Pubblichiamo un
interessante saggio di Vladimiro Giacchè uscito sull'ultimo numero di
Democrazia e Diritto sulla questione strategica del rapporto tra il sistema
fiscale e il conflitto tra le classi.
Il
problema della tassazione e della fiscalità si trova al crocevia dei più
importanti snodi della politica contemporanea. Lo ritroviamo al centro della
sceneggiata storica dei Tea Parties statunitensi, tutta rivolta a creare
un’artificiosa continuità simbolica con la settecentesca “rivolta del tè”
contro le tasse imposte dalla madrepatria inglese alle proprie colonie,
affermando però oggi qualcosa di ben diverso, e cioè la libertà contro le
tasse, intese come simbolo dello spauracchio del “Big Government”. Lo troviamo
al centro delle gigantesche falle del tessuto istituzionale e di governance
dell’Unione Europea rivelate dalla crisi attuale, che hanno uno dei principali
luoghi d’origine precisamente nella volontà – iscritta nei Trattati – di non
assoggettare tutti gli Stati dell’Unione (o almeno dell’Eurozona) ad una
medesima disciplina e regolamentazione fiscale. Infine, lo troviamo al centro
del discorso ideologico populista e reazionario berlusconiano, di cui
rappresenta da sempre uno dei principali punti di forza. Grazie alla capacità
di trasfigurare nella forma di una “lotta contro l’oppressione fiscale” quella
che è in verità – come vedremo – una delle più efficaci e efferate
configurazioni assunte dalla lotta di classe in questo Paese. La cosa migliore
è partire proprio dall’esame di alcune delle più caratteristiche enunciazioni
del Berlusconi-pensiero sulle tasse.
1.
Il fisco nel Berlusconi-pensiero
“Se
lo Stato ti chiede più di un terzo di quanto guadagni, c’è una sopraffazione
nei tuoi confronti, e allora ti ingegni per trovare sistemi elusivi e addirittura
evasivi ma in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità”.
In
questa frase, pronunciata da Berlusconi – con audace mossa situazionistica –
proprio alla festa della Guardia di Finanza (11 novembre 2004), è contenuta
tutta intera l’ideologia berlusconiana del fisco. Questa ideologia, dispiegata
con grande potenza mediatica, e accettata di fatto anche da buona parte
dell’opposizione di centro-sinistra (di allora e di adesso), è facile a
sintetizzarsi: il fisco è la manifestazione di uno Stato predone e onnipotente,
e rappresenta un attacco alla libertà della proprietà ed al diritto di godere i
frutti del proprio lavoro. Rispetto a questo attacco, il “cittadino” ha diritto
di difendersi come può: cioè non pagando le tasse. Più di recente – a conferma
della sua coerenza in materia – Berlusconi ha anche enunciato la quota-limite
oltre la quale si situerebbe l’ “oppressione fiscale”, e cioè il 33%: il fisco
è “equo” quando la “sua richiesta si situa pressappoco intorno a un terzo di
ciò che il cittadino guadagna”. Lo ha detto il 10 settembre 2010 a Yaroslavl,
in occasione del Global Policy Forum promosso dal presidente della Federazione
Russa Medvedev.
Perfettamente
in linea con il Berlusconi-pensiero, il documento governativo – penosamente
condito di affermazioni pseudo-filosofiche – che accompagnava la “riforma”
fiscale tremontiana dell’epoca (lo si può leggere sulla Gazzetta Ufficiale n.
91 del 18 aprile 2003): “Nella nostra visione, il limite naturale, fondamentale
e costituzionale dell’imposizione fiscale è rappresentato dal lavoro e dalla
proprietà privata, basi fondamentali della libertà della persona e della
ricchezza della nazione”. E ancora: “Se il presupposto del prelievo non è
quanto serve allo stato, ma quanto può dare il privato; se non si ha una
visione autoritaria dello stato, che può imporre quanto vuole; se insomma si
accetta il principio del limite dell’imposizione, costituito dal rispetto del
lavoro, della proprietà, e dei frutti che ne derivano, è evidente che la misura
della giusta imposta dipende unicamente dal consenso dei cittadini. Da quanto i
cittadini sentono giusto di dover pagare allo stato a titolo di imposta sui
frutti del loro lavoro e della loro proprietà”.1
Si tratta, è il caso di ammetterlo, di affermazioni quasi commoventi: era
almeno dai tempi di Kant che l’Uomo, la libera volontà umana, la coscienza
dell’individuo non venivano posti così al centro del discorso politico. E va
detto che sul punto i Berluscones sono coerenti: basti pensare che, in un
recente e impagabile elogio delle società offshore tessuto da Oscar Giannino,
l’argomentazione-chiave è rappresentata dal richiamo al fatto che “la libertà
prevale, e tra le massime espressioni della libertà vi è appunto quella
dell’organizzazione della proprietà, al fine di ridurne i gravami a cominciare
da quelli fiscali”: precisamente per questo motivo le società offshore possono
dirsi, ad avviso dello stesso Giannino, “vero presidio di libertà”.2
Il
problema, ovviamente, è che in realtà quello di cui qui si parla non è la libertà
dell’Uomo astrattamente inteso. No: l’individuo al cui “intimo sentimento di
moralità”, al cui “senso della giustizia” Berlusconi e i suoi fidi
collaboratori fanno appello, difendone a spada tratta la “libertà”, è una
categoria di persone molto più ristretta. È l’Evasore. Per essere più precisi:
l’evasore potenziale, colui che può evadere il fisco. Cioè essenzialmente il
libero professionista, l’imprenditore (persona fisica) e ovviamente l’impresa
stessa (persona giuridica). Purtroppo, infatti, la commovente esaltazione della
volontà e della libera scelta come cardini del sistema fiscale, non vale per i
lavoratori dipendenti: i quali possono invece ammirare attoniti, ad ogni 27 del
mese, direttamente sul cedolino l’entità di quanto della loro busta paga
finisce in tasse. E notare, con comprensibile disappunto, che il peso delle
ritenute alla fonte per il lavoro dipendente è cresciuto costantemente nel
periodo che va dagli anni Ottanta ad oggi. Al riguardo vale la pena di
riproporre i dati citati in un documento prodotto da un gruppo di lavoro del
Nens sulla fiscalità: “L’entità delle ritenute rispetto alle imposte dirette
sale dal 40% circa del 1980 al 52% del 2008; al tempo stesso i proventi Irpef
da redditi non di lavoro dipendente insieme alle imposte sostitutive
(dell’Irpef) si riducono dal 37% a poco più del 24%. Ciò mentre la quota dei
redditi di lavoro dipendente sul valore aggiunto totale si riduceva dal 66% al
53%. In altre parole i redditi da lavoro dipendente si sono ridotti come quota
del reddito nazionale e al tempo stesso sono stati penalizzati dal prelievo
fiscale”.3
La “Libertà dalle tasse”
berlusconiana è insomma una libertà di ceto o di casta. E come tale presuppone
che gli altri, i non-liberi, paghino di più e tappino le falle create al
bilancio dello Stato dall’espressione della “volontà libera” e dall’“intimo
senso di moralità” dell’Evasore.
Ma
torniamo ora al discorso ideologico contemporaneo in materia di tassazione. Se
la smaccata variante “pro-evasore” è una caratteristica esclusiva di Silvio
Berlusconi, il discorso “anti-tasse” è un topos del pensiero conservatore e
liberista contemporaneo. Non è ovviamente questa la sede per un’analisi storica
del fenomeno, ma è importante fissare almeno alcuni punti. La marea della
retorica antitasse inizia negli anni Settanta e monta progressivamente,
diventando letteralmente invincibile dalla fine degli anni Ottanta. Negli anni
Settanta finiscono i 25 anni di rapidissimo sviluppo economico postbellico e
comincia una crisi di valorizzazione del capitale di lunga durata in tutti (o
quasi) i Paesi a capitalismo maturo. In questi Paesi, dopo aver fatto ampio uso
di ammortizzatori sociali per impedire che le conseguenze della crisi (leggi
disoccupazione tornata di massa, deindustrializzazione, delocalizzazioni)
avessero conseguenze esplosive sull’assetto economico e sociale, le classi
dominanti improvvisamente si accorgono degli “sprechi” rappresentati dal
welfare State e della sua “insostenibilità”. Cominciano gli anni delle
privatizzazioni, dello “Stato minimo”, della deregulation. La polemica
“anti-tasse” nasce e si sviluppa in questo contesto, e ha una duplice funzione:
da un lato, ottenere una sostanziale riduzione della tassazione delle imprese e
invertire la tendenza (predominante ancora negli anni Settanta) a recepire
nella legislazione il principio della progressività delle imposte; dall’altro,
indebolire lo Stato (“affamare la bestia”, secondo la raffinata formulazione di
Ronald Reagan), al fine di assoggettare al profitto privato quante più possibili
funzioni da esso svolte e al tempo stesso rendere semplicemente impensabile
anche solo l’ipotesi di un controllo statale/pubblico dell’economia. Il primo
aspetto ridà fiato ai profitti netti (dopo le tasse) delle imprese private e
opera una redistribuzione del reddito da “Robin Hood alla rovescia”. Il secondo
aspetto fa sì che al trend decrescente (da allora e sino ad oggi) dei salari
diretti si unisca una diminuzione reale dei salari indiretti (le prestazioni
sociali, appunto), e financo una trasformazione dei salari differiti (i
contributi pensionistici) in forme di finanziamento del capitale,
immediatamente sussunte e assoggettate alle sue logiche.4
L’ideologia “anti-tasse” è immediatamente “falsa coscienza” nel più pieno
significato del termine. E non soltanto per il fatto di celare (neppure troppo
accuratamente, a dire il vero) interessi di classe. Ma anche per il fatto di
“dimenticarsi” delle numerose funzioni che lo Stato svolge a beneficio del
capitale e che sono rese possibili unicamente dalla tassazione. Anche volendo
mettere tra parentesi gli ingenti trasferimenti alle imprese che vanno sotto il
nome di agevolazioni pubbliche o sotto altri nomi,5
si pensi alle condizioni generali di produzione, intese come infrastrutture
(fisiche e giuridiche), come formazione, come ricerca e sviluppo tecnologico.
È
chiaro ed è logico che tutte queste funzioni – essenziali per la stessa
riproduzione allargata del capitale – hanno un costo, che qualcuno dovrà pur
sostenere. Ma l’ideologia “anti-tasse” del neoliberismo rampante chiama questo
costo “oppressione fiscale” e contro di esso leva la bandiera degli “sgravi
fiscali”. Già George Lakoff ha opportunamente osservato come già il fatto
stesso di accettare questo linguaggio significhi far propria la visione del
mondo della reazione, contribuendo alla sua propagazione: “Pensate a quello che
evoca la parola ‘sgravio’. Perché possa esserci uno sgravio si presuppone che
ci sia una situazione gravosa, che qualcuno soffra, e la persona che rimuove la
causa di questa sofferenza diventa un eroe… Quando alla parola ‘sgravi’ si
aggiunge l’aggettivo ‘fiscali’, il risultato è una metafora. Le tasse sono
un’afflizione. Chiunque le elimini è un eroe, e chiunque cerchi di
impedirglielo è un malvagio… Le parole che evocano questo frame partono dalla
Casa Bianca e si diffondono attraverso i comunicati stampa a tutte le stazioni
radio, a tutte le emittenti televisivi e a tutti i giornali... E ben presto
anche i democratici parlano di “sgravi fiscali” – dandosi la zappa sui piedi”.6
In
Italia, alla metafora degli “sgravi fiscali” si accompagnano altre metafore.
Prima tra tutte: “mettere le mani nelle tasche degli Italiani”. Gustavo
Zagrebelsky ha notato come ci sia davvero, dietro questa espressione, “un’idea
generale del rapporto tra cittadini e Stato. Questa: che le imposte e tasse
siano taglieggiamenti e furti e che i governanti, chiedendo ai cittadini di
partecipare alle spese pubbliche, si comportino da ladri. Su questa premessa, è
chiaro poi che l’evasore non può essere considerato un asociale che si sottrae
ai propri doveri di cittadino responsabile nei confronti della collettività e,
anzi, che sia un parassita che vive alle spalle dei suoi concittadini. Lo si
deve guardare come un tartassato che fa bene a cercar di difendersi da chi (lo
Stato) cerca di derubarlo. In fondo, se non è un benemerito, è almeno uno che
merita tutta la nostra comprensione. Tanto che la norma che, al prezzo della
rinuncia da parte dell’amministrazione finanziaria alle sue pretese legali,
consente il rientro a poco prezzo di capitali illegalmente esportati è
denominato ‘scudo fiscale’, come se si dovesse apprestare una protezione contro
il nemico”.7 Queste considerazioni
meritano un’unica chiosa: proprio quest’ultima locuzione, “scudo fiscale”,
evidenzia comunque la specificità italiana, pur all’interno del mainstream
liberista anti-tasse. In effetti, in tutti i casi in cui la stampa straniera si
è occupata della (vergognosa) ennesima manovra di regalo fiscale agli evasori
coperta dai nostri media con l’eufemismo di “scudo fiscale”, l’ha chiamata col
suo nome: “tax amnesty”, “amnistia fiscale”. E veniamo quindi alla
particolarità del caso italiano, emblematicamente riflessa in questa specifica
torsione ulteriormente eufemistica del discorso dominante sul fisco.
2.
Il caso italiano: un evasione “sbalorditiva”, ma non troppo
La
pressione fiscale in Italia si è attestata nel 2009, secondo l’Istat, al 43,2%,
in aumento rispetto al 42,9% del 2008 (essenzialmente a causa del calo del
pil). Già a questo riguardo va osservato che in questo 43% rientrano ben 14
punti di contributi sociali che finanziano il sistema previdenziale. E, come
giustamente puntualizzato dallo studio del Nens già citato, “l’assimilazione
dei contributi alle imposte, del tutto comune nel dibattito corrente, è
errata”: infatti i contributi non rappresentano una tassa, ma “una forma di
risparmio (forzato) individuale che sarà consumato in futuro dai titolari”; le
imposte rappresentano quindi il 29%, e vanno a finanziare la spesa pubblica,
che include anche la spesa per interessi sul debito pubblico, più elevata in
Italia di diversi punti percentuali rispetto agli altri Paesi europei.8
Ma il punto fondamentale è un altro: la
“pressione” (attenti alla metafora in agguato!) di cui sopra riguarda soltanto
una fetta della popolazione. La vera specificità italiana riguarda infatti
l’elevato livello di evasione fiscale, che si attesta secondo l’Istat a 247
miliardi di euro di imponibile evaso, pari a 120 miliardi annui di tasse dovute
e non pagate (cioè oltre il 60% dell’intero gettito Irpef): per avere un’idea
di che cosa è in gioco, basti dire che le tasse evase sono pari a 8 punti di
prodotto interno lordo (mentre l’imponibile evaso corrisponde al 16-18% del
Pil). Ancora: le rendite immobiliari dichiarate sono inferiori del 22% rispetto
alle rendite catastali, mentre gli immobili presenti in catasto sono il 16% in
più di quelli indicati dai contribuenti.9
C’è
chi considera cifre come quelle riportate ancora ottimistiche. Secondo recenti
stime del centro studi di Confindustria, ad esempio, l’economia sommersa
sarebbe pari addirittura al 20% del pil, all’incirca 300 miliardi di euro. E il
Fondo Monetario Internazionale nel 2002 aveva giudicato il peso dell’economia
sommersa in Italia pari addirittura al 27% del pil, ossia il doppio del valore
medio dei Paesi appartenenti all’Ocse.10
In ogni caso, anche stando alle cifre più ottimistiche, le tasse dovute e non
pagate ammontano ogni anno ad una cifra pari a quasi 3 volte la famigerata
finanziaria “lacrime e sangue” da 90.000 miliardi di lire varata dal governo
Amato ai tempi della svalutazione della lira del 1992. Ogni anno l’“intimo
sentimento di moralità” degli evasori sottrae al fisco questa cifra.
Berlusconi,
dacché è al governo, ha provveduto a manifestare il suo ossequio nei confronti
di questo “intimo sentimento di moralità” in diversi modi. Il più noto è stato
rappresentato, nella XIV legislatura, da due condoni tombali consecutivi (tali
cioè da sanare una volta per tutte l’evasione pregressa e da bloccare gli
accertamenti fiscali in corso), nel 2002 e 2004. Per avere un’idea degli
effetti concreti del condono (e a riprova dell’irrilevanza del conflitto di
interessi ...), basterà citare il caso della Fininvest: che nel 2003 ha versato
al fisco 35 mln € per avere il condono su oltre 190 mln di evasione.11 Ma c’è di più: grazie alla normativa,
che aveva stabilito che per gli importi superiori a 3.000 euro per le persone
fisiche e a 6.000 per le persone giuridiche fosse sufficiente versare la prima
rata per rendere valido il condono, spesso non sono state versate neppure le
somme dichiarate in sanatoria. A gennaio del 2010 la Corte dei Conti ha così
accertato che le somme ancora dovute ammontavano a qualcosa come 4,6 miliardi
di euro (pari a circa il 18% del totale delle somme dovute dai condonati).12
Né
va dimenticata la cancellazione delle tasse di successione anche per i grandi
patrimoni, o la (prima) sanatoria per il rientro dei capitali esportati
illegalmente (per lo più evasione fiscale mascherata) dietro il pagamento di un
obolo ridicolo.13 E, da ultimo in ordine
di tempo, sarà il caso di ricordare la vendita del 16,8% del capitale di
Mediaset da parte dello stesso Berlusconi: questa vendita, avvenuta nell’aprile
2005, ha fruttato a Berlusconi e famiglia un guadagno di 1,9 miliardi di euro
completamente esentasse– grazie ad una provvidenziale norma, da poco approvata,
che detassava completamente le plusvalenze ricavate dalla vendita di
investimenti azionari immobilizzati.14
Non dubitiamo che “l’intimo sentimento di moralità” di Berlusconi e dei suoi
cari ne abbia tratto grande soddisfazione ...
Per
quanto riguarda l’attuale legislatura, le cose non vanno meglio. E, come sempre
nel caso italiano, bisogna tenere presenti sia normative di detassazione, sia
normative finalizzate a minimizzare il danno per gli evasori. Nella prima
categoria il provvedimento chiave è rappresentato dalla completa esenzione
dall’Ici dell’abitazione principale (d.l. 27 maggio 2008, n. 93). I critici di
questo provvedimento ricordano (giustamente) che “già nella precedente
legislatura il Governo di centro-sinistra aveva stabilito una parziale
detassazione ai fini Ici dell’abitazione principale”. Lo aveva fatto, però,
stabilendo un tetto ragionevole alla possibilità di usufruire dell’esenzione.
Il nuovo governo ha invece “cancellato le norme precedenti e ha stabilito
l’esenzione totale dall’Ici di tutte le abitazioni dichiarate dai contribuenti
come abitazioni principali, con l’unica eccezione delle abitazioni di lusso e
di quelle nelle ville e nei castelli (complessivamente 73.263 abitazioni a
fronte di 32,5 milioni di unità abitative esistenti in Italia al dicembre
2009). Con tale misura tanto maggiore è il valore catastale del fabbricato
abitato, tanto maggiore è il beneficio per il contribuente. Complessivamente si
sono sacrificati sull’altare della demagogia elettorale circa 3,3 miliardi di
euro ogni anno. Tutto ciò con buona pace di chi la casa non la possiede,
costretto a pagare il canone di locazione senza alcun significativo intervento
dello Stato”.15
Il secondo cantiere, quello del
sostegno (o – che è lo stesso – del mancato contrasto) all’evasione, è stato
anch’esso aperto subito: “il Governo Berlusconi ha provveduto a smantellare,
con il d.l. 25 giugno 2008, n. 112, gli strumenti messi a punto dal Governo
Prodi per contrastare l’evasione e favorire l’emersione delle basi imponibili.
Ci si riferisce alla ingiustificata soppressione degli elenchi telematici
clienti e fornitori, alla tracciabilità dei compensi professionali, alla
trasmissione telematica dei corrispettivi, all’abbassamento della soglia
antiriciclaggio per l’uso del contante, ecc.”. È importante sottolineare che si
trattava di strumenti “strategici non tanto per rafforzare la repressione delle
evasioni quanto, piuttosto, per prevenirle favorendo la progressiva emersione
‘naturale’ delle transazioni economiche. In particolare, va rilevato come
l’incrocio telematico dei rapporti clienti e fornitori risulti di grande
efficacia sia per contrastare le frodi (false fatturazioni, caroselli, ecc.),
sia per individuare i più abituali e frequenti fenomeni di occultamento di
costi e ricavi. Ed è dipesa, probabilmente, proprio dall’efficacia di questi
strumenti la necessità di sopprimerli prontamente, …proprio nel momento in cui
essi avevano iniziato a dare i loro frutti sia sul piano dell’incremento della
compliance che della repressione dell’evasione”. Soltanto due anni dopo il
governo ha fatto una parziale marcia indietro, prevedendo, con l’art. 21 del
d.l. 31 maggio 2010, n. 78, l’obbligo di trasmissione telematica all’Agenzia
delle Entrate delle fatture di importo superiore a 3.000 euro. Ma, ancora una
volta, è stato osservato con ragione che “si tratta di un obbligo del tutto
parziale e non ancora concretamente attuato, il cui adempimento sarà
paradossalmente più complesso della semplice e più efficace trasmissione
annuale dei dati di sintesi relativi ai rapporti con clienti e fornitori”.16
Un’altra decisione governativa che ha
gravemente indebolito il contrasto dell’evasione è stata la riduzione del 50%
delle sanzioni dovute in caso di definizione bonaria dei rilievi formulati in
sede di controllo. Questo intervento, attuato in due tempi (art. 83, comma 18,
del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, e art. 27 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185),
ha abbassato dal 25% al 12,5% la misura delle “sanzioni applicabili in caso di
definizione dei verbali, degli inviti al contraddittorio e di acquiescenza agli
accertamenti non preceduti da processi verbali o da inviti”.
Questa misura ha ridotto
significativamente i livelli di adempimento spontaneo, data la conseguente
maggiore convenienza ad evadere, colta al volo dagli interessati. E’ evidente,
infatti, che per bilanciare il dimezzamento delle sanzioni sarebbe stato
necessario incrementare notevolmente la frequenza dei controlli, Ma questo non
è avvenuto: “i controlli, o almeno quelli approfonditi, sono, al contrario,
diminuiti”. Anche in questo caso, dopo due anni, si è avuta una – molto
parziale – marcia indietro: si è stabilito che la misura della sanzione nei
casi di definizione bonaria dei verbali e degli inviti al contraddittorio
passi, dal 1° febbraio 2011, dal 12,5% al 16,66%.
Non va dimenticato, ovviamente, lo
“scudo fiscale” promosso da Tremonti tra fine 2009 e inizio 2010: 104 miliardi
di euro detenuti all’estero e non dichiarati, in gran parte frutto di evasione
(e peggio), sono stati “regolarizzati” versando un obolo del 5% del valore,
ossia molto meno della più bassa aliquota Irpef. E si tratta di denaro del
quale lo Stato italiano, secondo le leggi previgenti, avrebbe potuto trattenere
il 50%. Questi soldi sono stati “scudati” – come si dice con orrido neologismo
– e alla fine di questa brillante operazione finanziaria, presentata come
“lotta ai paradisi fiscali” e contemporaneamente come finalizzata a “mantenere
aperte le aziende, per non licenziare, per continuare l’attività” (Tremonti
dixit), hanno fatto questa fine: per il 50% (!) sono rimasti all’estero, per il
30% sono serviti a comprare prodotti finanziari, per il 10% sono stati
investiti in immobili, e soltanto il 10% è stato investito nell’impresa di
famiglia (dati del Ministero dell’Economia).17
Inoltre, con l’art. 3, comma 2-bis,
del d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito dalla legge 22 maggio 2010, n. 73, è
stata prevista la possibilità di estinguere gratuitamente i giudizi pendenti
davanti alla Commissione tributaria centrale e di estinguere, con il versamento
del 5% e senza applicazione di sanzioni e interessi, i giudizi pendenti innanzi
alla Corte di cassazione, se relativi a ricorsi iscritti a ruolo in 1° grado da
più di 10 anni, per i quali risulti soccombente in 1° e 2° grado
l'amministrazione finanziaria. Anche qui, la ratio della norma è chiara: “con
tale disposizione… è stato consentito ai contribuenti che ne abbiano interesse
la possibilità chiudere unilateralmente, senza oneri o con oneri ridottissimi,
vertenze coltivate dal fisco nei gradi superiori di giudizio. Si tratta di una
disposizione, che già altre volte si era cercato di inserire in ‘veicoli’ legislativi,
finalizzata a favorire senza alcuna giustificazione poche centinaia di soggetti
quasi tutti con vertenze di particolare rilevanza, probabilmente timorosi di
incappare nella più rigorosa giurisprudenza della Cassazione e della
Commissione centrale in materia di elusione e di abuso del diritto. In sostanza
si è trattato di una sorta di condono personalizzato, privo di ogni
giustificazione”. Nei fatti, hanno poi aderito alla norma soltanto 33 società,
tra le quali la Mondadori, che ha così sanato, grazie al miserabile obolo di
8,6 milioni di euro, un contenzioso che la opponeva al fisco; se avesse perso
la causa, avrebbe dovuto versare 350 milioni di euro.18
In
questo scenario, è decisamente scandaloso che, ogni qual volta si tenta
comunque – in particolare da parte dell’Agenzia delle Entrate – di stringere
appena un po’ le maglie dei controlli, parta subito l’accusa di “deriva da
Stato di polizia” (Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti, il 13
gennaio scorso); e che si debbano leggere sul quotidiano della Confindustria
tirate filosofiche sulla fiducia tradita al cittadino condonante, se per
accidente la Corte di Giustizia europea stabilisce che il condono Iva già
usufruito era incompatibile con il diritto comunitario e che quindi il maltolto
deve essere restituito.19
Tra
leggi su misura e condoni tombali, inefficacia e lentezza dell’attività di
recupero, pubblici elogi del “sentimento di moralità” degli evasori e politiche
conseguenti, è davvero difficile stupirsi del fatto che si sia ormai in presenza
di una vera e propria crisi fiscale dello Stato. Aspetto non meno grave, siamo
di fronte alla neutralizzazione e al capovolgimento per legge e per prassi del
principio costituzionale della progressività delle imposte. Vale infatti la
pena di ricordare che secondo la Costituzione della Repubblica Italiana i
cittadini debbono pagare le tasse “in ragione della loro capacità contributiva”
e con un sistema tributario “informato a criteri di progressività” (art. 53
della Costituzione). La cosa, nell’indifferenza generale, ha formato mesi fa
anche l’oggetto di un preoccupato editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica:
“la verità è che la politica fiscale in atto ha connotati tipicamente
classisti, colpisce in basso anziché in alto ed ha di fatto trasformato la
progressività fiscale in una vera e propria regressività, con tanti saluti al
principio costituzionale”.20
Ma
in verità crisi fiscale dello Stato e regressività delle imposte sono
perversamente legate attraverso la riduzione della spesa pubblica. In questo
modo salariati e pensionati, già penalizzati perché pagano le tasse, perché le
pagano in misura proporzionalmente superiore alla loro capacità contributiva, e
perché vedono aumentare le tasse indirette sui beni e le tariffe sui servizi
pubblici, vengono colpiti una volta di più: attraverso la riduzione della
qualità e dell’ampiezza di copertura dei servizi sociali, che dovranno quindi
comprarsi “sul mercato”. Che cosa questo significhi lo capisce bene ogni
lavoratore che abbia dovuto pagarsi una visita medica o dentistica in uno
studio privato. In questo caso, egli avrà avuto anche l’occasione di
sperimentare di persona come funzioni realmente il “fisco distratto” nel nostro
Paese: infatti nella metà dei casi, a fronte di onorari assai esosi, non ha ricevuto
alcuna ricevuta.21
3.
Evasione fiscale, lotta di classe e “Italia dei piccoli”
Quanto
sopra impone di considerare il problema della fiscalità in termini ben diversi
da una questione di carattere morale: la fiscalità è infatti una delle forme
storicamente più efficaci assunte dalla lotta di classe nel nostro Paese, e
come tale va considerata. Di fatto, il principio costituzionale della
progressività delle imposte in Italia è rovesciato. Nel nostro Paese – caso
unico tra le nazioni a capitalismo avanzato – il gettito proviene infatti in
misura non solo prevalente, ma addirittura quasi esclusiva dal lavoro
dipendente. Mentre i padroni (ma anche le grandi corporazioni professionali e
la grande maggioranza dei lavoratori autonomi) le tasse semplicemente non le
pagano – o le pagano in proporzione ridicola rispetto al reddito effettivo. A
questo riguardo il governo Berlusconi non ha fatto che portare alle estreme
conseguenze le caratteristiche di fondo del sistema fiscale italiano.
I
risultati di tutto questo sono ovvi tanto sul piano della funzionalità dello
Stato (devastata dagli effetti della crisi fiscale dello Stato, assai più che
dagli “sprechi”), quanto su quello dell’iniquità e delle sperequazioni sociali:
il (non) funzionamento del meccanismo fiscale opera di fatto come un Robin Hood
alla rovescia, che toglie ai poveri per dare ai ricchi. Meno ovvia è un’altra
conseguenza del “fallimento” fiscale: ossia il fatto che, nel corso dei
decenni, esso ha grandemente contribuito a rimescolare le carte all’interno
della stessa borghesia italiana, riconfigurandone le gerarchie, e creando
specifiche opportunità di sviluppo per alcune sue componenti a scapito di
altre.
Tra
gli effetti di lungo periodo dell’evasione fiscale, il principale è senz’altro
rappresentato dalla struttura produttiva frammentata (quella che una volta
veniva elogiata come “l’Italia dei piccoli” ed oggi finalmente si cominciare a
chiamare “nanismo”): in effetti, l’evasione ha rappresentato uno dei principali
fattori competitivi delle piccole imprese italiane.
Come
è noto, nel corso degli ultimi decenni il peso delle piccole imprese sul totale
delle aziende italiane (già superiore a quello di tutti gli altri Paesi
capitalistici avanzati) è costantemente aumentato: in altri termini, il nanismo
industriale italiano è cresciuto. Su questo fenomeno è fiorita una vastissima
letteratura apologetica. Si è addirittura parlato dell’economia italiana come
di un “calabrone” che avrebbe sfidato con successo le leggi economiche,
infrangendo (caso unico al mondo) la legge per cui la crescita della dimensione
delle imprese (in termini di capitali impiegati e di mezzi di produzione posti
in opera) è un fattore determinante per il successo economico in una economia
capitalistica avanzata; o, se si vuole, confutando la concezione marxista per
cui la concentrazione e la centralizzazione dei capitali rappresentano
fondamentali tendenze immanenti allo sviluppo del modo di produzione
capitalistico.22
Tutte
sciocchezze, ovviamente. Il successo delle piccole imprese italiane era infatti
imperniato su 3 fattori: le periodiche svalutazioni competitive della lira, il
basso costo del lavoro (tra i più bassi dell’Europa dei 15), e – appunto – l’abnorme
evasione fiscale, che per decenni ha rappresentato il più significativo “aiuto
di Stato” a questa tipologia di imprese. Che l’evasione fiscale e contributiva
(grazie all’evasione in senso stretto ed al lavoro nero) abbia costituito nel
corso degli anni uno dei maggiori (indebiti) vantaggi competitivi per le
piccole e medie imprese è così poco un mistero, che alcuni autori ne parlano in
premessa dei loro ragionamenti su piccole imprese e distretti industriali. Ecco
ad esempio cosa scrivono Sebastiano Brusco e Sergio Paba: “per ragioni diverse,
soprattutto nella legislazione civilistica e fiscale, le imprese minori sono
state a lungo difese sia dalla destra che dalla sinistra. Sino al principio
degli anni novanta, ancora in sostanziale concordia con l’opposizione, il
governo ha consentito loro livelli molto alti di evasione fiscale, sia per
averne il consenso, sia per compensarle della capacità di creare occupazione”.23 Del resto, persino Antonio Fazio, che
non definiremmo uno strenuo difensore dei diritti dei lavoratori, ha potuto
parlare anni fa di “abnorme estensione del lavoro irregolare”.24 Ed è il meno che si possa dire, in
presenza circa tre milioni di unità di lavoro irregolari presenti in Italia,
che sottraggono al fisco 52,5 miliardi di euro di imponibile, pari a 10,8
miliardi di euro di imposta (ciò senza contare l’evasione contributiva e
l’evasione del valore aggiunto prodotto da questi lavoratori in nero).25
Le
cifre appena citate sono di grande aiuto per comporre il puzzle della crisi
attuale dell’economia italiana. Le cose stanno in maniera molto semplice. Negli
anni Ottanta e Novanta molte imprese sono sopravvissute, ed anzi hanno
prosperato, pur non essendo competitive. Lo hanno potuto fare grazie a profitti
illegali: ossia a profitti che nascevano dalla violazione delle leggi fiscali
(evasione) e dalle leggi che regolano la contribuzione previdenziale (economia
sommersa). Qui ovviamente il discorso sulla fiscalità si lega ad un altro
elemento cruciale del “vantaggio competitivo” delle piccole e medie imprese: il
basso costo del lavoro. Entrambi gli elementi hanno cooperato a rendere
profittevoli imprese che non avrebbero potuto esserlo in assenza di quei
presupposti. Ed entrambi questi fattori sono stati periodicamente rafforzati,
fintantoché è stato possibile, dalle “svalutazioni competitive”, che
consentivano di ripristinare la concorrenzialità dei prodotti italiani sul
piano del prezzo; poi, come noto, quest’ultimo fatto è venuto meno.
Di
fatto, l’evasione fiscale ha consentito il proliferare di una forma tutta
specifica e tutta italiana di rendita: tanto con riguardo alle cosiddette
libere professioni, quanto con riguardo alle piccole imprese. I profitti così
ottenuti sono stati tesaurizzati (ossia dirottati verso i patrimoni personali e
familiari degli imprenditori), e molto più di rado reinvestiti nelle imprese. Questo
per due motivi: perché la contabilità parallela era parte integrante del
meccanismo dell’evasione, e perché il permanere in dimensioni estremamente
contenute d’impresa ed in nicchie anche assai ristrette di mercato (risultato
necessario della mancanza di investimenti) era in fondo funzionale al
mantenimento di quei margini di profitto illegali. A questi due motivi
“interni” ne possiamo poi aggiungere un terzo, sottolineato di recente da
Angelo Provasoli e Guido Tabellini: “le imprese restano piccole e sottocapitalizzate
anche perché i mercati finanziari temono che i bilanci non siano veritieri”.26
Tutto
questo ha concorso a tre fenomeni estremamente negativi per l’economia
italiana: indebolimento della grande industria, posizionamento della frontiera
competitiva italiana sulla competitività basata sul prezzo, mantenimento di
produzioni tradizionali con un basso tasso di innovazione di prodotto e di
incorporazione di ricerca (giacché la ricerca costa e soltanto le medie e
grandi imprese possono permettersela). È anche di questo insieme di fenomeni
che pagano oggi il prezzo le centinaia di migliaia di lavoratori licenziati o
in cassa integrazione: perché è questo insieme di fenomeni che ha contribuito a
rendere gran parte delle produzioni italiane non competitive e che ha fatto sì
che al tracollo della produzione e dell’export nel 2008-2009 non abbia fatto
seguito una ripresa significativa. Per dirla con Pierluigi Ciocca,
vicedirettore generale della Banca d’Italia, oggi il sistema produttivo del
nostro Paese paga limiti che risiedono principalmente “nella qualità, nella
composizione merceologica, nel vecchio pertinace modello di specializzazione”;
ed è proprio la ridotta dimensione delle imprese che “congela quel modello,
restringe l’investimento all’estero, limita le esportazioni”.27 Sono parole scritte ben prima della
crisi attuale, ma che conservano tutta la loro attualità.
Il
forte nesso tra lotta all’evasione (quale strumento di redistribuzione fiscale)
e recupero della competitività di sistema è stato di recente sottolineato da
Salvatore Bragantini con queste parole: “Una forte ridistribuzione del carico
fiscale è il bandolo della matassa; afferratolo, incideremmo sui nostri
problemi. Per tornare competitivi, attaccare la corruzione e instaurare la rule
of law è più importante che ridurre il costo del lavoro, lo provano fior di
ricerche. Le attività che vivacchiano grazie all’evasione chiuderanno ma –
integrando gli ammortizzatori sociali – ne usciremmo più forti. Finirebbe il
vantaggio competitivo di chi evade le tasse su chi le paga; calerebbe il debito
pubblico, e la corruzione che infesta il Paese”.28
4.
Linee guida per una politica di equità fiscale
A
questo punto del nostro ragionamento, è possibile trarre una prima conclusione
in relazione al giudizio sulla crisi italiana attuale. Al contrario di quanto
afferma un diffuso luogo comune, non si può dire che essa abbia tra le sue
cause una fiscalità sfavorevole alle imprese, come non si può dire che essa sia
nata da costi del lavoro troppo elevati.
È vero il contrario: essa nasce in una
situazione che vede una fiscalità di fatto più che favorevole per le imprese
(in particolare per le imprese peggiori, che per una sorta di legge di Gresham
dell’imprenditoria si sono spesso fatte largo attraverso l’evasione a spese di
società più competitive, ma con il vizio insanabile di pagare le tasse), e in
un contesto caratterizzato da costi del lavoro estremamente contenuti. Ma si
può dire di più: forte evasione e bassi costi del lavoro sono tra le cause
della crisi italiana. Entrambi questi fattori non solo non hanno giovato nel
lungo periodo all’economia italiana, ma hanno contribuito a spingerla nel
vicolo cieco di un modello competitivo perdente, sotto almeno due profili:
scoraggiando l’innovazione ed il passaggio da settori produttivi maturi a
settori in sviluppo e a più elevato contenuto tecnologico, e agendo da freno ai
processi di concentrazione industriale; ed è ancora una volta l’anomia fiscale
italiana a produrre effetti devastanti sulla capacità dello Stato di effettuare
investimenti che avrebbero migliorato le condizioni generali di produzione e,
per questa via, la competitività. Marcello De Cecco ha adoperato l’espressione
di “keynesismo delinquenziale” per connotare l’evasione di massa legalizzata
consentita in particolare alle piccole imprese. Non si sottolineerà mai
abbastanza come questo “keynesismo” (a differenza di quello stricto sensu) non
abbia svolto e non possa svolgere alcuna funzione progressiva in termini di
sviluppo delle forze produttive e di aumento della ricchezza socialmente
prodotta.29 Al contrario, esso
rappresenta un enorme macigno sulle possibilità per questo Paese di situarsi su
una frontiera competitiva decente e non regressiva (e perdente).
Se
questo è vero, il tema della lotta all’iniquità fiscale oggi, in particolare in
Italia, è centrale sia sul terreno della lotta di classe, sia su quello dello
sviluppo economico (oltreché sociale e civile) del Paese. È anche un tema
praticabile? Sul punto, come noto, sussiste ormai una sorta di “fatalismo
turco” soprattutto a sinistra. Si è diffusa l’idea che sia strutturalmente
impossibile combattere l’evasione e che comunque condurre una battaglia di
questo tipo sarebbe impopolare tra gli stessi ceti maggiormente rappresentati
dalla sinistra e dal centro-sinistra. Entrambi gli assunti sono falsi. La
verità è che per condurre con efficacia tale battaglia sono oggi disponibili
tutti gli strumenti tecnici necessari: semplicemente, occorre la volontà
politica di usarli. Per usare le parole di Provasoli e Tabellini: “Non vi è una
ragione tecnica che spieghi perché l’evasione fiscale sia così diffusa nel
nostro paese, tanto da essere un fenomeno di massa. La ragione è politica. Se
davvero si volesse, l’evasione fiscale potrebbe essere sostanzialmente debellata
con investimenti non elevati”.30 Quanto
alla presunta impopolarità, altra diffusa credenza connessa alla prima, essa
trova in realtà la sua motivazione negli errori compiuti in passato, ed in
particolare dalla “politica dei due tempi” seguita dall’ultimo governo Prodi,
che con mossa di sconfortante insipienza ha in primo luogo colpito i lavoratori
dipendenti con un sostanziale aumento delle tasse (finanziaria 2006), e solo
dopo ha intrapreso una lotta (in parte anche efficace) contro l’evasione: creando
in tal modo una paradossale solidarietà tra i tartassati veri (i salariati) e i
ladri fiscali.
La
politica dei due tempi, semmai, dev’essere rovesciata. Per il semplice motivo
che “se non si riduce drasticamente l’entità dell’evasione fiscale nel nostro
Paese nessun intervento strutturale credibile sarà proponibile”.31 Ma anche per un altro motivo: perché
solo in tal modo sarà possibile rendere percepibile ai veri tartassati dal
fisco il nesso tra quella battaglia e il miglioramento della loro situazione.
Il modo migliore per ottenere questo risultato è quello di adoperare il gettito
recuperato proveniente dalla lotta all’evasione (o una sua quota, che comunque
non dovrà essere inferiore al 50%) per ridurre le aliquote delle fasce Irpef, a
partire da quelle più basse. In questo modo si renderà percepibile chi è
realmente il derubato dall’evasore, e quindi deve beneficiare della lotta
all’evasione. Se, come si è plausibilmente sostenuto, l’obiettivo di dimezzare
l’evasione fiscale nel torno di una legislatura è raggiungibile, è evidente che
le risorse disponibili per questa redistribuzione (per una volta dall’alto
verso il basso, e non viceversa) sarebbero considerevoli. Gli strumenti
principali di questa lotta all’evasione sono già tecnicamente disponibili: si
tratta della tracciabilità delle transazioni introdotta dal governo Prodi (e
prontamente azzerata dal successivo governo Berlusconi, salvo recuperla
incompletamente due anni dopo), a cui andrebbe aggiunta la trasmissione
automatica al fisco dei saldi finanziari di tutti i contribuenti (già
tecnicamente possibile grazie all’anagrafe dei conti correnti fiscali).32
In
parallelo alla lotta all’evasione andrà avviato un ribilanciamento della
fiscalità dalle attività economiche produttive alla rendita, dal risparmio alle
attività speculative (ad es. tassando in misura maggiore le seconde case e
terze case, aumentando dal 12,5% al 20% la tassazione dei redditi da capitale e
riducendo invece dal 27% al 20% l’imposta sul conto corrente). Si tratta di
proposte talmente rivoluzionarie che una parte di esse è stata recentemente
avanzata dall’Ocse.33 Oltre a questo va
introdotta una tassa sulle grandi fortune (che già esiste in Francia al di
sopra dei 790.000 euro di patrimonio) e una vera e propria tassa patrimoniale.
Infine, è proponibile una rimodulazione e maggiore articolazione delle aliquote
fiscali, introducendo ulteriori scalettature che consentano di colpire
maggiormente i redditi più alti (per i quali non sembra inappropriato stabilire
una tassazione pari o superiore al 50%).34
Non sembra invece accettabile aumentare il carico fiscale sulle imposte
indirette; al riguardo va tra l’altro tenuto presente che l’imposta Iva è tra
le più evase, e che quindi una lotta conseguente contro l’evasione
consentirebbe di aumentare il gettito Iva di un importo tra il 2% e il 3% del
Pil senza alcun aumento di aliquote.35
5.
Conclusione: No taxation without representation
L’applicazione
all’Italia di oggi del famoso slogan dei Tea Parties americani (quelli
originali del Settecento, non la destra parafascista dei giorni nostri) darebbe
risultati decisamente paradossali. Per il semplice motivo che chi oggi nel
nostro Paese paga gran parte delle tasse non gode di alcuna decente
rappresentanza né in Parlamento né sui media. Nel primo caso, è arcinoto
infatti che gran parte del corpo parlamentare proviene dai ranghi delle
cosiddette libere professioni (che sono invece perlopiù corporazioni
parafeudali), mentre del tutto esiguo è il numero dei lavoratori del settore
privato (un po’ meglio vanno le cose per quanto riguarda il settore pubblico,
esso stesso comunque sottorappresentato). Quanto al secondo, non occorre
particolare acume per intendere che la realtà del lavoro è intenzionalmente
rigettata dal mondo del nostro infotainment, televisivo e no. Nonostante
questo, e nonostante la costante manipolazione mediatico-populistica del tema
delle tasse, a quanto pare la stragrande maggioranza degli Italiani ha le idee
piuttosto chiare in materia: secondo un sondaggio Censis condotto nel novembre
2010 l’evasione è considerata un problema gravissimo o grave dall’89,7% degli
intervistati; inoltre il 58% degli intervistati ritiene (del tutto a ragione)
che l’evasione sia aumentata negli ultimi 3 anni; infine, appena un 11% degli
intervistati crede alla favoletta dell’evasione “per necessità”.36
Ce
n’è abbastanza per ritenere che oggi la battaglia per un fisco equo, che
rappresenta un tassello essenziale per riprendere il percorso interrotto della
modernizzazione del nostro Paese, avrebbe anche il consenso necessario per
essere portata avanti con successo. La palla passa quindi, in questo come in
molti altri casi, ai soggetti – politici e sociali – che vogliano raccogliere e
far propria questa elementare esigenza di giustizia e di progresso sociale ed
economico. Ma anche qui, a ben vedere, si torna a parlare del problema della
rappresentanza di ceti e classi che da tempo non hanno più voce.
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