mercoledì 18 marzo 2015

Chi decide per il decisionista —  Michele Prospero, Il manifesto


Le carte della pro­cura di Firenze sol­le­ci­tano, per la poli­tica, la domanda più clas­sica. Chi comanda in Ita­lia? È tutto nelle mani del pre­mier che governa con le slide, fa il sel­fie con chi capita, scrive tweet a ritmo feb­brile e inter­viene su ogni ine­zia del creato? Se la poli­tica fosse solo comu­ni­ca­zione, Renzi avrebbe già risolto l’enigma del potere. È tutto nella sua stanza di palazzo Chigi, con la lam­pa­dina not­turna sem­pre accesa in segno di per­ma­nente lavoro sulle scar­tof­fie. Le sco­la­re­sche che can­tano inni di giu­bilo in sua pre­senza sono la con­ferma dello scet­tro ritrovato.
Se, oltre la scin­til­lante scena della rap­pre­sen­ta­zione, si osser­vano però altre varia­bili, il qua­dro del potere si com­plica. Il governo dei «senza retro­terra», come è stato auto­re­vol­mente bat­tez­zato, ovvero l’esecutivo degli incom­pe­tenti, non rie­sce dav­vero a recu­pe­rare lo spa­zio della poli­tica in un mondo che sci­vola sulla richie­sta di neu­tra­liz­za­zione dei valori alter­na­tivi avan­zata dalla tec­nica e sull’espropriazione degli ambiti di demo­cra­zia ordi­nati dalle agen­zie del capi­tale e della finanza.
I mini­stri che igno­rano i risvolti delle grandi opere, si per­dono nei labi­rinti dell’amministrazione, e anzi si van­tano di aver por­tato al potere tutta la loro ine­spe­rienza, non allar­mano per­ché deci­dono troppo. Inquie­tano per­ché deci­dono cose che ordi­nano loro dei poteri che non con­trol­lano. E sono pro­prio que­ste oscure agen­zie, un misto tra pub­blico e pri­vato, impresa e grandi com­messi di stato, fun­zio­nari e lob­bi­sti, che hanno appic­ci­cato i gal­loni sulle spalle agli sta­ti­sti della porta accanto e sono pronti a strap­parli alla prima occa­sione.
Renzi si vanta per aver impo­sto il suo deci­sio­ni­smo veloce. Ed espli­cita la sua filo­so­fia delle isti­tu­zioni in que­sti ter­mini, molto sem­pli­fi­cati: «Per il governo io ho in testa il modello di una giunta che fun­ziona con un forte potere di indi­rizzo del sin­daco». Se dav­vero fosse pos­si­bile tra­mu­tare il pre­si­dente del con­si­glio in sin­daco e il governo in una giunta, sarebbe cer­ti­fi­cata la fine della poli­tica, la sua ridu­zione ad ammi­ni­stra­zione spic­ciola e l’ingresso in un mondo della favola, senza grandi con­flitti sociali. Solo che, anche quando annun­cia di avere con­cen­trato tutto il potere in una stanza, Renzi inciampa in un enne­simo annun­cio che è, come gli altri, inattendibile.
Nes­sun osser­va­tore assen­nato è dispo­sto a rico­no­scer­gli com­pe­tenze reali nell’arte di governo. Improv­visa, esa­gera, ignora, sem­pli­fica, forza. E mostra tutta la sua fra­gi­lità nel ruolo di sta­ti­sta, quando dichiara che «vor­rebbe Putin nella sua squa­dra» o cele­bra un re degli Emi­rati come «cam­pione della libertà». Nel gioco della simu­la­zione infi­nita, che è diven­tata l’opera di governo nell’età leg­gera del pub­blico, il pre­mier narra, si diverte tra tele­ca­mere ami­che, viag­gia ser­ven­dosi dei sim­boli del potere e illu­stra le norme giu­ri­di­che con le slide. L’agenda però la scri­vono altri. Non solo il governo pri­vato (eco­no­mi­sti e impren­di­tori amici, come l’ex ammi­ni­stra­tore dele­gato Guerra), ma la Con­fin­du­stria, i poteri euro­pei, le buro­cra­zie inos­si­da­bili che resi­stono al mutar dei mini­stri.
Renzi è velo­cis­simo quando si tratta di dare ese­cu­zione agli ordini dei forti poteri che esi­gono la pre­ca­riz­za­zione del lavoro ed è poi di un imba­raz­zante immo­bi­li­smo nelle scelte (eva­sione fiscale, legge anti cor­ru­zione) che col­pi­scono gli inte­ressi con­so­li­dati, i pri­vi­legi e le ren­dite di posi­zione. Il socio­logo Luca Ricolfi ha effet­tuato sul Sole 24 Ore una radio­gra­fia dell’azione di governo cer­ti­fi­cando nel referto l’impossibile rina­scita di una destra libe­rale. «Renzi — scrive — è già abba­stanza di destra da lasciare ben poco spa­zio a un’opposizione dello stesso tipo».
E, in effetti, tutte le sue rapide scelte (dalla riforma costi­tu­zio­nale, al taglio dell’Irap per le imprese, dalla can­cel­la­zione dell’articolo 18 alla respon­sa­bi­lità civile dei giu­dici, dai tagli alla spesa pub­blica al pre­side mana­ger) sono «abba­stanza di destra». Pro­prio sul solido ter­reno destrorso delle poli­ti­che pub­bli­che è pos­si­bile la nascita del par­tito unico della nazione che sposa gli inte­ressi di potenze pri­vate che det­tano i pro­grammi e lasciano che il lea­der pseudo cari­sma­tico occupi la scena della rap­pre­sen­ta­zione con simu­la­zioni di nuovo, velo­cità, sim­pa­tia.
In par­la­mento non c’è più una dia­let­tica poli­tica che incrini il domi­nio della coa­li­zione sociale che ha, quale suprema guida spi­ri­tuale, la finanza e il grande capi­tale e, per suo docile ese­cu­tore mate­riale, il governo dei senza retro­terra, sele­zio­nati per­ché in rap­porti pri­vati con influenti cen­tri di potere. Senza pro­muo­vere un’altra coa­li­zione sociale legata al lavoro, l’autonomia della poli­tica sfuma e anzi biso­gna cesti­narla nel novero delle grandi uto­pie. Le carte fio­ren­tine sve­lano la trama affa­ri­stica del cir­colo governo-burocrazie-amministratori-imprese impe­gnato nel gran ballo dell’opulenza in un tempo di poli­tica al tramonto.

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