Sono
due i motivi che ci hanno spinto a leggere questo “pesante” libro di
circa 700 pagine. Il primo, perché da anni la casa editrice Zambon si
contraddistingue per una meritoria opera di lotta al revisionismo
storico attraverso una serie di pubblicazioni rilevanti e controcorrente
rispetto al pensiero mainstream. La seconda, perché oggi c’è davvero
necessità di “capire la Russia”, ossia liberarsi dalla vulgata liberale
che ha trovato in Putin il nuovo nemico assoluto dell’Occidente e nella
Russia il problema per la democrazia nel mondo. Potenzialmente, allora,
poteva trattarsi di un libro importante, uno strumento di lotta in più
nella battaglia anche culturale tra il capitalismo neoliberista e le sue
forme di resistenza. Così non è, anzi. Il libro altro non è che una
vetrina del pensiero geopolitico rosso-bruno di ogni latitudine. Uno
squallido tentativo di elevare tale raffazzonata visione del mondo,
fatta di spiritualismo, capitalismo pre-liberista, tradizionalismo
religioso-culturale e complottismo vittimista, a pensiero degno di
considerazione. Un testo talmente trasudante neofascismo da imporre una
riflessione per la stessa casa editrice, che da oggi in poi
difficilmente potrà essere considerata “credibile” nel panorama politico
italiano, almeno quello riferibile alla sinistra di classe.
Come ogni coerente analisi geopolitica (ma qui di “geopoliticismo”
c’è davvero poco, quanto una sua macchiettistica riproposizione in
sedicesimi), le argomentazioni utilizzate contengono parti di verità,
racchiuse però in una cornice politica irricevibile, sostanzialmente
espressione di quelle forme culturali sviluppate da ogni borghesia in
crisi, cioè innervate di reazione anti-moderna che vorrebbe riportare le
lancette della storia al tempo in cui la borghesia sconfitta manteneva
un ruolo sociale egemone. Ogni forma borghese sorpassata tende a
descrivere la propria epoca felice come società ideale e omogenea, una
società di “produttori” libera dagli attuali scontri sociali indotti.
Con lo sguardo rivolto all’indietro e sempre fuori tempo, una serie di
“intellettuali” espulsi controvoglia dalle correnti di pensiero egemoni,
fino al 1989 fieramente integrati nel sistema borghese-liberale
occidentale nonchè ferocemente anti-comunisti, si scoprono oggi
dissidenti di un modello di sviluppo, quello neoliberista, attraverso il
quale si sono arricchiti per decenni. Ma andiamo con ordine.
Il libro parte da un presupposto corretto: è in atto da qualche anno
un attacco, politicamente trasversale, alla Russia e al proprio ruolo
oggettivamente “confliggente” rispetto al tentativo di assoggettare
tutte le restanti regioni “riottose” del mondo al modello produttivo
neoliberista (e al suo corrispettivo politico: la democrazia
neoliberale). Non è questione che riguarda solamente la Russia. Un
insieme variegato di Stati costituiscono oggi un problema per tale forma
di capitalismo. Dall’Iran alla Siria, dalla Russia al Venezuela, da
Cuba alla Bolivia, determinate aree del mondo rappresentano una
complicazione, un intoppo alla generalizzazione di un modello economico
per sua natura tendente alla continua espansione. Non è una lotta tra il
capitalismo e le sue alternative, quanto uno scontro interno al
capitalismo stesso e alle sue diverse forme in cui questo si manifesta.
Non solo il capitalismo non è tutto uguale, ma neanche la borghesia
assume ovunque le stesse caratteristiche. Le lotte di liberazione
coloniale sono il miglior esempio di un conflitto anche tra
borghesie differenti, una legata alla “nazione” perché da questa
dipendente economicamente, un’altra pienamente “transnazionale”,
globale, espressione di una forma produttiva che non aveva più niente a
che fare con i confini e le frontiere, e soprattutto non aveva più nulla
a che vedere con dinamiche volte alla ricerca del consenso interno al contesto dello Stato-nazionale (dunque volte alla mediazione politica, al welfare state, all’inclusione
sociale, eccetera). Ovviamente nessuna borghesia ha interesse alla
mediazione se non costretta. Motivo per cui le borghesie “nazionali”
tali erano per la presenza di una controparte organizzata politicamente e
capace di esprimere un’alternativa di potere, cioè erano costrette alla
mediazione dalle lotte di classe. L’assenza di questo rapporto di forze
ha prodotto il definitivo superamento della “forma nazionale” di
sviluppo economico, e le espressioni politiche della borghesia sconfitta
permangono oggi solo nella forma marginale di reazione alla modernità.
Se il capitalismo allora non è tutto uguale, soprattutto questo non è tutto uguale per noi. Non
tutte le forme di sviluppo capitalistico e di modello produttivo
garantiscono gli stessi margini di iniziativa politica per quanto
riguarda le classi subalterne. La possibilità cioè di opporsi
credibilmente ad un sistema di produzione e di organizzazione politica
in certi casi si da in forma più immediata, in altri meno. In questo
senso, un modello produttivo completamente globalizzato,
“transnazionalizzato”, impedisce sul nascere quelle forme di
cooperazione economica di classe tali da attivare processi di
ricomposizione politica attorno a istanze collettive. Questo il motivo,
in estrema sintesi, perché tra due forme di capitalismo avverse (come lo
possono essere il neoliberismo statunitense o europeo e forme di
controllo statale dell’economia), non possiamo porci fuori da
questo ordine discorsivo-conflittuale, come se la questione non
riguardasse anche le sorti delle classi subalterne. Sebbene ambedue
nemici, uno si presenta come più efficacemente nemico dell’altro,
quantomeno rispetto alle nostre possibilità di incidere nelle dinamiche
di potere. Prova ne sia la costante tendenza alla guerra da parte
dell’imperialismo statunitense ed europeista. Se tra parenti non si fanno i complimenti, come
giustamente ci ricorda Trilussa, non sarà tra “capitalismi amici”
l’ipotesi di conflitto, ma tra capitalismi nemici, e tale “nemicità” non
è data dalla competizione per le risorse (questo fatto esiste anche tra
Stati amici ma concorrenti), ma dalla possibilità di estendere un
modello economico-produttivo piuttosto che un altro.
Se questo è il quadro entro cui si materializza l’aggressione alla
Russia da parte delle forze interne alla Nato, il testo in questione ne
equivoca totalmente la genesi e la natura. Non è alcuno “stile di vita
americano” opposto a presunte “tradizioni ortodosse russe” la chiave
interpretativa capace di spiegare la natura del conflitto in corso. La
Russia non rappresenta alcun “impero del bene”, anche oggettivamente
parlando, e il concetto di “eurasiatismo” è una fandonia tipica di chi
vorrebbe imporre una differenza culturale congenita ai molto più
concreti interessi economici in campo. L’affermazione del capitalismo in
Russia, così come in Cina, in Giappone, in Vietnam e nelle restanti
parti dell’immaginario continente eurasiatico, dimostra meglio di tante
parole quanto non esista alcuna differenza antropologica, men che meno
culturale, alla base dello scontro tra neoliberismo e questi paesi.
Putin stesso, alla guida del processo di privatizzazione del paese
successivo allo smantellamento dell’Urss negli anni Novanta, rappresenta
nient’altro che un ceto di oligarchi, tutti con solidi conti in
Svizzera e a Londra, arricchiti proprio sulle spoglie dell’Unione
Sovietica. Immaginare che da ricchissimi oligarchi possano prodursi
forme di “opposizione” al capitalismo è fuori da ogni razionalità. Il
problema è di natura oggettiva allora, non soggettiva. Non è il
capitalismo russo che va difeso, quanto approfondire le contraddizioni
che tale scontro infra-capitalistico genera. Ma il capitalismo, tanto il
modello neoliberista quanto quello oligarchico-sovranista à la Putin,
va combattuto in entrambi i sensi. Non è possibile alcuna alleanza in
funzione anti-americana con il “putinismo”, perché questo non è
espressione di un anti-liberismo cosciente, quanto una reazione al
tentativo statunitense ed europeo di scardinare la sovranità nazionale
russa, da una parte appropriandosi delle proprie riserve energetiche,
dall’altra smantellando presenze statuali eccessivamente ingombranti per
i tentativi egemonici occidentali. L’allargamento della Nato punta
proprio a questo, cioè a disarticolare lo Stato russo. Uno scenario
concretamente possibile, vista l’esperienza jugoslava di uno Stato
sovrano, nel cuore dell’Europa, smantellato tramite i bombardamenti Nato
proprio fomentando i nazionalismi interni (e in Russia sono presenti
130 nazionalità differenti, tutte potenzialmente suscettibili di
rivendicazione etnico-territoriale). Oggi i vari Stati formatisi dalla
dissoluzione della Jugoslavia altro non sono che territori di
delocalizzazione economica tedesca, e non a caso la Germania fu la
principale protagonista della disgregazione jugoslava, chiarendo gli
interessi in campo, che non erano culturali o “dirittoumanisti” ma ben
più concretamente economici. Come, più in generale, la moltiplicazione
di entità statuali nell’est europeo successiva al 1989.
Il meccanicismo anti-dialettico su cui si fonda l’interpretazione
geopolitica del Borgognone (di cui ignoriamo i trascorsi politici o
accademici) impedisce di cogliere la natura dialettica dello scontro in
atto. Due sono i presupposti fondanti presenti nella corposa
introduzione (più di 100 pagine), che dovrebbero spiegare la sostanza
post-novecentesca del conflitto tra potere neoliberista e stato russo:
da una parte la conclamata (per lui) fine della divisione politica tra
sinistra e destra; dall’altra il superamento della conflittualità tra
classi quale motore dello sviluppo umano. Riguardo al primo aspetto, per
l’autore non è più possibile definire qualitativamente la differenza
politica in base ai concetti di “sinistra” e “destra”. Questo perché
l’egemonia neoliberista statunitense ha piegato anche la presunta
sinistra politica alle ragioni ideologiche dell’affermazione del libero
mercato e dell’individualismo borghese. Come ripete Fusaro, ampiamente
citato nel libro, se economicamente oggi il capitalismo si riproduce “a
destra”, attraverso l’espansione della forma produttiva neoliberista,
culturalmente questo si riproduce “a sinistra”, attraverso le filosofie
consumistiche del desiderio, del dirittumanismo, dello standard di vita
occidentale laicizzato, tecnicizzato e individualizzato, sorte dopo il
’68: strumenti culturali con cui viene veicolato “l’american way of
life” e il consumismo illimitato. Dunque una sinistra e una destra che
marcerebbero nella stessa direzione, quella dell’approvazione e della
giustificazione filosofica di un modello produttivo consumista
standardizzato. A ciò si aggiunge il superamento della lotta di classe
quale presupposto sociale dello sviluppo umano. Oggi la partita non si
giocherebbe sul piano economico e nel confronto dialettico tra classi
differenti, ma attorno al ruolo dello Stato. Il neoliberismo occidentale
promuoverebbe l’estinzione di questo attraverso l’affermazione del
piano economico sul politico, cioè il libero mercato sul controllo
pubblico della produzione. Per tale ragione non è più attuale una
differenza tra “sinistra” e “destra”, ma il nuovo solco si stabilirebbe
tra “statalisti” (o nazionalisti, sovranisti, ecc.), e “antistatalisti”,
tra capitalismo di libero mercato e capitalismo di Stato.
La natura anti-dialettica del ragionamento dell’autore (e, con lui,
di tutta la combriccola rossobruna geopolitica) impedisce di cogliere il
cuore della questione, e cioè che la scomparsa, o il tradimento, di una
sinistra un tempo comunista, non significa la scomparsa del concetto
storico insito nella definizione di sinistra, ma di precise
organizzazioni effettivamente incapaci di portare avanti un pensiero
all’altezza dei tempi e veramente radicale (che non significa estremista
ma capace di opporsi alla radice a questo modello di sviluppo).
E’ sicuramente vero che una parte del pensiero della sinistra
occidentale abbia subito l’influsso dell’egemonia culturale
neoliberista. Ad esempio, tutta la narrazione sui beni comuni, o più
direttamente del “comune” opposto al pubblico e allo Stato, altro non è
che il cedimento ideologico al mainstream capitalista, felice di
liberarsi dei sostenitori della presenza pubblica (cioè statale)
nell’economia, che ancora impedisce al capitale monopolista di
appropriarsi degli ultimi scampoli pubblici presenti nei capitalismi
“maturi”. Da questo però non se ne può trarne che il concetto di
“sinistra” sia oggi quella cosa lì, quanto che una parte della sinistra
abbia oggi abbandonato il campo della lotta generale e politica
adeguandosi al sistema ideologico dominante, una delle principali cause
della propria irrilevanza politica. Il concetto di sinistra non è
sovrapponibile a quello delle contingenti organizzazioni che si
richiamano al suo nome, ma dev’essere valutato in senso dialettico e
storico: una sinistra che fa la destra non abolisce il concetto di
sinistra, semplicemente transita politicamente da un’altra parte, anche
se opportunisticamente continua a definirsi “sinistra”.
Allo stesso modo, dire che oggi la posta in palio sarebbe lo Stato in
quanto tale, senza connotarlo politicamente, significa assolutizzare,
feticizzandolo, un concetto altrimenti ambivalente. Anche gli Stati
Uniti sono uno Stato, anzi un super-Stato imponente e ingombrante,
decisamente presente tanto nella politica quanto nell’economia. E
l’attuale sviluppo capitalistico liberista non prevede la scomparsa
degli Stati, sempre più necessari al governo delle popolazioni
subalterne. Oggi è la natura dello Stato a subire radicali
trasformazioni, ma queste non sono determinate da presunte differenze
culturali, ma da più materiali interessi economici. E sarà
esclusivamente l’interesse economico delle classi subalterne a
modificare la natura del processo in atto, come lo è stato lungo tutto
il corso del Novecento. Non l’interesse di un’oligarchia finanziaria
speculare negli Usa quanto in Russia.
In conclusione, il presupposto ideologico di analisi come queste
impedisce di cogliere la sostanza materiale dello scontro e
dell’aggressione imperialista alla Russia, e impedisce anche di
coglierne le possibili vie d’uscita. Un pensiero, quello geopolitico,
che permane tutto dentro un sistema di controllo capitalistico, che
continua ad essere basato sul rapporto sociale insito nella produzione
lavorativa, non nelle differenze culturali di questa o quella cultura
religiosa. Un classico specchietto per le allodole, che riesce nel
ragguardevole obiettivo di stimolare più sintonia con il deprecabile
ordine borghese liberista che moti di simpatia verso modelli
etno-religiosi neo-imperiali.
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