Una
recensione dell'ultimo libro di David Harvey, "Diciassette
contraddizioni e la fine del capitalismo", uscito in Italia per
Feltrinelli
David Harvey scherza spesso affermando che “è stato più complicato portare il marxismo nella geografia che viceversa”. Professore di Antropologia e Geografia a CUNY, Harvey si avvicina a Marx relativamente tardi, nei suoi trenta, quando arriva a Baltimore per assumere l’incarico di professore alla John Hopkins University e quando il nuovo clima politico statunitense lo avvicina alla Geografia Radicale . Il suo contributo fondamentale è l’intuizione dello sviluppo geografico diseguale: il processo attraverso cui il capitale si produce e riproduce è un processo fortemente asimmetrico nei suoi effetti spaziali. Egli colma un vuoto nel pensiero marxista, dando una centralità ai processi di urbanizzazione nella traiettoria di espansione del capitale.
David Harvey scherza spesso affermando che “è stato più complicato portare il marxismo nella geografia che viceversa”. Professore di Antropologia e Geografia a CUNY, Harvey si avvicina a Marx relativamente tardi, nei suoi trenta, quando arriva a Baltimore per assumere l’incarico di professore alla John Hopkins University e quando il nuovo clima politico statunitense lo avvicina alla Geografia Radicale . Il suo contributo fondamentale è l’intuizione dello sviluppo geografico diseguale: il processo attraverso cui il capitale si produce e riproduce è un processo fortemente asimmetrico nei suoi effetti spaziali. Egli colma un vuoto nel pensiero marxista, dando una centralità ai processi di urbanizzazione nella traiettoria di espansione del capitale.
Semplificando, dice Harvey, “esiste una storia da Libro I del
Capitale e una storia da Libro II”. Il capitale deve mettere in moto la
produzione, appropriandosi di plusvalore, per poter finire il processo
con più soldi di quanti ha anticipato. È un processo guidato dalla
concorrenza che obbliga i capitalisti a reinvestire, pena l’essere
espulsi dalla propria classe. È anche un processo contraddittorio,
perché implicitamente crea uno squilibrio dato dalla necessità di
trovare esternamente la domanda necessaria a realizzare i profitti, dal
momento che l’esistenza stessa di un plusvalore fa si che gli operai non
possano comprare tutto ciò che producono. Per riprodursi il Capitale
deve quindi trovare domanda e per fare questo implicitamente deve
spingersi a ridare potere contrattuale ai lavoratori, disequilibrando le
condizioni di produzione del surplus di cui Marx scrive nel Libro I.
La contraddizione tra produzione e riproduzione spiega l’origine del
Neoliberismo. “Nell’uscita dalla Grande Depressione, il capitale opta
per una strategia da Libro II, alti salari, parziale internalizzazione
delle condizioni di riproduzione sociale del lavoro, con le politiche di
welfare. Una strategia che mina alle basi la produzione di surplus,
cioè disequilibra le condizioni di produzione. Da questo stallo i
capitalisti se ne escono andando in sciopero, rifiutando di caricarsi i
costi di riproduzione e ripristinando il potere di classe. Una strategia
da Libro I che ha prodotto la crisi che stiamo vivendo”.
In questa tensione, l’urbanizzazione e i macro-progetti hanno una
funzione chiave nell’assorbire lavoro e produrre plusvalore, e
contemporaneamente nel mettere in moto “capitale fittizio”, cioè
credito, nel realizzare il plusvalore prodotto. Nel processo di
espansione il capitale produce fissità spaziali (come le infrastrutture
di trasporto) che sono funzionali a renderlo mobile e che nello stesso
tempo con la mobilità entrano in contraddizione, perché nascono con lo
scopo di essere poi svalutate e distrutte per poter essere trasferite
altrove.
Le fissità spaziali sono anche “soluzioni” al problema della
riproduzione del capitale, ma nel basarsi su aspettative a lungo termine
finiscono per generare le stesse contraddizioni e rischi di
sovraccumulazione contro cui sono stati adottate. “Quando la domanda
esterna crolla con la crisi del 2008, la Cina, che non può permettersi
instabilità sociale, sceglie la strategia tradizionale di espandere
l’urbanizzazione interna e oggi si trova con intere città in attesa di
popolazione”.
Le contraddizioni sono per Harvey la struttura teorica fondamentale
per capire il capitalismo e sono anche il modo per definire la strategia
politica di chi vi si oppone. “Una contraddizione, una volta capita, ti
spinge a chiederti da che lato vuoi stare”.
L’ultima sua opera racchiude in modo didattico ed esemplare questo suo modo di ragionare sulle dinamiche del capitale ( Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo
, uscito in Italia per Feltrinelli). “Esistono molte ragione per le
quali si scrive un libro, in questo caso l’ho scritto per rispondere
alla domanda del perché io sia marxista e anti-capitalista”. Come nei
migliori marxisti, non c’è nessuna argomentazione morale. Non è certo
perché i capitalisti siano cattive persone che il sistema non funziona. È
la logica immanente al capitale a rappresentare l’origine del problema.
“Un calcolo ragionevole e razionale mostra che abbiamo bisogno di un
altro modo di produzione - continua Harvey – e la logica dell’argomento è
assolutamente irresistibile: il sistema attuale non ha assolutamente
nessun senso, se non per l’1% più ricco.”
Il libro, come spesso accade, si chiude parlando di politica e di
alternative, senza dare programmi o soluzioni confezionate. Il punto
secondo Harvey è avere una chiave di lettura che eviti la riproposizione
del Neoliberismo sotto nuove spoglie, invece di promuoverne un
superamento definitivo.
La sinistra dovrebbe ripartire dall’umanesimo rivoluzionario,
canalizzando le energie che si sono espresse nelle rivolte e nei
movimenti che hanno popolato le ultime stagioni post crisi del 2008. La
primavera araba, Occupy, il 15M, le rivolte in Brasile durante i
mondiali secondo Harvey mandano un segnale chiaro: la sinistra deve
smettere di andare a cercare il suo popolo nei luoghi di produzione,
perché quei luoghi sono esplosi . Il precariato sostituisce
il proletariato e la riproduzione del lavoro è oggi riproduzione
sociale, nelle città, fuori dagli spazi tradizionali, in tempi e luoghi
esterni alla fabbrica ma sussunti alla logica del Capitale. La sinistra
dovrebbe cercare di proporre la politica della vita quotidiana, per
rispondere a coloro che individualmente o comunitariamente stanno
rifiutando vite alienate e stanno cercando significati, finendo per
trovare risposte solo nei movimenti religiosi. Combattere la
colonizzazione del simbolico è fondamentale per promuovere un
superamento dell’attuale modo di produzione.
“Il Neoliberismo ha a che fare soprattutto con l’organizzazione dello
spettacolo, con l’intrattenimento, con l’occupazione costante del tempo
libero, per evitare che la gente si sieda a pensare a una alternativa
all’attuale modo di produzione”. Eppure il movimentismo non basta,
l’organizzazione dei movimenti è fondamentale. “In Europa Syriza e
Podemos stanno iniziando a proporre questo tipo di politica. Che cosa
succederà non lo so, ma le domande che mettono sul tavolo rimarranno a
lungo e dovranno essere affrontate.”
Fonte:
sbilanciamoci
| Autore:
Francesco Bogliacino
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