Il "progresso" promesso dal capitale è appunto un
miglioramento continuo delle condizioni di vita, salariali, sanitarie,
culturali; di pari passo con l'accumulazione del capitale. No? Non è più
così? Il capitalismo ha finito la spinta propulsiva e bisogna stringere
tutti la cinghia? E se è così, perché imprenditori e finanzieri
continuano a spiegare che "bisogna competere" per "promuovere una
crescita più robusta"?
Poi
quella crescita si è bloccata. Ma una parte importante delle élite
politiche, sindacali, culturali, ma anche della sua popolazione, ha
preferito non vedere e vivere nell’illusione dell’espansione sempre e
comunque. Si sono così respinte le riforme e, con esse, ci si è
rifiutati di fare i conti con la realtà. La sentenza della Corte
costituzionale sull’indicizzazione delle pensioni è anche questo.
C.
La conclusione è coerente. Forquet, forse senza accorgersene, ci
descrive un nuovo modello istituzionale in cui la Costituzione non è più
il baricentro. Questo passa definitivamente alla dinamica economica,
altamente varibile, purtroppo. Quindi non vi dovete aspettare nulla, non
dovete più credere di avere dei "diritti" né pretendere che siano
rispettati; dovete solo ballare al ritmo della musica di Confindustria e
dell'Unione Europea. Che vi diranno quando c'è da fare la fame e quando
invece (ma raramente) si potrà chiedere di mangiare. Un futuro da
mendicanti, non da persone "libere e dignitose".
Forse è ora di uscire tutti di casa e trattare questo sistema come le piazze d'Italia trattano Salvini...
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