Una persona che conosco possiede dei call center e, quando ci
incontriamo, mi racconta della sua impresa che dà lavoro a tanta gente,
nel sud Italia. Li paga 3-4 euro l'ora ma «sono tutte persone che
altrimenti sarebbero a casa far niente o finirebbero nella malavita»,
dice lui, quindi lui svolge un'utilissima funzione sociale, infatti gli
vogliono bene.
Mi sono venuti in mente, i suoi orgogliosi racconti, mentre leggevo la testimonianza
di un muratore siciliano che, su 1.300 euro al mese di stipendio, deve
restituirne 300 al datore di lavoro: «È pur sempre meglio di niente»,
dice lui.
La prassi, rivela l'inchiesta, è tutt'altro che isolata ed è un nuovo
spettacolare passo nella direzione che conosciamo. Non solo ci sono
meno diritti e meno salario, ma c'è un convincimento che è ormai entrato
nella testa di tutti - a partire dai più giovani - e cioè che qualsiasi forma di lavoro, a qualsiasi reddito e in qualsiasi condizione è ormai benvenuta, perché «è meglio di niente».
È questa, la prigionia mentale in cui ci hanno ridotto trent'anni di
lotta di classe dall'alto verso il basso. Ed è stata una vittoria
epocale, in termini di egemonia culturale e di pensiero diffuso: aver
portato alla gratitudine per condizioni di lavoro sempre più infime,
perché «è meglio di niente».
Così è avvenuto, in questo Paese e non solo: riforma del lavoro dopo
riforma del lavoro, con tutto l'apparato mediatico a reti unificate a
spiegarci ogni volta «che così si crea più occupazione».
L'erba cattiva - pessima - ha cacciato quella buona, ma ci hanno
persuaso che è l'unica cosa che siamo degni di mangiare: ragion per cui
la troviamo ottima.
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