di Domenico Tambasco
Diciamo la verità: ci eravamo quasi dimenticati, assorti in surreali discussioni sulle “tutele crescenti”, della presentazione da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del “Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale – anno 2014”[1], redatto dalla Direzione Generale per l’Attività Ispettiva. Documento questo di significativa importanza perché, lungi dal costituire il solito sondaggio dalla dubbia attendibilità o per il tipo di campione prescelto o per la natura delle domande rivolte, è al contrario il dettagliato resoconto dell’attività ispettiva svolta sul campo, nel corso dell’intero anno, dalle unità di vigilanza del Ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail: è, per intenderci, l’ “analisi del sangue” dello stato del lavoro in Italia nel 2014, anno di entrata in vigore del “Jobs Act” 1.0[2].
Trovo un breve trafiletto informativo, dopo un lungo navigare in rete, proprio sul sito del Ministero del Lavoro, dove si fa riferimento alla conferenza stampa del Ministro Poletti che – cito testualmente – “ha sottolineato l’importanza di azioni maggiormente efficienti ed efficaci al fine di evitare la ripetitività di azioni di controllo da parte di soggetti istituzionali diversi. Questo per consentire alle imprese, fra l’altro, la possibilità di operare in maniera tranquilla ed ordinata”.
“Tranquilla ed ordinata”: mi risuonano in testa queste suadenti parole mentre sto quasi per abbandonare la pagina web – in cui, a parte le dichiarazioni del Ministro, non vi è alcuna sintesi dei risultati del rapporto –, quando la curiosità viene colpita da un link posto in calce alla notizia.
Clicco e, tutto d’un tratto, eccomi di fronte ad un vero e proprio “museo degli orrori” o, volendo far riferimento agli “spiriti animali del capitalismo”, ad una vera e propria giungla.
Due dati su tutti colpiscono la mia attenzione, posti in evidenza dalla stessa Direzione Generale per l’Attività Ispettiva: su 221.476 aziende ispezionate appartenenti a tutti i settori produttivi[3], ben il 64,17% sono risultate irregolari (ovverosia 142.132, oltre un’azienda su due[4]) e su 181.629 lavoratori irregolari, il 42,61% si è rivelato totalmente in nero (ovvero 77.387), comportando un’evasione di contributi e di premi assicurativi pari all’astronomica somma di 1.508.604.256,00 euro. Cifre da “legge di Stabilità”.
Che si tratti, poi, di accertamenti relativi a “significativi illeciti di natura sostanziale” e non a mere contestazioni formali, è lo stesso rapporto che lo sottolinea evidenziando, nella lista degli illeciti sanzionati, fattispecie quali il “lavoro nero”[5], “l’utilizzo abusivo di forme contrattuali flessibili volte a dissimulare veri e propri rapporti di lavoro subordinato in funzione elusiva della normativa vigente”[6],
Diciamo la verità: ci eravamo quasi dimenticati, assorti in surreali discussioni sulle “tutele crescenti”, della presentazione da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del “Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale – anno 2014”[1], redatto dalla Direzione Generale per l’Attività Ispettiva. Documento questo di significativa importanza perché, lungi dal costituire il solito sondaggio dalla dubbia attendibilità o per il tipo di campione prescelto o per la natura delle domande rivolte, è al contrario il dettagliato resoconto dell’attività ispettiva svolta sul campo, nel corso dell’intero anno, dalle unità di vigilanza del Ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail: è, per intenderci, l’ “analisi del sangue” dello stato del lavoro in Italia nel 2014, anno di entrata in vigore del “Jobs Act” 1.0[2].
Trovo un breve trafiletto informativo, dopo un lungo navigare in rete, proprio sul sito del Ministero del Lavoro, dove si fa riferimento alla conferenza stampa del Ministro Poletti che – cito testualmente – “ha sottolineato l’importanza di azioni maggiormente efficienti ed efficaci al fine di evitare la ripetitività di azioni di controllo da parte di soggetti istituzionali diversi. Questo per consentire alle imprese, fra l’altro, la possibilità di operare in maniera tranquilla ed ordinata”.
“Tranquilla ed ordinata”: mi risuonano in testa queste suadenti parole mentre sto quasi per abbandonare la pagina web – in cui, a parte le dichiarazioni del Ministro, non vi è alcuna sintesi dei risultati del rapporto –, quando la curiosità viene colpita da un link posto in calce alla notizia.
Clicco e, tutto d’un tratto, eccomi di fronte ad un vero e proprio “museo degli orrori” o, volendo far riferimento agli “spiriti animali del capitalismo”, ad una vera e propria giungla.
Due dati su tutti colpiscono la mia attenzione, posti in evidenza dalla stessa Direzione Generale per l’Attività Ispettiva: su 221.476 aziende ispezionate appartenenti a tutti i settori produttivi[3], ben il 64,17% sono risultate irregolari (ovverosia 142.132, oltre un’azienda su due[4]) e su 181.629 lavoratori irregolari, il 42,61% si è rivelato totalmente in nero (ovvero 77.387), comportando un’evasione di contributi e di premi assicurativi pari all’astronomica somma di 1.508.604.256,00 euro. Cifre da “legge di Stabilità”.
Che si tratti, poi, di accertamenti relativi a “significativi illeciti di natura sostanziale” e non a mere contestazioni formali, è lo stesso rapporto che lo sottolinea evidenziando, nella lista degli illeciti sanzionati, fattispecie quali il “lavoro nero”[5], “l’utilizzo abusivo di forme contrattuali flessibili volte a dissimulare veri e propri rapporti di lavoro subordinato in funzione elusiva della normativa vigente”[6],
fenomeni di “appalto/distacco
illecito o di somministrazione abusiva e/o fraudolenta volti a
realizzare illegittimamente un consistente abbattimento del costo del
lavoro”[7],
abuso nella fruizione della Cassa Integrazione Guadagni in deroga[8],
illeciti in materia di orario di lavoro[9],
sfruttamento di categorie di “lavoratori svantaggiati” [10] quali extracomunitari clandestini, minori, lavoratrici madri e gestanti.
Percentuali notevoli e tuttavia addirittura in calo rispetto ai precedenti anni, calo che l’Autorità ispettiva imputa non ad una maggiore “virtuosità” nelle condotte dei soggetti controllati ma, al contrario, alla contrazione occupazionale in atto nel mercato del lavoro, alla crisi economica generale e alla diminuzione degli interventi ispettivi[11] (questi ultimi dovuti ai continui interventi di “razionalizzazione economica”, ovverosia al progressivo taglio delle risorse disponibili). Rilievo, questo, già svolto alcuni mesi prima dalla stessa Corte dei Conti che, in una deliberazione del 20 ottobre 2014, se da un parte registrava “una significativa e costante riduzione del numero dei controlli”, dall’altra rilevava “un incremento percentuale delle aziende inadempienti rispetto a quelle ispezionate e in assoluto della manodopera irregolarmente occupata”[12]: in poche parole, la classica equazione meno ispezioni - più violazioni.
Tranciante è dunque il giudizio del redattore del “Rapporto”, che afferma come tali dati (ed in particolare quelli sul lavoro sommerso), siano sintomatici “della completa assenza – in un’ampia percentuale di casi – della sia pur minima attenzione ai diritti e alle tutele fondamentali dei lavoratori, nonché ai connessi profili della salute e della sicurezza”[13].
È davvero “la legge della giungla”, certificata nero su bianco in un documento di provenienza istituzionale: gli “spiriti animali del capitalismo” paiono “animaleschi”, più vicini all’ hobbesiano “homo homini lupus” che alla “intrinseca razionalità” veicolata dal “pensiero unico” neoliberista[14]. Il mercato, la cui “mano invisibile” dovrebbe correggere ogni asperità e disfunzione, nella concreta fotografia del mercato del lavoro delineata dal “Rapporto” ora esaminato è al contrario una mano ben visibile, ripresa nel tentativo di demolire l’alveo in cui sono incanalate le forze produttive.
Eppure, a fronte della concreta “esondazione” delle esigenze organizzative, tecniche e produttive aziendali, che hanno “allagato” l’intero contesto socio-economico e in cui sono letteralmente affondate le forze e le istanze del lavoro, si registra “un rapporto tra Stato e società, o piuttosto tra governo e società, segnato da un forte riduzionismo, dove l’unico soggetto sociale ritenuto interlocutore legittimo è l’impresa”[15].
L’impresa e l’imprenditore dunque, unici interlocutori e soggetti ormai solitari in un modello di società quasi totalmente desertificata: la società ad una dimensione, che esaurisce il suo significato nel ristretto perimetro semantico delle società di capitali.
Logico corollario, naturalmente, è la libertà dell’impresa da qualsivoglia controllo di legalità, considerato un fastidioso laccio, un ostacolo al libero dispiegamento delle “spontanee” forze di mercato. Sotto tale angolo visuale possono dunque essere letti due recenti fenomeni, che al contempo acquistano una sinistra luce: la “razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva” prevista dalla legge delega 183/2014 e oggetto di un prossimo decreto attuativo, e il progressivo ridimensionamento del ruolo della magistratura del lavoro.
Partiamo dal progetto di “Agenzia unica per le ispezioni del lavoro”, prevista dall’art. 1 comma 7 lett. l della legge delega e funzionale alla creazione di un’unica struttura in cui dovrebbero essere accorpate le funzioni ispettive oggi svolte separatamente – e con duplicazione di costi ed oneri – dal Ministero del Lavoro, dall’Inps e dall’Inail: potrebbe rappresentare una vera e propria rivoluzione, all’insegna dell’aumento di efficienza e del potenziamento della struttura di vigilanza, se non fosse che tale “rivoluzione” è prevista dalla legge “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”[16]. Nella realtà, invece, sembra concretarsi la traduzione in norma di legge della proprietà associativa: sostituendo due addendi con la loro somma, il risultato non cambia. O addirittura peggiora, se solo si pensa al denunciato - da più parti - smantellamento delle funzioni ispettive, con una riduzione del 20% dell’organico negli ultimi quattro anni[17].
Ormai dichiarato, invece, è il ripetuto tentativo del legislatore, da alcuni anni a questa parte, di “mettere la museruola” alla magistratura del lavoro, tentativo dagli alterni esiti.
Si è cercato, infatti, di vincolare l’attività dei giudici già nel 2010, con l’approvazione nel corpo del cosiddetto “collegato lavoro” di una norma (l’art. 30 della L. 183/2010) con cui si tentava di “imbrigliare” l’attività interpretativa del giudicante, stabilendo che nel caso in cui la disposizione di legge contenesse “clausole generali” (ovverosia termini aperti ad una più ampia valutazione discrezionale del Giudice[18], quali ad esempio “buona fede”, “giusta causa”, giustificato motivo”) il controllo giudiziale dovesse limitarsi esclusivamente “all’accertamento del presupposto di legittimità”, essendogli del tutto precluso ogni “sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente”. Principio di per sé meramente propagandistico, essendo già stato recepito da tempo dalla giurisprudenza nel costante rispetto dell’art. 41 Cost. (secondo il cui disposto “L’iniziativa economica privata è libera”), a meno di non voler intendere la norma come un tentativo di sottrarre dal controllo di legittimità l’apprezzamento degli elementi di fatto (ovverosia la sussistenza in concreto delle dichiarate ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base di determinati provvedimenti datoriali)[19].
Tale norma, se è stata del tutto ininfluente nella prassi applicativa degli anni successivi, ciononostante rileva tutt’oggi come significativo indice di un precisa diffidenza del legislatore nei confronti dei giudici del lavoro. Diffidenza che si è definitivamente espressa, questa volta con impatto prevedibilmente devastante, con l’ultimo decreto attuativo inerente il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”, dove il controllo di legittimità relativo a tutti i licenziamenti si riduce per il giudicante, nella maggior parte dei casi, alla mera dichiarazione dell’eventuale assenza della giusta causa o del giustificato motivo, all’accertamento della cessazione del rapporto di lavoro nonostante un provvedimento dichiarato illegittimo e all’automatica liquidazione, con meccanismo “da contabile”, della scarna indennità matematicamente determinata dalla legge in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore. Basterà riprendere l’acuta analisi svolta da Giancarlo De Cataldo sulle colonne dell’Espresso[20], secondo cui “Il Jobs Act… ridisegna la disciplina dei rapporti di lavoro di fatto ridimensionando il ruolo dei giudici. Giudici estromessi dal controllo sui licenziamenti disciplinari, possibili quando il datore di lavoro provi un fatto materiale ancorché incolpevole: sei arrivato in ritardo perché il tram ha avuto un incidente? Sei fuori. In cambio, qualche mensilità e l’alternativa di una causa lunga, con il giudice relegato a ruolo di comparsa”.
Al sindacato del Giudice, ormai, “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”[21]: viene archiviato, con un tratto di penna, il millenario principio giuridico della proporzionalità.
Anche l’ordinamento si pone, dunque, al totale servizio dell’impresa la cui assoluta centralità e preminenza si esprime, secondo il vocabolario della contemporanea neolingua, nell’ormai incontrastata esigenza “ad operare in maniera tranquilla ed ordinata”.
Percentuali notevoli e tuttavia addirittura in calo rispetto ai precedenti anni, calo che l’Autorità ispettiva imputa non ad una maggiore “virtuosità” nelle condotte dei soggetti controllati ma, al contrario, alla contrazione occupazionale in atto nel mercato del lavoro, alla crisi economica generale e alla diminuzione degli interventi ispettivi[11] (questi ultimi dovuti ai continui interventi di “razionalizzazione economica”, ovverosia al progressivo taglio delle risorse disponibili). Rilievo, questo, già svolto alcuni mesi prima dalla stessa Corte dei Conti che, in una deliberazione del 20 ottobre 2014, se da un parte registrava “una significativa e costante riduzione del numero dei controlli”, dall’altra rilevava “un incremento percentuale delle aziende inadempienti rispetto a quelle ispezionate e in assoluto della manodopera irregolarmente occupata”[12]: in poche parole, la classica equazione meno ispezioni - più violazioni.
Tranciante è dunque il giudizio del redattore del “Rapporto”, che afferma come tali dati (ed in particolare quelli sul lavoro sommerso), siano sintomatici “della completa assenza – in un’ampia percentuale di casi – della sia pur minima attenzione ai diritti e alle tutele fondamentali dei lavoratori, nonché ai connessi profili della salute e della sicurezza”[13].
È davvero “la legge della giungla”, certificata nero su bianco in un documento di provenienza istituzionale: gli “spiriti animali del capitalismo” paiono “animaleschi”, più vicini all’ hobbesiano “homo homini lupus” che alla “intrinseca razionalità” veicolata dal “pensiero unico” neoliberista[14]. Il mercato, la cui “mano invisibile” dovrebbe correggere ogni asperità e disfunzione, nella concreta fotografia del mercato del lavoro delineata dal “Rapporto” ora esaminato è al contrario una mano ben visibile, ripresa nel tentativo di demolire l’alveo in cui sono incanalate le forze produttive.
Eppure, a fronte della concreta “esondazione” delle esigenze organizzative, tecniche e produttive aziendali, che hanno “allagato” l’intero contesto socio-economico e in cui sono letteralmente affondate le forze e le istanze del lavoro, si registra “un rapporto tra Stato e società, o piuttosto tra governo e società, segnato da un forte riduzionismo, dove l’unico soggetto sociale ritenuto interlocutore legittimo è l’impresa”[15].
L’impresa e l’imprenditore dunque, unici interlocutori e soggetti ormai solitari in un modello di società quasi totalmente desertificata: la società ad una dimensione, che esaurisce il suo significato nel ristretto perimetro semantico delle società di capitali.
Logico corollario, naturalmente, è la libertà dell’impresa da qualsivoglia controllo di legalità, considerato un fastidioso laccio, un ostacolo al libero dispiegamento delle “spontanee” forze di mercato. Sotto tale angolo visuale possono dunque essere letti due recenti fenomeni, che al contempo acquistano una sinistra luce: la “razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva” prevista dalla legge delega 183/2014 e oggetto di un prossimo decreto attuativo, e il progressivo ridimensionamento del ruolo della magistratura del lavoro.
Partiamo dal progetto di “Agenzia unica per le ispezioni del lavoro”, prevista dall’art. 1 comma 7 lett. l della legge delega e funzionale alla creazione di un’unica struttura in cui dovrebbero essere accorpate le funzioni ispettive oggi svolte separatamente – e con duplicazione di costi ed oneri – dal Ministero del Lavoro, dall’Inps e dall’Inail: potrebbe rappresentare una vera e propria rivoluzione, all’insegna dell’aumento di efficienza e del potenziamento della struttura di vigilanza, se non fosse che tale “rivoluzione” è prevista dalla legge “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”[16]. Nella realtà, invece, sembra concretarsi la traduzione in norma di legge della proprietà associativa: sostituendo due addendi con la loro somma, il risultato non cambia. O addirittura peggiora, se solo si pensa al denunciato - da più parti - smantellamento delle funzioni ispettive, con una riduzione del 20% dell’organico negli ultimi quattro anni[17].
Ormai dichiarato, invece, è il ripetuto tentativo del legislatore, da alcuni anni a questa parte, di “mettere la museruola” alla magistratura del lavoro, tentativo dagli alterni esiti.
Si è cercato, infatti, di vincolare l’attività dei giudici già nel 2010, con l’approvazione nel corpo del cosiddetto “collegato lavoro” di una norma (l’art. 30 della L. 183/2010) con cui si tentava di “imbrigliare” l’attività interpretativa del giudicante, stabilendo che nel caso in cui la disposizione di legge contenesse “clausole generali” (ovverosia termini aperti ad una più ampia valutazione discrezionale del Giudice[18], quali ad esempio “buona fede”, “giusta causa”, giustificato motivo”) il controllo giudiziale dovesse limitarsi esclusivamente “all’accertamento del presupposto di legittimità”, essendogli del tutto precluso ogni “sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente”. Principio di per sé meramente propagandistico, essendo già stato recepito da tempo dalla giurisprudenza nel costante rispetto dell’art. 41 Cost. (secondo il cui disposto “L’iniziativa economica privata è libera”), a meno di non voler intendere la norma come un tentativo di sottrarre dal controllo di legittimità l’apprezzamento degli elementi di fatto (ovverosia la sussistenza in concreto delle dichiarate ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base di determinati provvedimenti datoriali)[19].
Tale norma, se è stata del tutto ininfluente nella prassi applicativa degli anni successivi, ciononostante rileva tutt’oggi come significativo indice di un precisa diffidenza del legislatore nei confronti dei giudici del lavoro. Diffidenza che si è definitivamente espressa, questa volta con impatto prevedibilmente devastante, con l’ultimo decreto attuativo inerente il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”, dove il controllo di legittimità relativo a tutti i licenziamenti si riduce per il giudicante, nella maggior parte dei casi, alla mera dichiarazione dell’eventuale assenza della giusta causa o del giustificato motivo, all’accertamento della cessazione del rapporto di lavoro nonostante un provvedimento dichiarato illegittimo e all’automatica liquidazione, con meccanismo “da contabile”, della scarna indennità matematicamente determinata dalla legge in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore. Basterà riprendere l’acuta analisi svolta da Giancarlo De Cataldo sulle colonne dell’Espresso[20], secondo cui “Il Jobs Act… ridisegna la disciplina dei rapporti di lavoro di fatto ridimensionando il ruolo dei giudici. Giudici estromessi dal controllo sui licenziamenti disciplinari, possibili quando il datore di lavoro provi un fatto materiale ancorché incolpevole: sei arrivato in ritardo perché il tram ha avuto un incidente? Sei fuori. In cambio, qualche mensilità e l’alternativa di una causa lunga, con il giudice relegato a ruolo di comparsa”.
Al sindacato del Giudice, ormai, “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”[21]: viene archiviato, con un tratto di penna, il millenario principio giuridico della proporzionalità.
Anche l’ordinamento si pone, dunque, al totale servizio dell’impresa la cui assoluta centralità e preminenza si esprime, secondo il vocabolario della contemporanea neolingua, nell’ormai incontrastata esigenza “ad operare in maniera tranquilla ed ordinata”.
NOTE
[1]
Il rapporto è stato presentato in una conferenza stampa il 26 febbraio
2015 dal Ministro del Lavoro Poletti e dal direttore generale
dell’Attività ispettiva Danilo Papa.
[2] Si tratta del D.L. 34 del 20 marzo 2014 convertito in Legge n. 78/2014 (cd “Decreto Poletti”), con cui è stata totalmente liberalizzata la materia dei contratti a termine.
[3] Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale – anno 2014, a cura del Ministero del Lavoro – Direzione generale per l’Attività Ispettiva, pag. 7. In particolare, la ripartizione delle aziende ispezionate in base al settore merceologico è la seguente: 78.815 nel Terziario, pari al 56,23 %; 40.545 nell’Edilizia, pari al 28,92 %; 15.379 nell’Industria, pari al 10,97 %; 5.434 nell’Agricoltura, pari al 3,88%. La maggior parte dell’attività ispettiva, dunque, si è concentrata sul settore dei servizi (“Terziario”), seguita dall’attività di vigilanza nell’Edilizia. Minore, invece, è stata l’attenzione concentrata sull’attività produttiva (Industria) e sull’Agricoltura.
[4] Con riferimento alla sola attività di vigilanza svolta dal Ministero del Lavoro (dunque ad esclusione di Inps e Inail), se si guarda alla percentuale delle aziende irregolari suddivise per settore merceologico, questi sono i risultati: 59% Edilizia; 54 % Industria; 50% terziario; 49% Agricoltura, Rapporto, cit., pp. 8-9.
[5] Rapporto annuale, cit., p. 10.
[6] Rapporto annuale, cit., p. 11.
[7] Rapporto annuale, cit., p. 11.
[8] Rapporto annuale, cit., p. 12.
[9] Rapporto annuale, cit., p. 13.
[10] Rapporto annuale, cit., p. 12-13.
[11] Aziende ispezionate nel 2010: 262.014 – Aziende irregolari: 171.810; Aziende Ispezionate nel 2011: 244.170 – Aziende irregolari : 149.708; Aziende Ispezionate nel 2012: 243.847; Aziende irregolari 154.820; Aziende Ispezionate nel 2013: 235.122 – Aziende irregolari 152.314. Si veda anche Delibera Corte dei Conti n. 11/2014/G del 20 ottobre 2014, indagine di controllo sugli “Effetti del Protocollo di intesa 4 agosto 2010 tra il Ministero del Lavoro, Inps, Inail ed Agenzia delle Entrate in materia di attività ispettiva”, pp. 55 e ss. Si sottolinea come nel biennio 2007-2008 i controlli sulle aziende svolti dagli Ispettori del Ministero del Lavoro siano stati 393.491, mentre quelli dell’Inps e dell’Inail 272.231. Rispetto al periodo 2010-2013 si registra, dunque, una contrazione di ben 106.945 unità, pari al 31.26 %, dovuto non solo alla fase recessiva, ma anche e soprattutto alla riduzione delle risorse e del contingente degli ispettori del lavoro nonché del personale di vigilanza (passati da 5.650 unità nel 2011 a 5.406 unità nel 2013).
[12] Delibera Corte dei Conti n. 11/2014/G del 20 ottobre 2014, indagine di controllo sugli “Effetti del Protocollo di intesa 4 agosto 2010 tra il Ministero del Lavoro, Inps, Inail ed Agenzia delle Entrate in materia di attività ispettiva”, p. 3.
[13] Rapporto annuale, cit., pag. 5.
[14] Si veda l’ormai storico articolo “Il pensiero unico” di Ignacio Ramonet, pubblicato su Le Monde Diplomatique nel gennaio 1995.
[15] Stefano Rodotà, Coalizione sociale, articolo in La Repubblica del 15 marzo 2015, p. 26.
[16] Art. 1 comma 7 lett. l Legge 183/2014.
[17] Si rimanda all’articolo di Luigi Franco, Jobs Act, i peccati originali della nascente agenzia unica per le ispezioni, da Il Fatto Quotidiano, pagina web del 28 dicembre 2014.
[18] Luigi Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. It. Dir. priv., 1986, p. 5-19, ora in Metodo e Teoria Giuridica, Milano, Giuffrè, 2011, pp. 165-178, in cui il giudizio secondo una clausola generale (ad esempio la “buona fede”) “svolge una valutazione alla stregua di tipi normali di comportamento riconosciuti come norme sociali, dai quali il giudice trae un criterio di interpretazione del regolamento negoziale oppure un criterio di esplicitazione di modalità esecutive".
[19] Si rimanda a De Luca Tamajo – Mazzotta-Grandi-Pera, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, Cedam, 2013, pp. 2534 e ss.
[20] Giancarlo De Cataldo, Giustizia? Stanno rottamando pure i diritti”, da L’Espresso pagina web del 12 marzo 2015.
[21] Art. 3 comma 2 dlgs. 23/2015, “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, entrato in vigore il 7 marzo 2015.
[2] Si tratta del D.L. 34 del 20 marzo 2014 convertito in Legge n. 78/2014 (cd “Decreto Poletti”), con cui è stata totalmente liberalizzata la materia dei contratti a termine.
[3] Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale – anno 2014, a cura del Ministero del Lavoro – Direzione generale per l’Attività Ispettiva, pag. 7. In particolare, la ripartizione delle aziende ispezionate in base al settore merceologico è la seguente: 78.815 nel Terziario, pari al 56,23 %; 40.545 nell’Edilizia, pari al 28,92 %; 15.379 nell’Industria, pari al 10,97 %; 5.434 nell’Agricoltura, pari al 3,88%. La maggior parte dell’attività ispettiva, dunque, si è concentrata sul settore dei servizi (“Terziario”), seguita dall’attività di vigilanza nell’Edilizia. Minore, invece, è stata l’attenzione concentrata sull’attività produttiva (Industria) e sull’Agricoltura.
[4] Con riferimento alla sola attività di vigilanza svolta dal Ministero del Lavoro (dunque ad esclusione di Inps e Inail), se si guarda alla percentuale delle aziende irregolari suddivise per settore merceologico, questi sono i risultati: 59% Edilizia; 54 % Industria; 50% terziario; 49% Agricoltura, Rapporto, cit., pp. 8-9.
[5] Rapporto annuale, cit., p. 10.
[6] Rapporto annuale, cit., p. 11.
[7] Rapporto annuale, cit., p. 11.
[8] Rapporto annuale, cit., p. 12.
[9] Rapporto annuale, cit., p. 13.
[10] Rapporto annuale, cit., p. 12-13.
[11] Aziende ispezionate nel 2010: 262.014 – Aziende irregolari: 171.810; Aziende Ispezionate nel 2011: 244.170 – Aziende irregolari : 149.708; Aziende Ispezionate nel 2012: 243.847; Aziende irregolari 154.820; Aziende Ispezionate nel 2013: 235.122 – Aziende irregolari 152.314. Si veda anche Delibera Corte dei Conti n. 11/2014/G del 20 ottobre 2014, indagine di controllo sugli “Effetti del Protocollo di intesa 4 agosto 2010 tra il Ministero del Lavoro, Inps, Inail ed Agenzia delle Entrate in materia di attività ispettiva”, pp. 55 e ss. Si sottolinea come nel biennio 2007-2008 i controlli sulle aziende svolti dagli Ispettori del Ministero del Lavoro siano stati 393.491, mentre quelli dell’Inps e dell’Inail 272.231. Rispetto al periodo 2010-2013 si registra, dunque, una contrazione di ben 106.945 unità, pari al 31.26 %, dovuto non solo alla fase recessiva, ma anche e soprattutto alla riduzione delle risorse e del contingente degli ispettori del lavoro nonché del personale di vigilanza (passati da 5.650 unità nel 2011 a 5.406 unità nel 2013).
[12] Delibera Corte dei Conti n. 11/2014/G del 20 ottobre 2014, indagine di controllo sugli “Effetti del Protocollo di intesa 4 agosto 2010 tra il Ministero del Lavoro, Inps, Inail ed Agenzia delle Entrate in materia di attività ispettiva”, p. 3.
[13] Rapporto annuale, cit., pag. 5.
[14] Si veda l’ormai storico articolo “Il pensiero unico” di Ignacio Ramonet, pubblicato su Le Monde Diplomatique nel gennaio 1995.
[15] Stefano Rodotà, Coalizione sociale, articolo in La Repubblica del 15 marzo 2015, p. 26.
[16] Art. 1 comma 7 lett. l Legge 183/2014.
[17] Si rimanda all’articolo di Luigi Franco, Jobs Act, i peccati originali della nascente agenzia unica per le ispezioni, da Il Fatto Quotidiano, pagina web del 28 dicembre 2014.
[18] Luigi Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. It. Dir. priv., 1986, p. 5-19, ora in Metodo e Teoria Giuridica, Milano, Giuffrè, 2011, pp. 165-178, in cui il giudizio secondo una clausola generale (ad esempio la “buona fede”) “svolge una valutazione alla stregua di tipi normali di comportamento riconosciuti come norme sociali, dai quali il giudice trae un criterio di interpretazione del regolamento negoziale oppure un criterio di esplicitazione di modalità esecutive".
[19] Si rimanda a De Luca Tamajo – Mazzotta-Grandi-Pera, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, Cedam, 2013, pp. 2534 e ss.
[20] Giancarlo De Cataldo, Giustizia? Stanno rottamando pure i diritti”, da L’Espresso pagina web del 12 marzo 2015.
[21] Art. 3 comma 2 dlgs. 23/2015, “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, entrato in vigore il 7 marzo 2015.
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