Il
disastro economico che pervade da un capo all’altro l’Europa, la
stessa crisi del modello europeo fondato sul primato e sui vincoli
dell’unione monetaria, ripropongono, con maggiore vigore rispetto al
recente passato, il tema della funzione della politica nelle nostre
società e quello della sua autonomia rispetto agli altri poteri.
Nel secolo trascorso l’autonomia della politica si è inverata nell’esercizio collettivo di una critica dell’esistente attraverso i partiti di massa, nel conflitto tra visioni diverse, antitetiche, del mondo, tra differenti progetti di società.
Oggi
i partiti, quelli di massa che abbiamo conosciuto nel corso del
Novecento, non esistono più: sono stati sostituiti da simulacri di
partito politico, dietro cui predominano soltanto le carriere personali
dei leader ed il loro rapporto diretto con la massa elettrice,
naturalmente passiva ed amorfa.
In
quanto all’indipendenza di questi leader, e delle loro organizzazioni,
rispetto al potere dei mercati, delle istituzioni bancarie e dei
grandi gruppi industriali, è inutile dire che è inesistente: la loro è
una funzione asseveratrice della ineluttabilità del modello economico
in cui le nostre esistenze sono immerse.
Ogni giorno siamo inondati da notizie sull’andamento delle borse, sul rendimento dei titoli di Stato. Parole come spread, default, listini, indici, sono entrati ormai nel linguaggio corrente delle persone.
Cosa
c’è dietro quei numeri, chi ne determina l’andamento, nessuno però lo
sa. Tutti sanno però cosa significano le misure che vengono adottate
dai governi nazionali per stare dietro alle fluttuazioni dei listini
della borsa e dei tassi d’interesse sul debito, perché toccano la carne
viva della loro esistenza, incidono sulle loro aspettative e sul
proprio futuro.
In
base a questo meccanismo, mentre la speculazione finanziaria rimane
anonima, impersonale, le manovre di risanamento colpiscono uomini e
donne in carne ed ossa, con nome e cognome. Non solo: gli stati e i
governi, la cui funzione negli ultimi vent’anni è stata sistematicamente
ridimensionata in nome del libero mercato, oggi vengono chiamati a
soccorrere un’economia ammorbata dagli effetti delle fraudolente
bancarotte del capitalismo finanziarizzato.
Il
problema, tuttavia, è che le politiche portate avanti dai governi
nazionali sotto la dettatura dei centri di potere finanziario europei,
lungi dal risolvere la crisi in atto, evidentemente la stanno
aggravando. Quando si dice che la cura è peggiore del male. Come in
molti fanno notare, ormai, i continui tagli alla spesa pubblica, figli
delle dissennate politiche di austerità imposte dall’Europa, stanno
avendo effetti esattamente opposti a quelli che si prefiggono: meno
consumi e occupazione, più debito e speculazione. Si è innescata una
spirale austerità/recessione, d’altro canto, che sta ammazzando le
nostre economie, negando ogni prospettiva di futuro alle giovani
generazioni.
Diciamolo
più chiaramente: i parametri di compatibilità europea, da Maastricht
in giù, fino a quelli imposti dai trattati sul Fiscal compact e sul
Mes, in questo quadro appaiono sempre più come il cappio che stringe il
collo dei paesi membri, non tanto la garanzia della loro stabilità od
il presupposto del loro futuro benessere. E non c’è bisogno di evocare
la Grecia per rendersene conto, basta guardare in casa propria.
E
se ciò sta accadendo, è potuto accadere, è perché la “funzione
politica” in Europa è ormai transitata dai governi e dai parlamenti alle
burocrazie finanziare: oggi in Europa la politica economica la fa più
la Bce che i governi nazionali e la stessa Commissione.
Come ha fatto correttamente osservare Mario Tronti, in suo libro intitolato La politica al tramonto, il tratto distintivo della politica moderna è stata la sua autonomia, il suo rapporto “agonico”,
conflittuale, con l’economia e le sue leggi. Ma anche la sua capacità
di scendere a compromessi, di trovare forme di mediazione col potere
economico. Proprio quello che manca oggi, nel contesto di sostanziale
esautoramento della politica da parte di organismi non democratici per
definizione.
Ma
chiediamoci: cos’è la politica senza conflitto? Qual è la sua funzione
senza dialettica tra distinte opzioni programmatiche e visioni del
futuro, senza l’appartenenza ad un campo anziché ad un altro? La
risposta è semplice: né più né meno che sterile politicantismo,
carrierismo, fredda amministrazione della cosa pubblica, subalternità al
potere economico.
Esattamente
quello che succede oggi nelle nostre società, dove, con la politica al
crepuscolo, le differenze tra le varie soggettività in campo sono
assolutamente fittizie, tutte facilmente ricomponibili nell’ambito della
comune appartenenza al partito della conservazione dell’esistente.
Da
questo punto di vista la vicenda del governo Monti è stata
proverbiale, chiarificatrice. Partiti e movimenti che per anni si sono
combattuti aspramente si sono poi ritrovati insieme a comporre la
maggioranza del nuovo governo dei professori. Forse perché hanno
cambiato idea sulle loro vecchie posizioni? No, è tutta un’altra
questione: ciò su cui per anni si sono divisi non costituiva nulla di
dirimente rispetto agli attuali assetti economici e sociali, italiani ed
europei. La lotta era condotta esclusivamente su un terreno che
potremmo definire “politicista”: è stato un rinfacciarsi continuo di
cose che, in linea generale, nulla avevano a che vedere con visioni
contrapposte della realtà, con la prospettazione di diversi modelli di
sviluppo per le nostre società. Per questo si sono potuti ritrovare
insieme, a sostenere senza troppi sacrifici le misure proposte dal
governo Monti.
Il grande tema di oggi è dunque l’autonomia della politica. Ma una politica autonoma ha
bisogno, oltre che di forme organizzative adeguate e chiari punti di
vista sulle questioni dirimenti dell’attualità, anche di una visione
generale dei rapporti di forza in campo e di un’idea condivisa della
prospettiva storica. Non sto proponendo un ritorno ad ideologie
escatologiche, che andrebbero ad ingabbiare l’azione degli attori
politici in visioni astratte della realtà, senza aderenza alle
condizioni oggettive dell’economia e della società. No. Ciò di cui sto
parlando è l’auspicio che nella nostra società possano trovare spazio,
svilupparsi, nuove culture critiche della realtà, capaci di sostenere
l’azione di partiti e movimenti realmente alternativi al modello
capitalistico oggi dominante.
In
questo senso lasciano ben sperare certe forme di movimentismo che
stanno cercando di farsi strada nelle nostre società, promuovendo una
critica dal basso degli attuali assetti di potere in Europa e delle
folli politiche di austerità che gli stati membri stanno pervicacemente
adottando. Essi, al di là delle rivendicazioni contingenti, possono
contribuire a scuotere il palazzo ed un sistema politico anchilosato,
ripiegato su se stesso, del tutto autoreferenziale. Possono contribuire a
riformare le nostre democrazie, perché la questione dell’autonomia
della politica, diciamolo chiaramente, ha molto a che fare con la loro
qualità.
D’altronde
sarebbe sbagliato considerare la democrazia solo un insieme di regole
a presidio della libertà dei cittadini. La sua vera essenza risiede
nel dare rappresentanza e forza di governo alle idee che promanano
dalla società, attraverso la mediazione delle forze politiche e delle
organizzazioni di massa. Cosa succede oggi nelle nostre democrazie?
L’azione dei governi è realmente l’espressione della volontà popolare?
Il potere decisionale risiede effettivamente nel parlamento e nei
governi nazionali? Chi afferma questo dice il falso, evidentemente. La
crisi della politica risiede sempre più nella sua inutilità, essendo la
sua attuale funzione quella di dare il crisma dell’ufficialità e della
cogenza a decisioni prese in altre sedi.
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