Prosegue
il dibattito sul “destino dell’euro”. Il “monito degli economisti” è
inadeguato perché nega il bisogno di un radicale cambiamento della
struttura delle relazioni sociali. Non è possibile una riedizione del
Welfare. Perché abbiamo bisogno di una bussola per affrontare la crisi.
Poco più di un anno fa un folto gruppo di economisti di diversi paesi ha lanciato un “monito”, pubblicato sul Financial Times del 23 settembre 2013, che ora viene riproposto da Emiliano Brancaccio sull’ultimo numero di Critica marxista1.
Il succo dell’appello era ben riassunto dalle conclusioni:
Occorre
essere consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e
affidando il riequilibrio alle cosiddette “riforme strutturali” il
destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si
esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In
assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della
politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.
Ma che cosa succede se la caduta degli
investimenti pubblici e privati, l’accentuato squilibrio tra i redditi,
l’esplodere della disoccupazione di massa e perfino l’eventuale futura
fuga dell’euro, sono sintomi della crisi, non le sue cause?
Succede – com’è successo – che il monito lascia il tempo che trova, e
cioè non sortisce gli effetti sperati. Né basta insistere sulla sua
attualità, come fanno ora Brancaccio e Zezza sul citato numero di questa
rivista, per ottenere qualcosa di diverso.
Quand’è infatti che un monito “funziona”? Ciò
accade quando mette in guardia i destinatari nei confronti di un
comportamento che già sanno foriero di conseguenze negative.
Se, invece, essi immaginano che quel comportamento corrisponda ancora
alla fisiologia dell’organizzazione sociale, occorre prima convincerli
del fatto che le difficoltà di cui si soffre sono dovute a quelle
pratiche sociali, per poi prospettare la positività di un comportamento alternativo.
Ma se i destinatari del monito non concepiscono la possibilità di
procedere con un’altra modalità, il monito cadrà nel vuoto, e cioè non
produrrà alcun effetto. Se, invece di limitarsi a richiamare le
sollecitazioni del Keynes di Le conseguenze economiche della pace, gli estensori del monito avessero tenuto presenti le dinamiche sociali che impedirono ai
cittadini dei paesi europei di convenire con le sue anticipazioni sulle
nefaste conseguenze del Trattato di Versailles, forse avrebbero potuto
confrontarsi in maniera più proficua con le difficoltà che incombono su
di noi. Ma qual è la natura del problema che dobbiamo affrontare, e
perché la sua soluzione richiede qualcosa di più dell’accettazione di un monito?
Capire la crisi
Si ripete di continuo che la società sta attraversando un crisi profonda, addirittura epocale. Pochi si rendono però conto del significato di
questa espressione. La maggior parte delle persone interpreta, infatti,
gli eventi in un orizzonte di continuità con il passato; continuità che
sarebbe stata arbitrariamente interrotta da comportamenti prevaricatori altrui,
che avrebbero scatenato la crisi.
Ma la crisi non è “questa cosa”. Non è
cioè imputabile al comportamento deviante di qualcuno, bensì è quel
sofferto processo che demarca l’eventuale passaggio da un modo di
essere della società e degli individui a un altro profondamente diverso.
Questa proposizione non va però recepita in forma ingenua, appunto perché la società subisce quel processo come un qualcosa che si impone su di essa facendola patire, e proprio per questo frappone forti resistenze a riconoscere i problemi emersi come un prodotto delle sue stesse conquiste.
Infatti, i comportamenti ereditati non producono più i risultati
positivi che in passato garantivano, e più si cerca di affrontare le
difficoltà emerse con quelle pratiche sociali, più si ottengono effetti
contraddittori. È così necessario sviluppare la capacità di formulare i problemi in
modo nuovo, per sperare di risolverli su una base sociale diversa da
quella sulla quale hanno preso corpo, in conseguenza dello stesso
sviluppo che essa ha favorito.
Il monito è inadeguato a svolgere questo compito,
appunto perché per sua natura nega questo bisogno di un radicale
cambiamento della struttura delle relazioni sociali, cambiamento il cui
svolgimento non è già noto. Prima di approfondire nel concreto
perché, a mio avviso, anche il “monito degli economisti” soffre di
questo limite, cercherò di chiarire la tesi che sto esponendo con un
esempio storico. Com’è noto, nell’ambito delle famiglie ci sono stati
anche in passato conflitti e incomprensioni. Ma proprio perché fino alla
fine degli anni Cinquanta la famiglia come istituzione sociale “reggeva”
quale espressione della cultura ereditata, i moniti dei preti in
confessionale e dai pulpiti bastavano – non già per risolvere quei
conflitti, ma per farli evolvere in modo riproduttivo, cioè per farli svolgere il meno distruttivamente possibile sulla base culturale esistente.
Ciò determinava la conferma della solidità di quella base. Quando, a
partire dalla metà degli anni ’70, la famiglia ha cominciato ad entrare in crisi,
quei moniti hanno via via finito col divenire inefficaci. (Si pensi al
mutamento corrispondente all’introduzione del divorzio, che cancellava
la natura di sacramento del matrimonio.) Nel giro di pochi decenni, se e
quando qualche famiglia si è posta il problema di superare le crisi che
si manifestavano al suo interno, non si è rivolta più al prete, ma al
terapeuta. L’intervento di quest’ultimo, che in nessun caso si risolve
in un monito, dimostra che i membri della famiglia sono diventati
consapevoli di soffrire di un problema che non capiscono e non dominano
e, per affrontarlo coerentemente, debbono accantonare la vecchia
credenza che esso sia causato dai comportamenti colposi o stravaganti di
qualcuno di loro, per cominciare ad entrare in una realtà nuova nella
quale non sanno orientarsi spontaneamente. Il quadro generale cambia
così radicalmente, col concepimento dell’embrione di un vero e proprio rivoluzionamento culturale, anche se questo non corrisponde ancora alla nascita di una nuova forma dell’individualità sociale.
Se posso esprimermi con una metafora: la crisi è
una sorta di parto, col quale la società e gli individui sono
sollecitati a dare alla luce nuove forme della socialità. Le condizioni
che impongono l’elaborazione di queste forme, pur essendo state
concepite all’interno della cultura che dava corpo all’umanità nel
momento storico immediatamente preesistente, non possono più operare
attraverso quella mediazione senza causare una decadenza. Per questo
spingono per conquistare una forma corrispondente alla natura implicita
in ciò che potenzialmente sono. Come sottolineò Marx:
ad un certo punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società incappano (geraten)
in una contraddizione con i rapporti di produzione dati o, per
esprimersi in termini giuridici, con i rapporti di proprietà sulla base
dei quali fino a quel momento si erano estrinsecate. Da forme che
garantivano uno sviluppo delle forze produttive, quelle relazioni si
trasformano in catene. Si entra allora in un’epoca di rivoluzionamento
sociale2.
La semplificazione storica insita nel monito
Gli economisti che hanno sottoscritto l’appello obietteranno: «ma noi vogliamo un cambiamento! Rivendichiamo l’abbandono delle politiche di austerità che sono state imposte in Europa negli ultimi decenni. Vogliamo un rilancio degli investimenti pubblici e privati; vogliamo una redistribuzione dei redditi, anche per sostenere la domanda; vogliamo un
aumento dell’occupazione». Un appello che echeggia lucidamente le
numerose esortazioni fatte da Keynes negli anni ’30, per fronteggiare la
Grande Crisi. Ora, è senz’altro vero che i neoliberisti sono fissati
alle stesse forme ideologiche di pensiero che dominavano prima del trionfo del keynesismo, per cui un’opposizione che rivendichi le politiche keynesiane può sembrare all’altezza
della situazione, in quanto esprimerebbe la necessaria “resistenza”. Ma
chi vuole affrontare i problemi di cui soffriamo può veramente
abbandonarsi a una sorta di coazione a ripetere ormai del tutto
anacronistica? Se il contrasto tra Keynes e i conservatori dell’epoca
rifletteva una condizione culturale nella quale il nucleo centrale della
soluzione consisteva nell’adeguarsi alla fine del laissez faire3,
con l’intervento diretto dello Stato nel processo produttivo, siamo
ancora a quel livello o il quadro generale è profondamente cambiato? Chi
resiste vuole impedire quello che considera come uno stravolgimento
regressivo delle forme di vita. Ma si tratta di una difesa dei rapporti
storici preesistenti al neoliberismo. In questa dinamica non c’è,
dunque, nulla di innovativo, bensì solo la ripetizione della storia
passata.
Certo, come ci ha insegnato Fachinelli, con il mondo ereditato bisogna fare i conti perché esprime ciò che siamo,
cosicché nessuno può pretendere di sentirsi così libero da poter
ricominciare la storia da zero. Ma c’è una differenza profonda tra una
pura e semplice ripetizione e quella che Fachinelli definisce come una ripresa. L’interazione col mondo
può infatti corrispondere ad una riedizione pressoché puntuale del già dato; oppure ad un movimento che, tenendo presenti alcuni
elementi di partenza, li trasfigura in una situazione incomparabile con
la prima; oppure ancora ad una ripetizione che la conferma in termini
ulteriormente impoveriti, degradati. […] La prima [e la terza] le
chiameremo repliche, per rappresentare una riproduzione senza originalità, […] la seconda ripresa, per indicare un ricominciamento verso l’avanti, modificatorio4.
La crisi dello Stato sociale
Per sostenere che un «rilancio degli investimenti
pubblici e privati», accompagnato da una «politica redistributiva e da
una crescita del lavoro», sia sufficiente per farci uscire
dalla crisi si deve credere che la crisi che stiamo attraversando sia
cominciata col crollo delle borse del 2007-2008 e si protragga solo a
causa delle politiche neoliberiste.
Ma sarebbe una ingenuità
inconcepibile. La corretta datazione degli eventi è infatti essenziale,
perché il trionfo postbellico trentennale dello Stato sociale keynesiano ha rappresentato una discontinuità nel
puro e semplice processo di riproduzione e di sviluppo dei rapporti
capitalistici. E la parabola di quella formazione sociale si è chiusa
dalla metà degli anni ’70, con l’esplodere di una sua crisi.
Nella maggior parte delle analisi la portata di quell’evento è stata sin
qui sottovalutata o ignorata. Qualcuno arriva addirittura a considerare
lo stesso sviluppo di quella formazione sociale come «un’eccezione»5. Ora, un’eccezione è «ciò che può essere tolto», cioè un evento accidentale che non fa la storia, la cui casualità permette di espungerlo nella ricostruzione dei processi analizzati, per ridurli a ciò che appare essenziale. Ma se si cancella l’essenzialità dello Stato sociale ci si preclude la possibilità di affrontare i problemi emersi con la crisi che sta decretando la sua dissoluzione. Non ci si starebbe confrontando con la propria crisi – cioè con la propria incapacità, come organismi dei lavoratori, di fare i conti con i propri limiti culturali – bensì un fenomeno causato da altri (politici
e imprenditori), con i loro comportamenti negativi, ai quali si sarebbe
del tutto estranei. Per questo il conflitto finisce col diventare
puramente difensivo e, dunque, ripetitivo.
Ora, che lo Stato sociale non avrebbe
dovuto esser considerato come la forma ultima dello sviluppo sociale era
stato anticipato proprio da colui che più si era battuto per la sua
affermazione, John M. Keynes. Nella Teoria Generale, scritta nel 1936, aveva previsto che l’intervento pubblico avrebbe, «nel giro di un paio di generazioni (!), risolto il problema della scarsità del capitale», e ciò avrebbe permesso «l’eutanasia dei percettori di rendite e la scomparsa del crescente potere oppressivo dei capitalisti»6. Da allora il peso relativo della spesa pubblica nella formazione del Reddito Nazionale dei paesi europei – sulla quale si basava la
politica keynesiana del pieno impiego – è mediamente più che
raddoppiato, passando dal 20% circa a poco meno del 50% del Pil, e lo
stesso Reddito Nazionale in termini di prezzi costanti è aumentato mediamente di circa il 700%. In termini di prodotto materiale l’aumento è stato poi ben più poderoso –
da venti a trenta volte – appunto perché la produzione dei beni e dei
servizi ha avuto, grazie al vertiginoso aumento della produttività, una
rilevantissima caduta in termini di valore, cioè dei costi di
produzione.
La maggior parte degli economisti7
ha interpretato l’anticipazione di Keynes sul futuro del Welfare in
maniera completamente stravolta, sostenendo che egli avrebbe previsto
per lo Stato sociale la «generazione automatica»8 di una situazione positiva, nella quale la società avrebbe goduto senza intralci degli effetti di quest’aumento della produttività. Ma non è così. La tesi di Keynes è, infatti, addirittura opposta. Il cambiamento avrebbe in un primo momento «fatto del male e sarebbe sfociato in problemi di difficile soluzione». Esso si sarebbe pertanto presentato come una «nuova malattia»,
che sollecitava ad «anticipare con terrore l’adeguamento che avrebbe
comportato sull’individuo comune, che avrebbe dovuto sbarazzarsi (discard) della cultura e degli istinti coltivati da innumerevoli generazioni»9.
La fase in cui la scarsità di capitale sarebbe stata superata avrebbe,
cioè, dovuto essere considerata particolarmente preoccupante, perché gli
individui avrebbero continuato, sul piano sociale, a cercare di
procedere inerzialmente, nel modo in cui erano stati abituati a fare da
tantissimo tempo. Per questo il successo dello Stato sociale sarebbe sfociato in una sua crisi, in una situazione di smarrimento generale come quello che stiamo attraversando.
E la possibilità di un’evoluzione alternativa avrebbe richiesto lo
sviluppo di nuove capacità sociali, quello che Marx ha definito come un
«rivoluzionamento».
Come spingersi al di là del “monito”?
L’esperienza insegna che non c’è situazione più pericolosa di quella nella quale chi è smarrito resiste al riconoscimento del suo stesso stato di smarrimento.
Per affrontare una situazione nella quale si è confusi occorre, innanzi
tutto, fare i conti col senso di paura e di impotenza corrispondente e
attivare al massimo la sensibilità, cercando nel contesto dei segni di
orientamento che possono aiutare a individuare la direzione verso la
quale muovere. Ma è da ingenui credere che si tratti di un compito
facile, appunto perché la crisi dimostra che siamo finiti su un territorio col quale non abbiamo alcuna familiarità.
Una situazione descritta egregiamente da Keynes quando stava cercando
di comprendere alcune delle implicazioni della disoccupazione e della
natura contraddittoria del denaro. Scrisse infatti,
la
composizione di questo libro è stata per l’autore una lunga lotta per
fuggire, e così deve essere la sua lettura se l’assalto dell’autore ai
lettori deve avere successo – una lotta per la fuga dalle solite
espressioni e dal solito modo di pensare. La difficoltà non deriva dalle
nuove idee, ma dalla necessità di sfuggire dalle vecchie, che si
ramificano, per coloro che sono stati educati come la maggior parte di
noi, in ogni angolo della nostra mente10’.
Il ricorso alla sensibilità ereditata, per negare
l’esperienza dalla quale si è assaliti, spinge invece a imboccare le
stesse strade che la storia ha dimostrato impraticabili. Il puro e
semplice appello ad «attribuire nuovamente ai poteri pubblici un ruolo
guida nei processi di centralizzazione del capitale nazionale e a
condizionare gli scambi necessari alla centralizzazione su scala
internazionale al rispetto di un nuovo standard del lavoro»11, ad esempio, corrisponde alla convinzione che sia possibile una pura e semplice riedizione del primo keynesismo. Quel keynesismo ha
preso lo spunto proprio dalla convinzione che, nonostante il blocco
dell’accumulazione sopravvenuto con la Grande Crisi, ci fosse lo spazio per riprodurre il lavoro salariato su scala allargata.
Ma questa riproduzione avrebbe dovuto essere praticata su una base
diversa, appunto perché non si sarebbe più trattato di un lavoro che si
scambiava contro capitale, bensì di lavoro che si scambiava contro reddito12.
Chi non è fuorviato da un’interpretazione banale
di quella fase storica – che si racchiude nell’ipotesi che essa sarebbe
stata caratterizzata da un “compromesso” capitale-lavoro – si rende
facilmente conto del perché l’intervento su scala allargata dello stato
corrispondeva a un «rivoluzionamento dei rapporti». Certo, com’è
avvenuto per tutte le trasformazioni storiche, si trattava di un
rivoluzionamento embrionale. Ma ciò non lo rendeva meno “vero”.
A che cosa corrispondeva, infatti, la disoccupazione di massa e la
sottoutilizzazione del capitale produttivo esistente negli anni ‘30?
All’incapacità da parte del capitale di impiegare quelle risorse nella forma sociale che gli era propria. Un comportamento dettato dal fatto che dal loro impiego (investimenti privati) sarebbero scaturite perdite e svalorizzazione della ricchezza esistente. Keynes sostenne che la società poteva procedere a impiegare quelle risorse su una base sociale alternativa attraverso
la spesa pubblica crescente (investimenti pubblici). Coloro che hanno
difficoltà a sperimentare il senso delle trasformazioni non colgono la
portata del cambiamento sociale corrispondente. Per dirla in modo
semplice: quella forza lavoro e quelle risorse materiali cominciarono a
essere impiegate dalla società per soddisfare quei grandi bisogni
collettivi che, da allora, divennero noti col nome di «diritti sociali».
Per avere una misura del fenomeno di cui stiamo parlando va tenuto
presente che, nel trentennio keynesiano, mentre l’occupazione inglese13
del settore privato non agricolo diminuì di circa 1.000.000 di unità
(da 16 milioni a 15), quella pubblica crebbe di 5.000.000 di unità (da
2,5 milioni a 7,5), arrivando a coprire un terzo della forza lavoro complessiva14. La società si “insignoriva” così di quelle risorse che, nel ventennio tra le due guerre, il capitale aveva dimostrato di non saper impiegare. Ci troviamo cioè di fronte all’attuazione pratica di quel passaggio anticipato da Marx nel Terzo libro del Capitale là dove scrive:
la
libertà [nel campo della produzione materiale] può consistere solo in
ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano solo il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come una forza cieca;
che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di
energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più
degne di essa15.
Coloro che non hanno idea della natura storica dei
rapporti produttivi, riducono in genere questi processi a
manifestazioni della volontà di soggetti e di classi, cosicché non
riescono a cogliere i mutamenti strutturali che intervengono
nelle forme della vita umana. Per questo un elemento, che rappresenta un
prezioso svolgimento del pensiero di Keynes, li porta completamente
fuori strada spingendoli a vedere solo una continuità là dove invece c’è anche una
rottura. Di che cosa si tratta? La tesi di Keynes è che l’opposizione
culturale dei capitalisti e dei conservatori all’intervento dello stato
contrastava con i loro stessi interessi, perché la spesa pubblica, oltre a garantire i diritti sociali, avrebbe assicurato quei redditi in assenza dei quali gli stessi investimenti privati non potevano intervenire. L’interesse
delle classi subalterne a uscire dallo stato di miseria cui le
condannava la disoccupazione di massa non sarebbe stato in contrasto con
quello dei capitalisti, perché la spesa pubblica non avrebbe
sottratto risorse alle imprese, ma al contrario le avrebbe fatte
incontrare con la domanda potenziale che restava inespressa fintanto che
continuava a dipendere soltanto dalla spesa privata16.
Per Keynes questo passaggio avrebbe però
garantito uno straordinario sviluppo solo per una fase storica, perché
la crescita del prodotto avrebbe potuto essere coerentemente perseguita
solo fintanto che nella società avrebbe continuato a prevalere la
penuria. Quando il capitale avrebbe cominciato a cessare di essere
scarso e le condizioni di vita ad essere mediamente meno miserevoli, non
si sarebbe più potuto procedere sulla base appena conquistata. La
progressiva caduta del moltiplicatore17,
che si sarebbe manifestata nella sistematica diminuzione dei tassi di
aumento del Pil, avrebbe ridimensionato la capacità dello stato di
creare, con gli investimenti pubblici, il lavoro aggiuntivo necessario a
garantire il pieno impiego, fermo restando il quadro dei rapporti sociali. È bene avere una misura esatta del modo in cui questo fenomeno si è svolto
L’evoluzione del Pil
Si consideri l’evoluzione decennale dell’aumento
del Pil in Italia (fonte: Istat):
1951-1960 5,6%;
1961-1970 5,6%;
1971-1980 3,8%;
1981-1990 2,4%;
1991-2000 1,6%;
2001-2010 0,25%.
Il
progressivo ridursi del tasso di crescita del Pil18 testimonia
un fatto che Keynes aveva lucidamente anticipato. Se l’intervento su
scala allargata dello Stato nel processo economico, oltre a soddisfare i
grandi bisogni sociali, sostiene l’ulteriore accumulazione del
capitale, ciò favorisce un’espansione aggiuntiva della capacità
produttiva, con un progressivo straordinario aumento della produttività
del lavoro. Questo “risparmio” del lavoro necessario per ottenere il
prodotto annuo si trasformerebbe immediatamente in una contrazione della
domanda, se non intervenisse una continua espansione dei bisogni che,
attraverso la mediazione della spesa pubblica e degli investimenti
privati favoriti dell’effetto moltiplicatore, permette di sostituire i
lavori resi superflui dal progresso tecnico con lavori nuovi destinati a soddisfare nuovi bisogni. Solo a questa condizione il progresso tecnico non sfocia nel dilagare della disoccupazione. Ma mentre questo presupposto è dato «nei paesi che non sono all’avanguardia del progresso»19,
via via che un paese conquista per i suoi cittadini un livello di vita
mediamente confortevole, sopravviene una situazione nuova nella quale
esso si dissolve, perché «l’introduzione di mezzi che economizzano l’uso
del lavoro supera il tasso al quale si riescono a trovare nuovi usi per quel lavoro [che viene economizzato]»20.
Vale a dire che anche se i bisogni che si esprimono come domanda
crescono, lo fanno tuttavia meno celermente di come cresce la capacità
di soddisfarli.
Per questo il moltiplicatore diminuisce al migliorare delle condizioni economiche della società. E infatti mentre, da un lato, cresce la
propensione marginale al risparmio (che non si trasforma spontaneamente
in una spesa, e quindi non crea lavoro), dall’altro lato, la
propensione marginale al consumo – che crea lavoro sia direttamente,
attraverso la spesa dei consumatori, sia indirettamente, attraverso gli
investimenti delle imprese – diminuisce. Quanto più questo processo si svolge, tanto più diventa un ostacolo al
puro e semplice protrarsi invariato delle tradizionali politiche
interventiste del primo keynesismo, perché la spesa non genera,
altrettanto facilmente di come faceva in passato, altre spese.
Essendo scomparse le condizioni che avevano
consentito lo sviluppo del Welfare, interviene il bisogno di un
cambiamento radicale, che adegui le relazioni sociali alle nuove
condizioni. Che in questa fase gli individui sperimentino la situazione
in modi diversi non è strano. È cioè del tutto normale che le classi
egemoni dicano “lasciateci fare”, sottomettendovi sempre di più alle
nostre esigenze, perché siamo in grado di rimettere le cose a posto. Ed è
altrettanto naturale che le classi subalterne, che soffrono ben più
gravemente delle difficoltà emerse, sostengano che ci vuole un “vero”
cambiamento, perché è dal tempo della Thatcher – cioè da ben
trentacinque anni – che le classi egemoni ripetono inutilmente che quel
“lasciar fare” avrebbe
garantito
che se si chiudevano posti di lavoro da una parte, era per crearne dei
nuovi da un’altra […] L’eliminare i posti di lavoro improduttivi avrebbe
cioè permesso di risparmiare denaro, per investirlo in più proficue
attività, che avrebbero dato nuovo lavoro21.
Ma questa fantasia è stata confutata
dalla storia. Tuttavia non si può rispondere oggi, come fa Stiglitz, che
«esiste un’ampia scelta di investimenti pubblici che produrrebbero rendimenti elevati, ben più elevati del costo reale del capitale, e questo consoliderebbe i bilanci dei Paesi che li intraprendono»22, affermando implicitamente che lo Stato riuscirebbe addirittura a realizzare un’accumulazione diretta23, cioè potrebbe operare efficacemente proprio in quell’articolazione del processo produttivo dove il privato fallisce.
Una bussola per affrontare la crisi
È di fronte a simili sbandamenti che la questione
dell’orientamento assume un ruolo centrale. La bussola è uno strumento
che ci consente di orientarci anche quando non siamo in grado di farlo sulla base delle nostre percezioni immediate del contesto. Ci permette infatti di organizzare coerentemente il nostro procedere in un ambiente sconosciuto, a condizione, però, che si sappia da dove muoviamo e si abbia un’idea della direzione verso la quale vogliamo
dirigerci. Ma essa non ha alcuna utilità per chi, invece, crede di
dovere o di poter battere sempre il sentiero che gli è noto, pensando
che non riesce a procedere oltre positivamente solo per uno sbarramento arbitrario altrui.
Ora, è evidente che si può e si deve contrastare la convinzione neoliberista che la crisi sia la manifestazione di una mancanza di risorse24, da
riequilibrare con l’austerità, come ci ha insegnato a fare Keynes nel
suo faticoso confronto/scontro con i liberisti degli anni ’30. Ma il
tutto non si può risolvere riaffermando, che basti alimentare la spesa pubblica per creare le condizioni del “superamento della crisi”, appunto perché quella attuale non è una pura e semplice ripetizione della crisi degli anni ’30. Cerchiamo di chiudere la nostra analisi su passaggio essenziale.
Se la mia lettura del pensiero di Keynes è
corretta, la crisi è la conseguenza di uno straordinario sviluppo: le
condizioni economiche dei paesi sviluppati sono infatti cambiate così
radicalmente da far emergere un’insormontabile difficoltà a riprodurre il lavoro salariato sulla scala necessaria a garantire il pieno impiego. Ma se questo è vero non si tratta affatto della questione del futuro dell’euro, bensì di quella del destino del rapporto di valore. Non è cioè la forma particolare del denaro a essere messa in discussione, ma lo stesso rapporto di denaro nella sua generalità,
perché in esso pretende di esprimersi l’universalità dell’attività
produttiva degli esseri umani, mentre in realtà costituisce solo una
forma unilaterale e limitata delle capacità produttive, che non è più
all’altezza dei bisogni in formazione. Nel leggere queste parole è
probabile che sul lettore cali una grande nebbia. Ma è la nebbia che
sopravviene nelle grandi svolte della vita collettiva, come quella che
ci sta investendo. Per questo c’è bisogno di una bussola. Una bussola
che il pensiero di Keynes e quello di Marx possono aiutarci a tarare.
Il primo, dopo averci fornito la giusta terapia
per la disoccupazione di massa imperante nella prima metà del Novecento,
ci dice che quella cura sarà a termine, e il malato sarà veramente
guarito solo «quando uscirà fuori dal tunnel della necessità economica»25 elaborando forme di sviluppo che poggiano sull’accettazione della crescente difficoltà di riprodurre il lavoro e procedano a redistribuire tra tutti le attività necessarie,
proprio per consentire a ciascuno di godere di una libertà produttiva
finora riservata a ristrette classi egemoni. Marx ci prospetta un mondo
nel quale «la grande industria ha creato una nuova base, sulla quale il
lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della
ricchezza», ciò che comporta «un crollo della produzione basata sul
valore di scambio»26. Entrambi ci invitano così a imparare a prendere in mano il nostro destino, che è cosa ben più complessa di quella del decidere del destino dell’euro.
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