Ieri
la controriforma costituzionale voluta da Renzi ha avuto l'approvazione
della Camera. Nel buffonesco linguaggio dell'inquilino di Palazzo Chigi
«il secondo numero del Pin è stato digitato». Ecco, infatti, cosa ci è
capitato di sentire dalla bocca del segretario del Pd: «Fare le
riforme costituzionali non crea di per se nuovi posti di lavoro, ma - se
posso usare l'espressione - è prendere il telefonino. Le riforme sono
il Pin. Se tu non digiti il Pin e sblocchi la tastiera non c'è verso di
far funzionare niente. Le riforme costituzionali sono questa cosa qui». (Gr1, ore 8 del 10 marzo 2015).
Il tentativo è chiaro: occultare, dietro alla solita retorica
efficientista, il progetto antidemocratico che punta al presidenzialismo
partendo dallo svuotamento di ogni potere parlamentare. Un disegno ben
rappresentato dalla farsa di un Senato di nominati. Almeno lo si fosse
eliminato davvero! Invece no, quel che si è voluto eliminare è solo la
sua elezione da parte dei cittadini. Una mostruosità che si commenta da
sola.
Ma se la sostanza della controriforma costituzionale è questa, vale comunque la pena di seguire il filo del ragionamento di Renzi. Il quale vorrebbe farci credere (vedi il riferimento alla disoccupazione) che: 1) la crisi dipenda da un eccesso di parlamentarismo, 2) che solo un governo (ovviamente guidato da lui) senza opposizione saprà venirne fuori, 3) che dunque lo scasso della Costituzione serve in definitiva al bene comune.
Attenzione! Nessuno pensi che una simile narrazione non abbia una facile presa in ampi strati della popolazione. Una presa ce l'ha invece di sicuro, perché decenni di letargia sociale e di una politica ridotta a teatrino tra schieramenti intercambiabili non si superano tanto facilmente. E pesante è il lascito di un populismo antistatalista a buon mercato, la faccia per così dire «popolare» della vittoria tennistica conseguita dal neoliberismo su ogni ipotesi di controllo sociale, e dunque politico, dell'economia.
C'è tuttavia un piccolo problema. Questo modello ha fallito clamorosamente. La crisi iniziata nel 2007-2008 ne è la prova più evidente. Comprensibilmente, però, i cantori delle virtù del mercato non si sono per questo arresi. A sentirli, il problema è che finora c'è stato troppo poco mercato, troppo poche privatizzazioni, troppa poca deregulation, troppo poca precarizzazione del lavoro, eccetera. E questo «troppo poco» deriverebbe appunto dalla «troppa democrazia» ancora esistente. Ecco, questo è il legame di cui ci parla Renzi. Dunque, che si digiti un Pin e che la si smetta con quel poco che resta della democrazia parlamentare.
Ma, a parte la gravità di questo disegno autoritario, qualcuno pensa davvero che una volta digitato il Pin arriveranno i posti di lavoro? Probabilmente non ci crede quasi nessuno, perché una cosa è la propaganda antiparlamentare (alla quale credono in tanti, anche in virtù di quel che è stato il parlamento negli ultimi decenni), altra cosa sono le promesse concrete, alle quali quasi nessuno ritiene giustamente di dover dare credito.
E questo è il punto debole di Renzi, il quale un anno fa credeva di ritrovarsi con un segno più davanti al Pil alla fine del 2014. Ed oggi rinnova questa scommessa, come quei giocatori del lotto che aspettarono per anni l'uscita del 34 sulla ruota di Cagliari. Con la differenza, che mentre gli scommettitori rischiavano e rischiano in proprio, i fallimenti di Renzi vengono invece pagati da milioni di italiani.
La ripresa che non c'è
La domanda allora è questa: quanto è credibile l'ipotesi di un'uscita dalla recessione nel 2015? E prima ancora, quale valore del Pil potrebbe in qualche modo avvalorare l'idea di un'effettiva inversione di tendenza?
Partiamo dunque da questa seconda domanda, perché tutti sanno che dopo tre anni consecutivi di recessione, e dopo una perdita complessiva di 9 punti di Pil dal 2007, non sarà un piccolo rimbalzo fisiologico a mutare la situazione. Per rendercene conto, ed analizzando i dati disponibili degli ultimi 40 anni, è opportuno riflettere su alcuni numeri che ci mostrano appunto il fenomeno del «rimbalzo». Dopo la recessione del 1993 (-0,9%) seguì nel 1994 un + 2,1%. Idem dieci anni dopo: al -0,1% del 2003 seguì infatti un +1,7%. E perfino dopo il terribile biennio 2008 (-1,2%) e 2009 (-5,5%) fece seguito un +1,7% nel 2010.
Negli ultimi tre anni - quelli del pieno dispiegamento delle politiche austeritarie imposte dal regime dell'euro - abbiamo invece avuto una sequenza fatta solo di segni meno: -2,8% nel 2012, -1,7% nel 2013, -0,4% nel 2014. A fronte di questi dati, ed a maggior ragione tenuto conto dei precedenti storici, potremmo forse parlare di un'effettiva inversione se il 2015 facesse registrare almeno un +2%. Un dato che nemmeno Renzi oserebbe sperare.
Ora, però, è un fatto che nel 2015 diversi fattori concorreranno ad un certo incremento del Pil. Il primo è la svalutazione dell'euro, di cui beneficiano ovviamente le esportazioni. Il secondo è la diminuzione del prezzo del petrolio, che avvantaggia un'economia energeticamente dipendente come quella italiana. Il terzo, appunto, è il fisiologico «rimbalzo» che si verifica di norma nella dinamica dei consumi dopo un lungo periodo di recessione. A questi tre fattori, gli economisti mainstream ne aggiungono altri due: il Quantitative easing (della cui efficacia come stimolo all'economia reale noi invece dubitiamo - vedi QUI) ed i flussi turistici generati dall'Expo.
La «congiunzione astrale» sembrerebbe dunque la più favorevole. Ed in effetti lo è. Ora, se in queste condizioni, il rimbalzo non sarà marcato, questo sarà il segno non di un'uscita dalla crisi, bensì di un suo incancrenimento. Che è poi lo scenario naturale che ci attende finché non avremo un governo popolare in grado di rompere con l'euro e riconquistare una piena sovranità nazionale, popolare e democratica.
Abbiamo parlato di un 2% come soglia oltre la quale Renzi potrebbe cantar vittoria. Ma siamo generosi e l'abbassiamo all'1%. Quanto è realistico questo pur modestissimo risultato? Secondo gli ultimi dati disponibili, ben poco.
Gli zerovirgola della propaganda renziana (diamo la parola ai numeri)
Nelle scorse settimane tutti i media nazionali, mai così all'unisono dall'epoca mussoliniana, hanno preso a strombazzare l'idea della ripresa. Dopo 14 trimestri consecutivi col segno meno, cioè dopo 3 anni e mezzo, dunque dall'ormai lontana primavera del 2011, l'Istat ha comunicato la previsione di un +0,1% per il primo trimestre 2015. In tutta evidenza, una performance strabiliante! Il segno indiscutibile di una fortissima ripresa alle porte, che potrà magari trasformarsi in autentico boom solo che si completi la digitazione del Pin...
Ora, a volerci ridere sopra, resta solo da ricordare che il dato previsionale dell'Istat è solo la media di una forchetta che va dal -0,1 al +0,3%. Dunque, auguri...
I numeri di cui sopra sono stati diffusi il 26 febbraio. Passano pochi giorni, ed il 2 marzo è sempre l'Istat a rendere pubblici altri dati. Non solo il Pil del 2014 viene confermato al -0,4%, ma si chiarisce che se non c'è stato un risultato ben peggiore è solo per la crescita delle esportazioni (un +2,7% dovuto in larga parte alla svalutazione dell'euro), mentre ai consumi interni rimasti al palo si somma un pesante -3,3% degli investimenti. Evidentemente qualcuno alla ripresa proprio non vuole crederci.
Sta di fatto che il dato dell'ultimo trimestre del 2014 ci riporta a valori più bassi di quelli registrati nello stesso trimestre del 1999. Siamo tornati indietro di 15 anni. Guarda caso sono proprio gli anni dell'euro, ma che combinazione!
Arriviamo così alla giornata di ieri, nella quale l'istituto di statistica ha fornito i dati della produzione industriale di gennaio: -0,7% su dicembre, -2,2% su gennaio 2014. Ma non basta. A rincarare la dose è arrivata, sempre ieri, Bankitalia con i dati sul credito e sulle sofferenze bancarie. Se la crescita di queste ultime non sorprende (15,6% a gennaio a fronte del 15,4% di dicembre), ancora più significativa è l'ulteriore contrazione del credito.
Nel primo mese dell'anno i prestiti all'intero settore privato sono risultati in diminuzione dell'1,8% rispetto a gennaio 2014, mentre dicembre aveva fatto segnare un -1,6%. Ancora più grave l'andamento del credito alle imprese, con un -2,8% assai peggiore del -2,3% di dicembre. Insomma, se il buongiorno si vede dal mattino, ognuno può fare le sue valutazioni.
Particolarmente significativo è il dato negativo sul credito. Un segno chiarissimo di come le politiche della Bce non funzionino affatto. Leggiamo in proposito quanto ha scritto ieri l'insospettabile (in quanto sfegatata fan di Draghi) Repubblica:
«I dati mostrano quanto le misure prese in sede di Bce (che si sono dispiegate in pieno da lunedì 9 marzo con l'avvio del Quantitative easing, ma erano ampiamente attese dagli istituti) ancora fatichino a trasferirsi in ossigeno per le imprese. Bisogna anche considerare, infatti, che nel gennaio scorso si erano già tenute le due aste Tltro della Bce che hanno portato denari a costo praticamente azzerato alle banche, che però li dovrebbero impiegare nell'economia reale e non investendo in titoli di Stato o simili. All'annuncio del 5 giugno scorso, infatti, la Bce spiegò che quelle aste erano "finalizzate a migliorare l’erogazione di prestiti bancari a favore del settore privato non finanziario dell’area dell’euro"».
Evidentemente, neppure nella redazione di uno degli organi ufficiali del blocco eurista si riesce a dar credito agli effetti sull'economia reale della mossa di Draghi.
Il quadro non è dunque così roseo come vorrebbero far credere i propagandisti renziani. E questo nonostante la particolarissima congiunzione astrale di cui abbiamo parlato. E che di sicuro non potrà durare troppo a lungo. Certo, siamo appena a marzo, ma ad oggi i dati sono questi. E il trionfalismo del capo del governo potrebbe presto rivelarsi un'arma a doppio taglio.
Senza dubbio Renzi penserà di venirne fuori completando la digitazione del Pin, disegnando cioè un Belpaese addomesticato e senza opposizione. Un sogno (per noi un incubo) che difficilmente potrà realizzarsi, ma comunque insufficiente a garantire il successo.
Vi ricordate di Monti? Per un intero anno poté governare con il parlamento ai piedi e la stampa sempre plaudente. Risultati? In termini economici un disastro, in termini politici (Scelta Civica) un disastro anche maggiore. Certo, il fiorentino è assai più furbo, ma anche i furbi sanno che i nodi prima o poi (e noi speriamo più prima che poi) vengono al pettine. Di sicuro quel che verrà a galla ben presto - al di là di un prevedibile quanto insignificante rimbalzino - è la verità sulla prosecuzione di questa interminabile crisi.
Ma se la sostanza della controriforma costituzionale è questa, vale comunque la pena di seguire il filo del ragionamento di Renzi. Il quale vorrebbe farci credere (vedi il riferimento alla disoccupazione) che: 1) la crisi dipenda da un eccesso di parlamentarismo, 2) che solo un governo (ovviamente guidato da lui) senza opposizione saprà venirne fuori, 3) che dunque lo scasso della Costituzione serve in definitiva al bene comune.
Attenzione! Nessuno pensi che una simile narrazione non abbia una facile presa in ampi strati della popolazione. Una presa ce l'ha invece di sicuro, perché decenni di letargia sociale e di una politica ridotta a teatrino tra schieramenti intercambiabili non si superano tanto facilmente. E pesante è il lascito di un populismo antistatalista a buon mercato, la faccia per così dire «popolare» della vittoria tennistica conseguita dal neoliberismo su ogni ipotesi di controllo sociale, e dunque politico, dell'economia.
C'è tuttavia un piccolo problema. Questo modello ha fallito clamorosamente. La crisi iniziata nel 2007-2008 ne è la prova più evidente. Comprensibilmente, però, i cantori delle virtù del mercato non si sono per questo arresi. A sentirli, il problema è che finora c'è stato troppo poco mercato, troppo poche privatizzazioni, troppa poca deregulation, troppo poca precarizzazione del lavoro, eccetera. E questo «troppo poco» deriverebbe appunto dalla «troppa democrazia» ancora esistente. Ecco, questo è il legame di cui ci parla Renzi. Dunque, che si digiti un Pin e che la si smetta con quel poco che resta della democrazia parlamentare.
Ma, a parte la gravità di questo disegno autoritario, qualcuno pensa davvero che una volta digitato il Pin arriveranno i posti di lavoro? Probabilmente non ci crede quasi nessuno, perché una cosa è la propaganda antiparlamentare (alla quale credono in tanti, anche in virtù di quel che è stato il parlamento negli ultimi decenni), altra cosa sono le promesse concrete, alle quali quasi nessuno ritiene giustamente di dover dare credito.
E questo è il punto debole di Renzi, il quale un anno fa credeva di ritrovarsi con un segno più davanti al Pil alla fine del 2014. Ed oggi rinnova questa scommessa, come quei giocatori del lotto che aspettarono per anni l'uscita del 34 sulla ruota di Cagliari. Con la differenza, che mentre gli scommettitori rischiavano e rischiano in proprio, i fallimenti di Renzi vengono invece pagati da milioni di italiani.
La ripresa che non c'è
La domanda allora è questa: quanto è credibile l'ipotesi di un'uscita dalla recessione nel 2015? E prima ancora, quale valore del Pil potrebbe in qualche modo avvalorare l'idea di un'effettiva inversione di tendenza?
Partiamo dunque da questa seconda domanda, perché tutti sanno che dopo tre anni consecutivi di recessione, e dopo una perdita complessiva di 9 punti di Pil dal 2007, non sarà un piccolo rimbalzo fisiologico a mutare la situazione. Per rendercene conto, ed analizzando i dati disponibili degli ultimi 40 anni, è opportuno riflettere su alcuni numeri che ci mostrano appunto il fenomeno del «rimbalzo». Dopo la recessione del 1993 (-0,9%) seguì nel 1994 un + 2,1%. Idem dieci anni dopo: al -0,1% del 2003 seguì infatti un +1,7%. E perfino dopo il terribile biennio 2008 (-1,2%) e 2009 (-5,5%) fece seguito un +1,7% nel 2010.
Negli ultimi tre anni - quelli del pieno dispiegamento delle politiche austeritarie imposte dal regime dell'euro - abbiamo invece avuto una sequenza fatta solo di segni meno: -2,8% nel 2012, -1,7% nel 2013, -0,4% nel 2014. A fronte di questi dati, ed a maggior ragione tenuto conto dei precedenti storici, potremmo forse parlare di un'effettiva inversione se il 2015 facesse registrare almeno un +2%. Un dato che nemmeno Renzi oserebbe sperare.
Ora, però, è un fatto che nel 2015 diversi fattori concorreranno ad un certo incremento del Pil. Il primo è la svalutazione dell'euro, di cui beneficiano ovviamente le esportazioni. Il secondo è la diminuzione del prezzo del petrolio, che avvantaggia un'economia energeticamente dipendente come quella italiana. Il terzo, appunto, è il fisiologico «rimbalzo» che si verifica di norma nella dinamica dei consumi dopo un lungo periodo di recessione. A questi tre fattori, gli economisti mainstream ne aggiungono altri due: il Quantitative easing (della cui efficacia come stimolo all'economia reale noi invece dubitiamo - vedi QUI) ed i flussi turistici generati dall'Expo.
La «congiunzione astrale» sembrerebbe dunque la più favorevole. Ed in effetti lo è. Ora, se in queste condizioni, il rimbalzo non sarà marcato, questo sarà il segno non di un'uscita dalla crisi, bensì di un suo incancrenimento. Che è poi lo scenario naturale che ci attende finché non avremo un governo popolare in grado di rompere con l'euro e riconquistare una piena sovranità nazionale, popolare e democratica.
Abbiamo parlato di un 2% come soglia oltre la quale Renzi potrebbe cantar vittoria. Ma siamo generosi e l'abbassiamo all'1%. Quanto è realistico questo pur modestissimo risultato? Secondo gli ultimi dati disponibili, ben poco.
Gli zerovirgola della propaganda renziana (diamo la parola ai numeri)
Nelle scorse settimane tutti i media nazionali, mai così all'unisono dall'epoca mussoliniana, hanno preso a strombazzare l'idea della ripresa. Dopo 14 trimestri consecutivi col segno meno, cioè dopo 3 anni e mezzo, dunque dall'ormai lontana primavera del 2011, l'Istat ha comunicato la previsione di un +0,1% per il primo trimestre 2015. In tutta evidenza, una performance strabiliante! Il segno indiscutibile di una fortissima ripresa alle porte, che potrà magari trasformarsi in autentico boom solo che si completi la digitazione del Pin...
Ora, a volerci ridere sopra, resta solo da ricordare che il dato previsionale dell'Istat è solo la media di una forchetta che va dal -0,1 al +0,3%. Dunque, auguri...
I numeri di cui sopra sono stati diffusi il 26 febbraio. Passano pochi giorni, ed il 2 marzo è sempre l'Istat a rendere pubblici altri dati. Non solo il Pil del 2014 viene confermato al -0,4%, ma si chiarisce che se non c'è stato un risultato ben peggiore è solo per la crescita delle esportazioni (un +2,7% dovuto in larga parte alla svalutazione dell'euro), mentre ai consumi interni rimasti al palo si somma un pesante -3,3% degli investimenti. Evidentemente qualcuno alla ripresa proprio non vuole crederci.
Sta di fatto che il dato dell'ultimo trimestre del 2014 ci riporta a valori più bassi di quelli registrati nello stesso trimestre del 1999. Siamo tornati indietro di 15 anni. Guarda caso sono proprio gli anni dell'euro, ma che combinazione!
Arriviamo così alla giornata di ieri, nella quale l'istituto di statistica ha fornito i dati della produzione industriale di gennaio: -0,7% su dicembre, -2,2% su gennaio 2014. Ma non basta. A rincarare la dose è arrivata, sempre ieri, Bankitalia con i dati sul credito e sulle sofferenze bancarie. Se la crescita di queste ultime non sorprende (15,6% a gennaio a fronte del 15,4% di dicembre), ancora più significativa è l'ulteriore contrazione del credito.
Nel primo mese dell'anno i prestiti all'intero settore privato sono risultati in diminuzione dell'1,8% rispetto a gennaio 2014, mentre dicembre aveva fatto segnare un -1,6%. Ancora più grave l'andamento del credito alle imprese, con un -2,8% assai peggiore del -2,3% di dicembre. Insomma, se il buongiorno si vede dal mattino, ognuno può fare le sue valutazioni.
Particolarmente significativo è il dato negativo sul credito. Un segno chiarissimo di come le politiche della Bce non funzionino affatto. Leggiamo in proposito quanto ha scritto ieri l'insospettabile (in quanto sfegatata fan di Draghi) Repubblica:
«I dati mostrano quanto le misure prese in sede di Bce (che si sono dispiegate in pieno da lunedì 9 marzo con l'avvio del Quantitative easing, ma erano ampiamente attese dagli istituti) ancora fatichino a trasferirsi in ossigeno per le imprese. Bisogna anche considerare, infatti, che nel gennaio scorso si erano già tenute le due aste Tltro della Bce che hanno portato denari a costo praticamente azzerato alle banche, che però li dovrebbero impiegare nell'economia reale e non investendo in titoli di Stato o simili. All'annuncio del 5 giugno scorso, infatti, la Bce spiegò che quelle aste erano "finalizzate a migliorare l’erogazione di prestiti bancari a favore del settore privato non finanziario dell’area dell’euro"».
Evidentemente, neppure nella redazione di uno degli organi ufficiali del blocco eurista si riesce a dar credito agli effetti sull'economia reale della mossa di Draghi.
Il quadro non è dunque così roseo come vorrebbero far credere i propagandisti renziani. E questo nonostante la particolarissima congiunzione astrale di cui abbiamo parlato. E che di sicuro non potrà durare troppo a lungo. Certo, siamo appena a marzo, ma ad oggi i dati sono questi. E il trionfalismo del capo del governo potrebbe presto rivelarsi un'arma a doppio taglio.
Senza dubbio Renzi penserà di venirne fuori completando la digitazione del Pin, disegnando cioè un Belpaese addomesticato e senza opposizione. Un sogno (per noi un incubo) che difficilmente potrà realizzarsi, ma comunque insufficiente a garantire il successo.
Vi ricordate di Monti? Per un intero anno poté governare con il parlamento ai piedi e la stampa sempre plaudente. Risultati? In termini economici un disastro, in termini politici (Scelta Civica) un disastro anche maggiore. Certo, il fiorentino è assai più furbo, ma anche i furbi sanno che i nodi prima o poi (e noi speriamo più prima che poi) vengono al pettine. Di sicuro quel che verrà a galla ben presto - al di là di un prevedibile quanto insignificante rimbalzino - è la verità sulla prosecuzione di questa interminabile crisi.
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